Secondo il ministero della Salute, nei primi mesi del 2017 è esplosa un’epidemia di morbillo. Qualcuno parla già di «incubo». Al 23 maggio si contavano 2.581 casi dall’inizio dell’anno (lo 0,004% della popolazione nazionale). In tutto il 2016 erano stati 866, nel 2015 solo 259. Secondo il ministro Lorenzin e diversi esperti, il picco sarebbe dovuto al calo delle vaccinazioni passate dal 90% (2013) all’85% (2015) di copertura. Osservando gli anni passati, nel 2008 vi furono 5.312 casi (+793% rispetto all’anno precedente) preceduti da un aumento della copertura vaccinale simmetrico al calo oggi lamentato: dall’86% (2004) al 90% (2007). Nel 2011 i casi erano 4.671 quando ormai la copertura si era ininterrottamente attestata sul 90% o più nei cinque anni precedenti. Su quale base statistica si afferma quindi che l’epidemia del 2017 è dovuta al minor numero di vaccinazioni?
Elaborazione pedante su dati OMS, EpiCentro (al 23/05/2017).
Incrociando i dati epidemiologici regionali dell’ultimo anno e mezzo con le coperture più recenti si conferma l’incoerenza del trend: a una maggiore copertura non corrispondono sempre meno casi. È anzi leggermente vero il contrario (R2 = 9,2%).
Elaborazione pedante su dati EpiCentro (al 23/05/2017).
A prescindere da valutazioni sull’efficacia e sull'importanza del vaccino antimorbillo in sé, è evidente che in queste bande percentuali di copertura le correlazioni con l'incidenza della malattia non sono coerenti, sicché la causazione addotta a giustificare l'«emergenza» in corso non è necessariamente fondata. Soprattutto se si considera che da fine marzo (settimana 13) a oggi i casi sono in costante diminuzione.
Che «non siamo in emergenza» lo ha confermato anche il presidente del Consiglio. Quindi perché ricorrere alla decretazione d’urgenza? E se anche si confermasse un’emergenza morbillo da sottovaccinazione, che c’entrano la varicella e la meningite B? E le altre? Ad abundantiam?
Il tema delle vaccinazioni è caldo, ma è anche costellato di dubbi. Già alla fine del 2015 le perplessità sull’indipendenza dei redattori del nuovo calendario vaccinale dalle industrie produttrici erano oggetto di un Atto di Sindacato Ispettivo al Senato (n. 4-04966) dove si denunciavano conflitti di interesse e lo scarso coinvolgimento della ricerca pubblica. Gli interroganti chiedevano di sapere:
[1] quali siano i criteri collegiali che hanno portato all'individuazione della commissione per la redazione del piano nazionale vaccini; [2] quali misure intenda intraprendere il Ministro in indirizzo, affinché siano pubblici i documenti contabili delle società scientifiche impiegate nella stesura; [3] quali siano le motivazioni per cui le competenze di ambito universitario non siano state considerate come utili e indispensabili nell'elaborazione del piano; [4] se non ritenga opportuno procedere alla revisione del piano, nonché valutare un maggiore approfondimento di carattere scientifico sull'opportunità dell'ampliamento dell'offerta vaccinale, anche in considerazione del conflitto di interessi che sarebbe stato attribuito al presidente dell'AIFA, nonché delle criticità evidenziate.
Qualche mese prima l'epidemiologo Vittorio Demicheli aveva scritto sul Sole 24 Ore che il calendario 2016-2018 pubblicato dal ministero sembrava la copia perfetta del «Calendario per la Vita 2014» diffuso da alcune associazioni mediche private. Il medico si prese per questo una diffida, sicché noi lasciamo il giudizio ai lettori:
Fonte: salute.gov.it | Fonte: epirev.it |
Ci si interroga anche sui danni da vaccino, secondo alcuni irrilevanti e per altri più gravi e frequenti di quanto non si dica. Chi ha ragione? In assenza di dati certi hanno ragione tutti e ha torto chi non fa chiarezza. Ascoltiamo quel complottista di Silvio Garattini:
Il punto, per me, è la trasparenza. Che riguarda tutti i farmaci, non soltanto i vaccini. Perché non possiamo valutare le conseguenze dell’assunzione dei farmaci basandoci soltanto sugli studi presentati dalle industrie farmaceutiche. Sugli studi è riportato il 10 per cento di quello che dovremmo sapere sulle sostanze che assumiamo... [Abbiamo bisogno d]i una farmacovigilanza attiva. Di studi indipendenti e approfonditi. Perché un conto sono analisi compiute in laboratorio, in condizioni ottimali, un altro sono studi compiuti su persone vere, che magari insieme con quel farmaco assumono altre sostanze.
