indice dei contenuti
Introduzione: Dall'inconscio ai mercati
1. Mito del lungo termine
2. Mito della radicalità
3. Mito della resistenza
4. Infantilizzazione
5. Mito dell'autorità
6. Mito dell'insufficienza
7. Mito del dolore terapeutico
8. Mito del controfattuale fantastico
Conclusione: La terapia che vuol curare se stessa
Dall'inconscio ai mercati
La psicoanalisi freudiana, nata a Vienna negli stessi anni in cui vi nascevano e studiavano Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, offre alla fantasia sincretica del Pedante lo spunto per approfondire le strategie e le aporie comunicative del pensiero politico oggi dominante, che abbiamo altrove definito economia pseudoscientifica. Gli argomenti sviluppati dalla critica scientifica al metodo psicoanalitico - filosofici (Kraus, Popper e Wittgenstein, e in seguito Sulloway, Gellner, Cioffi, Crews, Onfray ecc.), sperimentali (Kline, Eysenck, Wilson) e filologici (Obholzer, Eschenröder, Thornton, Borch-Jacobsen) con l'esposizione delle grossolane falsificazioni di Freud - formano un corpus di strumenti di demistificazione e identificazione dei pattern ragionativi più ricorrenti dei processi pseudoscientifici, specialmente in relazione alla loro pretesa normativa, cioè terapeutica.
I due fenomeni qui accostati condividono la fede in un entità postulata, immateriale e teleologica - l'inconscio per gli psicoanalisti, il mercato (o più spesso al plurale, i mercati) per gli economisti pseudoscientifici contemporanei - che in entrambi i casi assurge a principio immanente e prevalente sugli oggetti storici, mantenendo al tempo stesso un'indeterminatezza metaforica che consente agli addetti di convalidare qualsiasi tesi manipolando una premessa tanto indiscutibile quanto liberamente interpretabile. La pretesa funzione terapeutica della psicoanalisi trova riscontro nella natura normativa di ogni pseudoscienza, tra cui anche quella economica con il suo lessico vulgato: la medicina del rigore, il risanamento dei conti pubblici, il malato d'Europa, la cura Monti ecc.
Ma soprattutto, entrambi i metodi investono buona parte dei propri sforzi dialettici nella giustificazione dei propri fallimenti rispetto all'obiettivo terapeutico dichiarato, inanellando una serie di concettualizzazioni difensive tra loro complementari che è utile conoscere per disinnescare le seduzioni della comunicazione politica contemporanea.
In una terapia psicoanalitica i pazienti si trascinano in lunghissime e costose "cure" la cui durata sarebbe giustificata dalla necessità di ottenere risultati terapeutici duraturi in luogo di effimeri sollievi (mito del lungo termine) intervenendo sulle strutture profonde (?) della psiche (mito della radicalità). L'assenza di miglioramenti, anche dopo anni o decenni di sessioni, sarebbe motivata dalle resistenze opposte dall'inconscio del paziente (mito della resistenza) che indurrebbe quest'ultimo a rifugiarsi in schemi comportamentali regressivi e infantili (infantilizzazione) e a rifiutare le prescrizioni e le interpretazioni terapeutiche dell'analista (mito dell'autorità). Con un'involuzione che sottrae il processo a qualsiasi opzione di falsificabilità scientifica, l'inefficacia della terapia è assunta a prova della necessità di perseverare nel processo (mito dell'insufficienza) e gli eventuali peggioramenti sono interpretati come un salutare ma doloroso passaggio dalla malattia alla guarigione (mito del dolore terapeutico) e quindi, paradossalmente, come evidenze di un miglioramento in atto. Quale che sia l'esito terapeutico - anche il più negativo - ci si consola con la nozione che, in ogni caso, il paziente sarebbe stato peggio se non si fosse sottoposto all'analisi (mito del controfattuale fantastico).
I miti apologetici qui anticipati per analogia trovano riscontri sorprendentemente puntuali nella retorica mercatista ed europeista in cui si identifica, con poche differenze cosmetiche e pochissime eccezioni, l'intero arco politico contemporaneo.
