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I tempi di crisi sono tempi di contraddizioni. Non fa eccezione il tempo presente, incatenato a un modello antropologico proiettato verso l'inesistente - il «progresso», il futuro - e perciò condannato a fissare sempre più in alto l'asticella delle sue promesse per giustificare la distruzione che semina nell'esistente. La contraddizione più macroscopica, quella logica, è nello scarto ormai osceno tra gli scopi dichiarati e gli esiti conseguenti. Lì si annida l'arsenale apologetico della colpevolizzazione delle vittime, della coazione a ripetere, dello scadimento di parola e pensiero nel bar-bar degli slogan, delle emozioni a comando, degli appelli all'irrazionalismo onirico delle «visioni» e dei «sogni» e di altri numeri già descritti altrove.
Chi viola la logica viola la realtà. Il principio di non contraddizione non si dimostra né si contesta perché il suo postulato è il dato - ciò che è dato, non ciò che è prodotto o interpretato - dell'esperienza di tutti (sensus communis). E chi viola la realtà, violando tutto ciò che è reale, non può che trovare asilo in un'immaginazione malata perché inconsapevole, nella credenza che le cose, come nella cosmogonia biblica, si creino e si avverino perché ripetute dai giornali, dai manifestanti, dagli hashtag, dai pappagalli dell'accademia e delle istituzioni.
Se il risultato è alienato e contraddittorio, non può non esserlo la teoria a monte, quella in cui si celebra la «libertà» dei tempi moderni e venturi già nell'etimo dei suoi miti corollari: il liberalismo politico, il liberismo economico, le liberalizzazioni dei servizi, la libera circolazione di merci, capitali e persone, la libertà dei costumi e del sesso che deve scardinare ogni cosa, anche i vincoli della biologia, l'Occidente libero, la crociata contro un passato corrotto, provinciale e bigotto dai cui pesi bisogna liberarsi. Per realizzare tutto ciò, detta teoria si traduce nella prassi palingenetica e spavalda delle «riforme» i cui frutti ricadono tutti e senza margini di deroga nel novero... delle limitazioni delle libertà, in ogni variante possibile.
La libertà è schiavitù, scriveva George Orwell immaginando la società del futuro. E oggi sembra non esistere problema, piccolo o grande, vero o presunto, che non si possa risolvere introducendo nuove costrizioni e divieti. Non accade mai, neanche per sbaglio, che il sogno libero dei liberal-liberisti si traduca in una maggiore libertà per i cittadini. Nella gragnola di obblighi mai uditi prima che si abbattono o si abbatteranno sulle loro teste non ci sono solo i più clamorosi, come quello di utilizzare strumenti elettronici per pagare e fatturare, di esibire i documenti per usare un social network, di sottoporsi a trattamenti sanitari invasivi per godere dei diritti più basilari, di consegnare i figli ai precettori di Stato, possibilmente fin dalla nascita, di ripetere a pappagallo i dogmi meteorologici e sanitari del momento o, più semplicemente, di «amare». Più sotto si riproduce una selva di adempimenti, limiti, condizioni, procedure, cavilli, comunicazioni obbligatorie, requisiti, balzelli, scadenze che, messi l'uno sull'altro, formano un muro invalicabile per chi non ha le forze, economiche o criminali, per aggirarlo senza conseguenze. In passato mi sono divertito (si fa per dire) a illustrare come la liberalizzazione di un servizio energetico in monopolio naturale abbia comportato non solo l'introduzione di una pletora di obblighi e di vincoli che prima non esistevano, ma addirittura la nascita di un nuovo soggetto legiferante non previsto dalla Costituzione, elevando così a potenza il peso dell'intervento statale. Ma molti altri esempi sono sotto gli occhi e nella vita di tutti, sicché non mi dilungo.