Quel poco che oggi sappiamo lo dobbiamo intuire, ad esempio dalle testimonianze dei danneggiati o dagli oltre 600 indennizzi riconosciuti dai tribunali italiani per gravi danni da vaccino. Dal 2013 l’Agenzia nazionale del farmaco non pubblica più l’annuale «Rapporto sulla sorveglianza postmarketing dei vaccini in Italia» con l’elenco e la descrizione delle reazioni avverse nei vaccinati. Perché? Non si sa. L’ultimo, scarno rapporto a disposizione del pubblico (Osmed 2015) parla di 7.892 reazioni segnalate dagli operatori sanitari. Quante di queste sono gravi? Non si sa, perché la percentuale indicata (32%) include tutti i tipi di farmaci. Il rapporto dell'anno precedente ci diceva che le segnalazioni sono state 3.577 nel 2013 e 8.182 nel 2014. Si tratta di numeri non «irrilevanti» e verosimilmente destinati a crescere con l'aumento delle inoculazioni, ma impossibili da commentare in assenza di altre informazioni. Tra i pochi altri spunti che offre il rapporto scopriamo un paio di dettagli: che «[l'aumento] dei disturbi psichiatrici (+66% rispetto all'anno precedente [2013]) è da attribuire in particolar modo all'aumento delle segnalazioni da vaccino», e che «sono particolarmente aumentate le segnalazioni da vaccini e questo incremento... è da ricollegare principalmente all'attivazione di specifici progetti di farmacovigilanza attiva che nell'anno 2014 sono stati focalizzati in particolar modo proprio sui vaccini». Prendiamo atto che, almeno fino al 2014, le segnalazioni sottostimavano il fenomeno. E oggi?
Questa reticenza non giova alla fiducia. Perché il Ministero non rende accessibili i numeri e le caratteristiche di tutte le reazioni avverse? Quel database sarebbe prezioso anche per l'avanzamento delle conoscenze scientifiche. Provvedimenti di buon senso come il rafforzamento della farmacovigilanza attiva, risarcimenti automatici per chi subisce danni, protocolli diagnostici e anamnestici pre-vaccino per escludere intolleranze o condizioni di rischio, o per stabilire chi abbia davvero bisogno di vaccinarsi, misurazioni post-vaccino dei titoli anticorpali per evitare richiami inutili, follow-up a campione, disponibilità di vaccini monovalenti ecc. rassicurerebbero molto di più del martellamento pubblicitario a reti unite sulla «sicurezza assoluta» delle vaccinazioni.
Anche la ricerca sperimentale deve essere pubblica e indipendente. Perché si lascia che siano le aziende produttrici a dichiarare i rischi? A distanza di più di un secolo non esistono studi comparativi sugli eventuali danni di medio-lungo termine dei diversi vaccini: patologie autoimmuni, disturbi neurologici, malattie degenerative ecc. Ben più che le ipotesi e gli aneddoti che circolano su questi temi, allarma il fatto che non se ne occupi la ricerca di Stato.