1. Mito del lungo termine
Siamo determinati a fare scelte nel breve periodo per guardare a obiettivi a lungo periodo. (M. Monti, settembre 2012)
I risultati [delle riforme di Renzi] vanno valutati nel medio e nel lungo termine, in un arco di due-tre anni. (A. Merkel, marzo 2014)
Una volta che [i primi segnali di ripresa] si saranno consolidati, non dovremo però leggere in questo rimbalzo ciclico, seguito a una lunga e pesante recessione, l’indicazione che sono state risolte le difficoltà di crescita dell’economia italiana. Le tendenze che ho delineato [...] impongono una lunga transizione verso una nuova organizzazione dell’economia e della società. (I. Visco, giugno 2015)
Il vizio del lungo termine ammorbava il pensiero politico-economico già ai tempi di Keynes, il quale ebbe a liquidarlo con le famose parole: "Nel lungo termine saremo tutti morti!". Ovvero: ciò che è perso in una recessione è già il risultato di azioni di lunga durata e la sua preservazione è prioritaria e propedeutica alla realizzazione di obiettivi futuri. Il nostro tessuto produttivo - attivamente e lucidamente distrutto dalle sedicenti politiche di lungo termine - si è formato in un secolo di condizioni storiche quasi certamente irripetibili, mentre le vite umane falcidiate dalla miseria e dai suicidi non saranno mai recuperate.
Sul piano metodologico va osservato che la verificabilità di un nesso causa-effetto è funzione inversa del numero di agenti che intervengono nel sistema osservato. Collocare i primi effetti di una politica nei successivi due, tre o dieci anni equivale semplicemente a sottrarla alla possibilità di verifica. In un arco di tempo così lungo agiscono cambi di potere, riposizionamenti geopolitici, shock finanziari, innovazioni tecnologiche ecc. che alterano le premesse iniziali. A quel punto si dirà naturalmente che sì, l'obiettivo era raggiungibile e gli strumenti adeguati, ma il destino cinico e baro ha scombinato le carte.
Ma per farla ancora più breve, basterebbe sfidare i sostenitori del lungo termine - quasi sempre vittime inconsapevoli di suggestioni pedagogiche e popolari: Rome wasn't built in a day ecc. - a citare esempi storici di provvedimenti i cui primi effetti positivi si siano palesati solo a distanza di anni. Leggi elettorali? Riforme sanitarie? Privatizzazioni? Nazionalizzazioni? Non sforzatevi: non esistono.
2. Mito della radicalità
Le riforme strutturali. (Anonimo)
Spero di cambiare cultura e modo di vivere degli italiani, altrimenti le riforme strutturali sarebbero effimere (M. Monti, febbraio 2012)
Senza un cambiamento radicale chi potrà fermare il declino? (M. Boldrin, dicembre 2012)
Dobbiamo rifare l’Italia da capo. (B. Grillo, maggio 2013)
La retorica della rottamazione integrale di schumpeteriana memoria esercita un fascino irresistibile e liberatorio sugli intelletti più deboli, specialmente se surriscaldati da una comunicazione di massa interessatamente dedita alla rappresentazione di un Paese incancrenito, irrecuperabile, arretrato. All'idea di migliorare per gradi e per inevitabili compromessi l'esistente si sostituisce l'illusione puerile di ricostruirlo da zero o, nei casi più gravi, di ricostruire culturalmente la stessa umanità che lo abita con l'inquietante ambizione eugenetica di trasformare i fini (gli esseri umani) in uno strumento al servizio dei mezzi (le politiche). In entrambi i casi difetta completamente la consapevolezza del valore, anche economico, della consuetudine e dei suoi corollari di pace sociale, processi lavorativi, prassi legali e contrattuali ecc. alla cui perfettibilità si sostituiscono le macerie di un'incertezza in cui le regole saranno inevitabilmente dettate dal più forte.
Il mito della radicalità non è una strategia apologetica in sé ma prepara il terreno agli altri miti. Una volta fabbricato, il diffuso bisogno di ricostruzione ex novo giustifica tempi lunghi, sacrifici e fede nell'autorità.
3. Mito della resistenza
Il rinnovamento istituzionale, dopo una lunga serie di omissioni e ritardi, ancora fatica a prendere corpo e cozza contro ostacoli e resistenze molteplici. (G. Napolitano, ottobre 2013)
L'Italia forse ha qualche resistenza al cambiamento che, sempre si manifesta come in tutti gli organismi vivi, quando si dà una medicina forte che si capisce che fa superare la patologia e poi ti libera anche dai molti problemi che la patologia stessa ha indotto in tutti i settori. (S. Giannini, settembre 2014)
In medicina il fallimento di una terapia è indice della sua inefficacia o perfettibilità. Non così nel magico mondo della pseudoscienza, dove la causa dell'inefficacia può essere - e di fatto è sempre - spostata dall'agente terapeutico all'oggetto, cioè il paziente. Ovvero: se la medicina non funziona, è perché il malato si rifiuta di guarire opponendo resistenza ai benefici del trattamento. Ne deriva l'ovvia impossibilità di ipotizzare l'inefficacia della terapia - o anche soltanto di migliorarla.
