Il 25 settembre uscirà nelle librerie per i tipi di Imprimatur Immunità di legge. I vaccini obbligatori tra scienza al governo e governo della scienza (ISBN 8868307510), un lavoro che ho firmato con Pier Paolo Dal Monte a commento dei dibattiti sollevati dal Decreto Lorenzin sull'estensione e l'inasprimento dell'obbligo vaccinale in Italia.
Chi segue questo blog sa che il tema, affrontato già in altri articoli (qui e qui in modo specifico), mi è caro non solo per l'urgenza dei pericoli che rappresenta una «cessione di sovranità» sui propri corpi a un complesso politico ed economico sempre più disperatamente dedito alla concentrazione dei poteri e alla compressione di libertà e diritti per alimentare un modello di sviluppo ormai inequivocabilmente distruttivo, ma anche perché in esso si incarna con una limpidezza senza precedenti, direi in modo quasi finale, il nodo politico di una democrazia incompresa, mal tollerata e declinante.
Nella prima parte del libro, di cui sono autore, si ripercorrono e si contestualizzano le tappe di una reciproca invasione di campo orchestrata da politici, mezzi di informazione e commentatori, tra scienza e governo, dove la prima è stata imbracciata come testa d'ariete per creare spazi interdetti al metodo democratico (ad es. «il tema dei vaccini dovrebbe stare fuori dalla campagna elettorale») in deroga al primo articolo della nostra Carta, mentre il secondo, nominalmente subordinato al principio «superiore» di un preteso consenso scientifico elevato a totem, umiliava a sua volta il metodo della scienza negandone la complessità e lo statuto necessariamente aperto a ipotesi diverse e divenienti.
Entrambi i poli ne uscivano a brandelli: quello del governo, ridotto alla maschera tecnica e puerile di gendarme di una «cosa giusta» dettata dal supplente teocratico di turno («la scienza» come prima «l'economia», «l'Europa» ecc.), e non più luogo in cui le istanze e i bisogni di tutti si confrontano e si compongono applicando le fonti del diritto; e quello della scienza, la cui missione descrittiva si prostituiva al manganello normativo riducendosi a un'unica, possibile ipotesi - quella governativa.
I frutti di questo duplice attacco hanno colpito due pilastri della coesione sociale - la fiducia nell'autorità per gli uni, nella democrazia per gli altri - segnando una regressione civile di cui vedo pochi precedenti nella nostra storia recente e attorno alla quale registro un'allarmante indifferenza. Dall'oggi al domani, decine di migliaia di persone si sono viste perseguitate e disprezzate, retrocesse a parassiti da estirpare e costrette a nascondersi alle loro stesse comunità e famiglie, mentre nel discorso pubblico si normalizzava l'infamia di strappare i figli ai genitori distruggendone con certezza le vite per proteggerle da rischi discutibili e discussi. Non solo. Festeggiandone l'esclusione dalle scuole si festeggiava il soffocamento in culla del faticoso processo di formazione di una civiltà coesa e della sua identità, premesse necessarie della pace sociale. Ma addirittura più grave è stata un'altra persecuzione, quella già prima applicata a coloro che si pretende oggi di esaltare: i membri di una comunità medico-scientifica esplicitamente costretta all'omologazione dalla prospettiva di un castigo esemplare già comminato ad alcuni suoi esponenti. Si rendeva così evidente il prezzo di una strumentalizzazione che, nell'offrire alla scienza il dubbio onore di sedere tra i banchi del potere, le impediva di produrre e sviluppare i risultati di cui quel potere si sarebbe fregiato.
Nella seconda parte del libro Pier Paolo Dal Monte approfondisce la fallacia fondamentale di elevare la scienza a metodo di governo richiamando lo stato dell'arte della riflessione epistemologica più autorevole e avanzata. Dall'analisi applicata al tema emerge il quadro di una profonda regressione intellettuale che affianca e prepara quella, summenzionata, civile, e alimenta l'illusione primitiva di collocare il risultato scientifico e la testimonianza orientata che ne danno «gli esperti» al di sopra di convenzioni e credenze, del processo storico e degli ineliminabili compromessi operativi in cui in realtà si fondano. Ne scaturisce la necessità di riconoscere, riabilitandola, la praxis politica come unica via possibile per coordinare efficacemente le tante istanze paritetiche e convergenti della complessità sociale. Tra queste anche la scienza, il suo metodo, i suoi risultati.