Dopo avere formato i consulenti economici di Augusto Pinochet ed essersi egli stesso rivolto al dittatore per raccomandargli come riformare lo Stato in senso più liberale, Milton Friedman ebbe spesso a deplorare il regime oppressivo del dittatore cileno, pur apprezzandone i provvedimenti. Non ho motivo di credere che l'economista americano non fosse sincero, ma la sua illusione, che libertà e liberismo possano convivere e coltivarsi a vicenda, è la stessa che stiamo rivivendo oggi quando, come allora, non abbiamo altra via per tenere insieme il baraccone di un sistema contronatura che non serve ai bisogni degli uomini, se non quella di rendere gli uomini servi.
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L'aumento degli obblighi, come l'aumento delle tasse, è una mossa da disperati, di chi non sapendo come cambiare la realtà si illude di incarcerarla nelle proprie fantasie. E a sentire con quanto pathos si promuovono le nuove catene, sempre sotto la scure di piaghe «epocali» e di «emergenze» che incombono, vien da chiedersi come abbia mai fatto la civiltà a resistere e anzi a svilupparsi fino all'altro ieri, immersa com'era in un disordine anarcoide dove le persone - pensate! - potevano scegliere.
L'aumento degli obblighi è anche un aumento della sfiducia, di chi si rinchiude nella gabbia rancorosa della propria eccezione e da lì scruta i suoi simili e si convince, in un crescendo paranoico di paura, che utilizzerebbero ogni briciola di libertà loro concessa per darsi alla superstizione, alla crapula e alla scelleratezza. Se la comunità è degli uomini, chi disprezza gli uomini disprezza la comunità, che infatti si incrina nella morsa delle nuove costrizioni. Le crepe del patto sociale si incrociano, da un lato tra chi non sa governare le conseguenze dei propri fallimenti e chi, disgustato e sfuggente, li deve subire, dall'altro tra i governati stessi addestrati a cercare il «colpevole» tra le proprie fila: lo statale, il vecchio, lo straniero, l'odiatore, l'analfabeta-funzionale, la mamma pancina, l'idraulico mascherato.
Come nelle coppie scoppiate, il coniuge diffidente si illude di riprendere il controllo sorvegliando l'altro fino all'asfissia, nel nostro caso con la collegata idea, insieme disumana e puerile, di trasformare la società in un enorme calcolatore dove tutto è connesso e nulla sfugge a chi amministra il sistema. Dove tutto si può misurare, modificare e sopprimere con la magia sadico-anale di un «click». Ma siccome gli esseri umani non sono macchine, bisogna appunto obbligarli a farsi tali, a riversare nei circuiti elettronici di qualcun altro i loro desideri, segreti, patrimoni, affetti, pensieri, fantasie, dati sanitari e professionali, anche e soprattutto quando non serve o non è raccomandabile farlo, come ad esempio nel caso del voto. Ma non basta avere gettato la rete (in senso ittico) della rete (in senso telematico) sulle menti, ecco allora la pretesa di estenderla all'universalità dei corpi, per ora con la foga altrimenti incomprensibile di spalancarli per legge a un numero arbitrario di iniezioni di Stato, domani con gli impianti biotecnologici di cui si incomincia cautamente a parlare mentre si perfezionano i pretesti: la «comodità», la salute, la sicurezza.
Ma anche questo non basta. Perché un servo incatenato è pur sempre un servo che cova rivolta e la propaganda, anche la più anestetica e raffinata, non può cancellare l'alea di ciò che era ieri il destinatario della scintilla divina, oggi un accrocco inaffidabile di dubbi, remore e sentimenti. La difficoltà di obbligare tutti a tutto chiudendo ogni via di scampo produce allora un'ambizione ancora più delirante, quella di una società che non ha più bisogno di obblighi perché pronta a eseguire gli ordini con la solerzia demente delle macchine. Come? Nell'unico modo possibile: mettendo le macchine al posto degli uomini. L'integrazione - ovviamente forzata - di una «intelligenza artificiale» in ogni settore sta a questa ambizione come la polluzione notturna sta al sogno e chiude degnamente la carnevalata degli «onesti», di una comunità politica che deve solo rispettare sicut ac cadaver le regole, non discuterle né, figuriamoci, interrogarsi su chi ne siano i beneficiari e gli autori.