Il successo di una manovra così intellettualmente squallida si spiega con l'enorme potere che essa conferisce ai sedicenti guaritori svincolandoli dall'onere della convalida. Le riforme si qualificano esclusivamente come necessarie. La loro bontà o perfettibilità non è oggetto di dibattito, anzi: non lo sono nemmeno i contenuti. L'unica variabile dell'equazione è la disponibilità del popolo a sottoporvisi.
Il mito della resistenza getta anche una luce sinistra sulla percezione democratica prevalente. Se "la sovranità appartiene al popolo" (Cost. art. 1), chi governa è costituzionalmente obbligato a rappresentarla e tradurla in atti legislativi, non ad agire contro la volontà popolare fiaccandone le resistenze e vantandosi della propria impopolarità. Il senso eversivo di questi messaggi è solo in parte attenuato dal sottinteso dialettico che tali resistenze riguarderebbero settori sociali "privilegiati", "retrogradi" e "arroccati" ai quali puntualmente il destinatario sente di non appartenere: cioè gli altri. Resta però la concezione di un esercizio del potere ostile e punitivo in cui i cittadini sono i nemici, non i mandanti. Una concezione alla quale ci stiamo pericolosamente abituando.
4. Infantilizzazione
La Grecia deve fare i compiti a casa. (A. Merkel et al.)
L'italia, come tutti i paesi del mondo scavezzacolli che vivono di una vista corta... (E. Scalfari, gennaio 2012)
La crisi ha dimostrato che finora abbiamo vissuto nel mondo delle fiabe. (M. Draghi, novembre 2013)
Se i bambini si comportano male, è inevitabile: arriva la babysitter tedesca. (B. Severgnini, luglio 2015)
L'infanzia, nella vita e nella politica, finisce quando si scopre che si fanno le cose che si possono fare, nn quelle che si vorrebbero fare. (Vittorio Zucconi, dicembre 2015)
Rappresentare il carattere o le azioni di un intero gruppo nazionale utilizzando il lessico, le immagini e le metafore dell'infanzia persegue lo scopo umiliante di negarne la capacità di autodeterminarsi e la pari dignità nei consessi esterni. L'insistenza del messaggio lo fa decantare nelle coscienze trasformandolo in autorappresentazione di una collettività sfiduciata e priva di autostima, pronta a lasciarsi condurre e manipolare da chiunque le si proponga credibilmente come guida.
L'infantilizzazione non è solo un incidente retorico penoso, ma si impone come strumento trasversale e fondante dei miti qui descritti, dove agisce un richiamo implicito ma ben percepibile alla pedagogia infantile. Ai bambini si chiede di fare i compiti a casa, per quanto sgradevoli (m. del dolore terapeutico), senza pretendere risultati immediati (m. del lungo termine) e affidandosi con fiducia a un tutore i cui precetti non devono essere discussi (m. dell'autorità). I bambini buoni sono additati a esempio di condotta (retorica del #facciamocome) mentre ai cattivi toccano le parabole terrorizzanti dell'uomo nero - qui a scelta: la Troika, i mercati-che-non-finanziano-più-il-debito, l'ISIS, l'aumento del petrolio, l'inflazione sudamericana, l'isolamento internazionale, la guerra ecc. (m. del controfattuale fantastico).
5. Mito dell'autorità
Ce lo chiede l'Europa. (Anonimo)
Monti ha l’autorevolezza necessaria per sbloccare la situazione. (R. Prodi, novembre 2011)
Altrove è stato osservato che la pseudoscienza mutua le insegne esteriori della scienza per conferire autorità ai propri arbitri. Un'autorità solo formale e non fondata sulla critica dei fatti, ma per questo tanto più efficace per chi vi si sottomette in quanto radicata nella seduzione prerazionale ed emotiva delle credenze fideistiche.