Nel decidere di pubblicare questo libro non è mancata la consapevolezza di entrare nel «terreno scivoloso» di un dibattito tuttora acceso e violento. Ma in democrazia non possono esistere terreni scivolosi né tabù, che sono anzi il rifugio degli sconfitti dialettici, asserragliati dietro gli scudi di ciò che incute rispetto - la morte, la malattia, la tragedia, l'infanzia, la competenza, la scienza - per confondere e interdire il confronto. La volontà di espugnare queste sacche restituendole alla responsabilità e alla riflessione della base popolare e dei suoi rappresentanti, come è obbligatorio in democrazia, si è aggiunta ai motivi che ci hanno spinto a scrivere. Più in generale, e a lungo termine, ci siamo posti l'obiettvo di denunciare il fantasma metamorfico e strisciante di un «sentimento» tecnocratico che nella scienza, e in particolare nella scienza medica, sembra oggi annunciare la sua incarnazione antropologicamente più profonda e pervasiva.
Segue in anteprima uno stralcio dalla prima parte del libro.
[...] Dopo il 1999, quando con il decreto del presidente della Repubblica n. 355 del 26 gennaio si stabilì che «la mancata certificazione [delle vaccinazioni] non comporta il rifiuto di ammissione dell’alunno alla scuola dell’obbligo o agli esami», confermando peraltro una prassi già in corso da anni, non vi furono né un aumento delle infezioni né una diminuzione delle coperture vaccinali, che anzi aumentarono. L’episodio, che già da solo basterebbe a liquidare qualsivoglia “ragione scientifica” a sostegno di nuove e più draconiane costrizioni, aiuta a ricollocare più correttamente la riflessione nell’ambito che le compete. Nei pochi anni trascorsi dal 1999 al 2017 si è consumato un cambio di paradigma ideologico – non epidemiologico – che ha investito tutti gli ambiti della vita pubblica, in modi diversi ma sempre in ossequio ai medesimi principi e alle medesime premesse che sembrano ispirare la norma in esame, con sorprendenti e puntuali isomorfismi.
Se provassimo a tracciare una matrice di comparazione con i messaggi e le tendenze in voga negli anni post-crisi, scopriremmo ad esempio che l’ulteriore limitazione della sovranità dei singoli sui propri corpi fa eco alle celebrate cessioni di sovranità politica e monetaria su scala nazionale. Che l’eterodirezione di organismi sovranazionali e multinazionali sicuramente indipendenti dai controlli democratici, ma non necessariamente da altre influenze, anche private (come si è visto), è invocata tanto nelle politiche sanitarie (Oms) quanto in quelle economiche, lavorative e sociali (Bce, Fmi, agenzie di rating eccetera). E che ai “moniti”, alle “raccomandazioni” e alle “direttive” di questi organismi sarebbe necessario piegarsi con il massimo zelo proprio perché svincolati dai “particolarismi” e dalle “inefficienze” dei processi politici interni. E ancora, che anche nel nostro caso la pretesa di riformare gli ordinamenti in senso più liberale e “liberista”, quando non libertario, partorisce puntualmente la sua negazione: un supplemento di regolazione (si pensi ai settori energetico, bancario, fiscale), la moltiplicazione degli obblighi e dei controlli e una sempre più profonda compressione della libertà dei singoli. E che il rinforzo di “esperti” mediaticamente sovraesposti si è già attestato come standard operativo quando si tratta di sterilizzare i moventi necessariamente politici del provvedimento di turno, se non di interi governi – come fu il caso di quello tecnico del 2011-2013. Che, infine, l’erosione dei margini decisionali dell’elettorato, da mettere sotto la tutela di un potere sempre più forte, si giustifica denigrandone i membri e rappresentandoli come un pericolo da cui difendersi: «superstiziosi» ed «egoisti» se si tratta di vaccinazioni, «evasori» se c’è da imporre il «risanamento fiscale», «corrotti» e «improduttivi» se patiscono una recessione, «xenofobi» se eccepiscono sulle politiche dell’immigrazione, «provinciali» se mettono in forse i benefici pratici e ideali della «globalizzazione».