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Acclarato che i nuovi obblighi non sono mai utili agli scopi per cui li si introduce (qui spiego come e perché), il fine ultimo di queste manovre non può che essere quello antico e direi anzi archetipale di governare senza consenso, qui declinato in un vero e proprio culto di morte dove ai sudditi perfetti e inanimati - le macchine - spetterebbe il compito di disciplinare i sudditi imperfetti perché dotati di un'anima. Nel frattempo occorre però piatire quel consenso e assicurarsi la collaborazione dei carcerandi nell'alzare i muri delle loro prigioni. In ciò soccorre una lunga serie di artifici retorici, alcuni già accennati, altri più specifici, come ad esempio la menzogna pelosa dell'inevitabilità e inarrestabilità di questi processi e, quindi, della necessità di anticiparli per poterli «governare».
Ma più di tutto penso che agiscano i già citati conflitti sezionali, l'avere messo tutti contro tutti - figli contro padri, dipendenti contro autonomi, autoctoni contro alloctoni, destri contro sinistri, borghesi medio-piccoli contro piccolo-medi borghesi ecc. trasformando in scontro qualsiasi pur minima differenza di condizione o di opinione - per far sì che, bramando ciascuno le catene, la censura o la gogna per i propri nemici, e nell'accecamento di un «fate presto» disposto ad avallare la sospensione delle garanzie giuridiche più elementari, finiscano tutti in catene, senza distinzioni. Che poi non è che l'esito di una lotta già latente e strutturale nelle esortazioni alla competitività, al «merito» e al primato del singolo sul mucchio dove l'altro, quando non è un nemico, è comunque sempre un avversario.
Questo ultimo aspetto porta alla luce un'altra contraddizione ancora più spericolata, quella in cui il pretesto di rendere la comunità più coesa assoggettandola a regole condivise trae invece origine dalla disgregazione della comunità e anzi la alimenta, facendo dell'obbligo e dalla sanzione una ripicca, un'arma che ciascuno si illude di puntare contro i propri fantasmi subendone invece il rinculo. È una contraddizione che si assapora vieppiù considerando le apologie dell'obbligo che serpeggiano tra gli obbligati, dove è diventato costume negare l'arbitrio e il pericolo dei nuovi vincoli in quanto, in fondo, non farebbero che istituzionalizzare una scelta, un'inclinazione o un'opinione che si crede di avere sempre coltivato. Ecco allora quelli che tanto loro (loro) pagavano già il cappuccino con la carta gold, loro (loro) facevano già tutte le vaccinazioni, anche quelle raccomandate, loro (loro) già non credevano nell'omeopatia, loro (loro) già non seguivano gli estremisti (?) censurati dal web o dal costituendo Ministero dell'Amore, loro (loro) usavano già nome e cognome su Facebook, loro (loro) registravano già le fatture sul gestionale della Buffetti. Si assiste così a un prodigio, quello in cui la libertà dei singoli serve a negare la libertà di tutti, con un'inversione logica e morale che fino a ieri era davvero difficile immaginare e in cui invece muore oggi l'idea stessa di comunità, pervertitasi alla miseria di una proiezione narcisistica del proprio sé, al fottersene della singolarità altrui come sistema. In breve, al suo contrario.
Anche in questo paradosso, l'ultimo solo in ordine di tempo, si misura la radice ontologicamente corrotta del processo e il suo fondarsi sulla negazione di una realtà e di una volontà la cui mancata presa d'atto non può che partorire l'illusione prometeica dei disperati, di avere sempre desiderato il proprio giogo. Già molti, troppi, si esercitano a ripetere le parole dell'orazione indirizzandole non più al Cielo ma al fango della dominazione terrena (che è poi la vera inversione, la più radicale): «Concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi».
Perché forse intuiscono che altro non sarà loro concesso.
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