Il mito ha diversi declinazioni. Una è appunto quella di abbracciare tesi, interpretazioni e prescrizioni metodologicamente scorrette o smentite dai fatti ma proferite da individui la cui autorità scientifica e/o morale è formalmente suffragata da titoli accademici, ruoli istituzionali e dai media (autorevole è epitetum ornans nella letteratura giornalistica). In un suo libro A. Bagnai offre una confutazione di questa fallacia ab auctoritate nel campo dell'economia osservando che con la settorializzazione dei saperi un economista, per quanto titolato ed esperto, sa poco o nulla dei settori nei quali non ha una formazione specialistica (il che non ne giustifica comunque il ricorso ad argomentazioni moralistiche e pseudoscientifiche per dissimulare le proprie lacune o fini occulti).
Una seconda e più grave declinazione è quella in cui l'autorità risponde a un bisogno di individui o masse infantilizzati. Nell'invocazione quasi liturgica del "ce lo chiede l'Europa" e nel rito demenziale della cessione di sovranità - che integra una fattispecie del mito di autorità - si celebra l'umiliazione e il senso di minorità di una comunità nazionale che si sottomette a un genitore saggio e all'occorrenza severo del quale, come un figlio indegno, brama l'approvazione e il perdono.
Che individui e popoli non sempre scelgano il meglio per sé è dimostrato in continuazione dalla storia. Non è invece dimostrato né è dimostrabile che il proprio meglio possa essere ottenuto delegandone ai più forti non solo il perseguimento ma finanche la definizione. La nuda logica e gli esempi storici suggeriscono che puntualmente in questi casi prevale l'interesse del tutore su quello dei tutelati. Se i bambini - quelli veri - hanno talvolta la fortuna di trovare chi li accudisca e li guidi saggiamente, gli adulti che si fanno bambini trovano sempre e solo altri adulti più furbi di loro.
6. Mito dell'insufficienza
Per superare la crisi ci vuole più Europa, non meno Europa. (M. Renzi, settembre 2012)
Il Consiglio è dell'opinione che servano sforzi aggiuntivi [... L'italia deve] trasferire ulteriormente il carico fiscale dai fattori produttivi ai consumi, ai beni immobili e all'ambiente (Consiglio dell'Unione Europea, luglio 2014)
Le istituzioni e la politica devono proseguire lungo il sentiero delle riforme strutturali (S. Mattarella, maggio 2015)
Il mito dell'insufficienza prescrive che, se un’azione non produce i risultati sperati, occorre intensificarla senza porre limiti alla sua reiterazione e insistendo ad libitum nella fideistica certezza del successo finale, a prescindere dai risultati nel frattempo osservati. Ancora una volta si tratta di una strategia di chiaro marchio pseudoscientifico, laddove le scienze sperimentali - ma anche il buon senso empirico - imporrebbero di vagliare la validità di un'ipotesi sulla base dei suoi effetti in un arco temporale di osservazione prestabilito.
Due esempi tra centinaia: 1) Dagli anni '90 a oggi (cioè in vent'anni) liberalizzazioni e privatizzazioni non hanno mantenuto nessuno degli obiettivi promessi: riduzione del debito pubblico, abbassamento dei prezzi, miglioramento del servizio, aumento dell'occupazione. Ciò nondimeno si prosegue convintamente sul binario attribuendo il fastidio di questi fallimenti al fatto che non si sarebbe osato abbastanza; 2) Che la precarizzazione del lavoro non aumenti l'occupazione è ormai certificato anche dagli insospettabili. Ciò non distoglie legislatori e think tank dal denunciare i misfatti di un mercato del lavoro ancora troppo rigido.
La demenza collettiva innescata da questo mito è tale da permettere ai pochi che ne traggono vantaggio di giocare a carte scoperte. Il FMI ha recentemente certificato che il debito greco, qualsiasi cosa si faccia, non sarà ripagato. Ciò non ha minimamente frenato le misure di messa in sicurezza del debito (?) già distruttive della capacità produttiva nazionale. Mentre c'è chi crede che insistere sia intelligente, quelli davvero intelligenti saccheggiano il paese a prezzi da discount benedicendo ogni mattina la virtù della perseveranza.