A molti osservatori non è sfuggito l’intensificarsi delle alleanze dialettiche, sui rispettivi fronti, tra i sostenitori più titolati dell’obbligo sanitario e alcune personalità accademiche che da anni si spendono per divulgare e difendere il modello economico oggi dominante, di marca finanziaria, vincolista e neoliberista o finanzcapitalista. In queste sovrapposizioni può esserci, a parere di chi scrive, non solo una conferma lampante della matrice comune su descritta, ma anche una sinergia o passaggio di consegne tra una narrazione economicista declinante e quella, più profonda e radicata, de «la scienza». Mentre gli spauracchi dello spread e dei mercati allentano la loro morsa nella credenza del pubblico – come sembrano suggerire anche i più recenti esiti elettorali – il pretesto della “necessità” economica, così efficace in passato, potrebbe rivelarsi non più sufficiente a dissimulare la natura prettamente politica delle decisioni che se ne fanno scudo. Se l’ipotesi fosse confermata, la “necessità” scientifica, o meglio scientista, le subentrerebbe a rinforzo per veicolare lo stesso modello politico e gli stessi interessi, anche economici, che vi si fondano, adducendo non più le ragioni del portafoglio ma quelle più ancestrali e cogenti della salute e del corpo.
I pericoli di questa evoluzione sono stati descritti negli ultimi capitoli. Ci si potrebbe sì consolare raccogliendo i frutti collaterali di un vantaggio sanitario ottenuto a così caro prezzo. Ma se da un lato quel vantaggio appare negato dalle intenzioni – perché palesemente contraddetto da un contesto di definanziamento e ridimensionamento dell’offerta sanitaria pubblica – dall’altro impallidisce miseramente di fronte ai danni promessi dallo strumento adottato. Perché la speranza di ridurre le infezioni aumentando le coperture vaccinali di poche o pochissime unità percentuali ha reclamato anche la disciplina e l’assenso coatto dei professionisti della salute, minando così un presidio di molti ordini più prezioso e vitale: il diritto e dovere dei medici di perseguire le migliori conoscenze e di agire per il bene di ciascun paziente «senza sottostare a interessi, imposizioni o condizionamenti di qualsiasi natura». La coercizione dei sanitari, che già promette di allargarsi ad altre cautele e pratiche “alternative”, è tra tutte la più grave: sia per l’entità della sanzione sia perché, nel colpire chi applica la conoscenza, colpisce la conoscenza.
Questo ultimo aspetto, trattato nei primi capitoli, dimostra che non si può mettere la scienza al governo senza governare la scienza, senza cioè imporle ruoli e obiettivi che le sono estranei, condannandola così alla stagnazione, al servaggio e, in prospettiva, all’inutilità. [...]
Fatte queste considerazioni, chi scrive ritiene che nel contesto corrente qualsiasi obbligo sanitario di massa debba suscitare fortissimi allarmi. Settant’anni fa il nostro Paese si incamminava lungo il sentiero, faticoso e sempre perfettibile, della democrazia costituzionale. Rimangiarsi la strada percorsa da allora introducendo provvedimenti semi-marziali che, per estensione, non hanno precedenti nella storia repubblicana, sulla scorta di “emergenze” discusse e discutibili e in ogni caso affrontabili con altri mezzi, è una sconfitta politica la cui posta in gioco non sono le malattie, ma il modello di libera e fiduciosa convivenza di cui ci siamo dotati. Alla progressiva revoca di quel modello, già accerchiato su tanti i fronti, lo “Stato terapeutico” promette di dare un contributo sempre più determinante e centrale.
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