7. Mito del dolore terapeutico
È quasi impossibile che la costruzione proceda tanto in fretta da evitare la pena della distruzione: posti di lavoro perduti, aziende che chiudono. L'avvio del nuovo difficilmente comincia prima che morda il bisogno. La necessità aguzza l'ingegno. (T. Padoa Schioppa, dicembre 2005)
I sacrifici importanti, le riforme difficili [...] sono necessari per il miglioramento della vita economica sociale e civile italiana, e soprattutto nell’interesse dei nostri figli. (M. Monti, febbraio 2012)
Fiscal consolidation is producing results, the pain is producing results (P. C. Padoan, aprile 2013)
L'etica del sacrificio che prepara il riscatto pasquale sposta il dibattito politico nelle profondità antropologiche della religione (i giorni di Cristo nel deserto, la morte in croce, la penitenza, il digiuno quaresimale ecc.), della cultura popolare (no pain no gain, per aspera ad astra ecc.) e di antichi precetti pedagogici, attivando nei destinatari un'adesione istintiva ed emozionale a cui la ragione stenta a porre freno. Sicché non stupisce l'insistenza con cui gli spin doctor ne riprongono il repertorio a un pubblico ansioso di riscattarsi da un passato peccaminoso che nella coscienza storica collettiva - cioè mediatica - porta i tratti della dissolutezza, dell'insostenibilità e dell'egoismo generazionale.
Il mito ne richiama altri tra cui quelli del lungo termine e della resistenza (ad es. dalla tentazione di imboccare "comode scorciatoie" sottraendosi alla prova), ma trova la sua premessa vitale nel concetto di radicalità. La pena del sacrificio è accettabile solo se propedeutica a una rinascita integrale resa necessaria dall'irredimibilità del passato, a un nuovo ordine socio-economico dove gli antichi vizi saranno espiati dall'inevitabile e purificante dolore della transizione. La citazione in incipit di Padoa Schioppa è tratta da un articolo intitolato "La distruzione creativa" dove, in un delirio parareligioso travestito da anedottica economica, si saluta appunto la devastazione del tessuto economico nazionale anche allo scopo di creare una condizione di indigenza e disoccupazione da cui dovremmo - cioè i superstiti dovrebbero - rinascere più forti e competitivi di prima.
Malauguratamente queste idee sono sopravvissute al suo autore, e anzi godono di ottima salute. Ciò che anche qui gli invocatori di crisi fingono di ignorare è che il patrimonio politico, sociale ed economico su cui si masturbano è già il frutto di enormi - ma non necessariamente sgradevoli - sacrifici. I popoli hanno affrontato guerre e privazioni, costruito case, nutrito famiglie e coltivato mestieri, istituzioni, culture: è questo il sacrificio da difendere, conservare e valorizzare. Rinunciarvi per inseguire suggestioni da catechismo significa consegnarlo ai predicatori di sacrificio altrui: gli stessi che raccolgono i proventi sicuri dell'indebitamento pubblico, gli stessi che comprano lo Stato e le attività fallite per un tozzo di pane, gli stessi che rimpiazzano le macerie dei sacrificati con le loro merci e le loro regole.
Gli stessi da cui metteva in guardia il catalano Joan Fuster: "Cal desconfiar dels qui prediquen la idea de sacrifici: és que necessiten que algú se sacrifique per ells".
8. Mito del controfattuale fantastico
Senza l'euro, saremmo in guai molto più seri. (C. A. Ciampi, ottobre 2011)
[Il decreto Salva-Italia] è stato necessario per [...] rovesciare una deriva che stava portando il nostro Paese sempre più vicino a una situazione molto critica, in fondo alla quale vi sarebbero state l’insolvenza del debito sovrano, l’incapacità di fare fronte ai pagamenti dello Stato, la perdita della sovranità economica e la cessione di fatto della responsabilità della politica economica a istituzioni sovranazionali, come il Fondo Monetario, la Banca Centrale Europea e la Commissione. (M. Monti, settembre 2012)
Lo scienziato politico ed economico non ha la possibilità di condurre esperimenti controllati per testare le reazioni di un sistema a stimoli diversi. Immaginare scenari alternativi all'esistente (controfattuali) è un esercizio intellettuale non solo complesso ma soprattutto non verificabile nelle condizioni in cui è formulata l'ipotesi. Il che fornisce un'occasione fin troppo ghiotta allo pseudoscienziato, che infatti trova qui il suo eldorado: una landa dialettica libera e selvaggia dove tutto può essere sostenuto senza opzione di smentita.
Rispetto alle previsioni - di cui il tempo farà prima o poi giustizia - il controfattuale ha il vantaggio di riferirsi a un passato ormai concluso e immutabile che lo blinda da ogni rischio di errore. La sua dubbia utilità scientifica è compensata dal potere suggestivo che conferisce a chi ne fa uso. Se non avessimo fatto X sarebbe accaduto Y, quindi X è bene - dove Y è il controfattuale fantastico (cioè frutto di fantasia) dialetticamente brandito come un fatto reale al pari di X e, per incidere più efficacemente sulle emozioni, edulcorato fino al grottesco. Nel bene o nel male il controfattuale fantastico ha da essere iperbolico come le favole moralizzanti a cui si accomuna, così da terrorizzare o esaltare il pubblico e allontanarlo dai climi freddi della comprensione razionale.
Per quanto aleatorio e inconclusivo, il controfattuale non è quel liberi-tutti da bar a cui ci ha abituato la comunicazione politica. Il suo esercizio andrebbe quantomeno inquadrato nei dati di contesto disponibili (ad es. la certificata sostenibilità del debito pubblico italiano escludeva il rischio di commissariamento per ragioni economiche) e ancorato a precedenti storici comparabili. Per immaginare un'Italia senza Maastricht si può sfogliare un almanacco del 1980, per simulare gli effetti dell'abbandono del cambio fisso leggere i giornali del 1992, per conoscere un'Europa senza Europa prendere un treno fino a Chiasso: fanno 4,00 euro per 49 minuti di viaggio dalla città di origine del Pedante. Troppo per chi può comodamente fabbricare giustificazioni ex post sul divano di casa, al riparo dal fastidio dei fatti.
La terapia che vuol curare se stessa
Ripartendo dall'analogia psicoterapeutica dell'incipit, in un suo aforisma Karl Kraus definì la psicoanalisi "la malattia mentale di cui crede di essere la cura". Il che si applica perfettamente anche alle monolitiche ricette "anticrisi" contemporanee dove, in un acrobatico rovesciamento orwelliano, la terapia ammala e la malattia guarisce.
Quale sarebbe per i terapeuti di via Sarfatti e dintorni la malattia - o peccato - originale della nostra civiltà recente? L'elenco è lungo: spesa a deficit, politiche di piena occupazione, attività imprenditoriali di Stato, flessibilità del cambio, tutela corporativa dei lavoratori, limitazioni alla circolazione di merci, capitali e persone, assenza di vincoli e sorveglianza esterni su bilanci e norme, dipendenza della Banca Centrale dall'esecutivo, prevalenza dello Stato nei settori sociali. In breve: tutti i cardini normativi che hanno traghettato l'Italia dalle macerie di una guerra persa a un benessere accessibile a tutti e tra i primissimi paesi industrializzati del mondo.
Perché quell'eredità deve essere superata? La prima risposta è perché sì: perché lo dicono loro e lo pubblicano pure in inglese sulle riviste internazionali, come non credergli? La seconda è più insidiosa: perché quelle politiche non sarebbero sostenibili. Ma insostenibili in base a che cosa? In base alle loro regole! Non possiamo spendere a deficit perché lo hanno deciso loro con una legge costituzionale, la quale è stata decisa per l'impossibilità dello Stato di finanziarsi emettendo moneta e indebitandosi con la propria Banca Centrale (cioè con se stesso) ma solo ricorrendo all'usura dei privati, la quale impossibilità era stata decisa sempre da loro: nel 1981. Idem per il lavoro: salari e diritti devono essere repressi perché sui mercati aperti competono paesi a parità di cambio e con tutele inferiori alle nostre, la quale apertura è stata decisa da loro per l'Europa e - visti i bei risultati - sarà prossimamente estesa al Nord America. Idem per il cambio fisso, timidamente introdotto nel 1979 e poi coronato dal disastro dell'euro. Idem per le crisi finanziarie esplose con la liberalizzazione dei movimenti e l'abrogazione della legge bancaria americana del 1933.
L'insostenibilità denunciata da questi pulpiti è retroattiva: ieri abbiamo vissutoal di sopra delle nostre possibilità in base alle loro regole di oggi. Un nonsense storico e aristotelico. Un superior stabat lupus di marca colonialista dove le regole dei conquistatori sostituiscono gli ordinamenti e la memoria dei nativi per legittimarne la spoliazione.
La terapia inocula il virus e pretende di curarlo aumentandone le dosi. Nel labirintico avvitamento di cause e effetti si aprono voragini dialettiche per i tanti che, a beneficio di pochi, si prestano a difendere i fallimenti del presente e a condannare i successi del passato. In questo labirinto non vale la pena intrattenersi, se non per prendere atto della pena umana e intellettuale dei suoi degenti e maturare un'unica certezza: che per guarire dobbiamo prima di tutto smettere di curarci.
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