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L’introduzione del nuovo calendario vaccinale poteva, doveva essere l’occasione per portare il dibattito nelle aule del Parlamento coinvolgendo sia i rappresentanti dei cittadini sia gli esperti di ogni orientamento, e riscattare così l’argomento dal sottobosco delle insinuazioni. Non c’era, non c’è emergenza. Si aveva il tempo per farlo. Ma non la volontà. Perciò si è fatto il contrario e si è imboccata la strada peggiore: la decretazione d’urgenza e senza dibattito, la coercizione d’imperio a pena di sanzioni che farebbero ridere se non facessero inorridire, l’approvazione in fretta e furia (sì, sono gli stessi che se-voti-No-ci-si-mettono-anni-per-fare-una-legge), l’umiliazione e la squalificazione degli avversari. Così agendo, sicut fur in nocte, i dubbi dei dubbiosi si sono trasformati in certezze, la fiducia dei fiduciosi in dubbio. E da oggi è più difficile dar loro torto.
L’aspetto sanitario della vicenda passa così in secondo piano. Oggi ci si schiera pro o contro «le Vaccinazioni» come se fossero una squadra di calcio. E si passa per noiosi a ricordare che sono, le vaccinazioni, presidi sanitari al pari degli antibiotici o della chirurgia: in certi casi utili, in altri indispensabili, in altri ancora inopportuni, cioè dannosi. Chi critica il ricorso indiscriminato al taglio cesareo o alla circoncisione dei neonati non è «antichirurgico». E non è «anti-antibiotico» chi sconsiglia di prendere la penicillina dopo il primo starnuto. Spogliare una pratica sanitaria delle sue variabili applicative per farne nientemeno che il simbolo de «la Scienza», totalizzarla in un feticcio da esibire agli «amici» e brandire contro i «nemici» dà la misura dello scadimento fanatico e tribale del dibattito.
È vero, aumentano i genitori che non fanno vaccinare i figli. Raccontarsi che sono «cretini irresponsabili» non spiega però niente, né perché siano diventati eventualmente tali negli ultimi tre anni. Risolvere un fenomeno con l’insulto e il giudizio morale fa forse bene all’autostima, ma non alla comprensione delle cause. Che in questo caso sono più semplici e più gravi: quei genitori non si fidano. Non si fidano più. E non certo de «la Scienza», ma dei suoi interpreti istituzionali. Perché nei fatti la scienza non può prescindere dalla fiducia nell’autorità che la sancisce. Se in teoria il metodo scientifico non tollera nulla all'infuori dell'evidenza empirica, in pratica quasi tutto ciò che consideriamo «scientificamente provato» è stato in realtà provato da qualcun altro con procedimenti che non siamo in grado di replicare. E non è una questione di competenze: un pediatra della Asl e un metalmeccanico hanno le stesse possibilità di verificare empiricamente le dichiarazioni dei produttori dei vaccini o le statistiche dell’OMS. Cioè zero. Sicché non possiamo che delegare la certificazione dell’autorità scientifica a un’altra autorità: quella politica. Lo «scienziato» e la «comunità scientifica» sono costrutti sostanziati da atti politici: titoli di studio, cariche, onorificenze, premi, carriere ecc. Chi non li riconosce non rifiuta la scienza, ma l’istituzione che li ha investiti.
Il problema è grave. Perché senza autorità scientifica non può esserci un avanzamento scientifico in senso moderno. In ciò è tuttavia difficile non vedere le responsabilità dei garanti di quella autorità. I sospetti di maneggi, le inspiegabili reticenze e le acrobazie numeriche a cui si è fatto cenno, nonché i modi furtivi del legislatore, giustificano riserve ben più ampie dello strombazzato calo dei vaccinati. Ma è anche difficile non riconoscere che il caso delle vaccinazioni è solo una minuscola spia, la goccia nell'oceano di uno scollamento più generale tra cittadini e governi.
Si può far finta di non saperlo, ma le istituzioni politiche che ci chiedono oggi di triplicare in pochi mesi le vaccinazioni dei nostri figli sono le stesse che per anni ci hanno giurato che i sacrifici, le riforme, il risanamento dei conti e l’integrazione europea avrebbero portato prosperità e sviluppo. E per farlo hanno arruolato una coorte di esperti provenienti dall’accademia e da posizioni prestigiose proprio come fanno oggi con le vaccinazioni, e irriso chi si defilava dal coro. Sono anche le stesse che da anni deflazionano la sanità, che hanno ridotto i letti e il personale degli ospedali del 10% e aumentato i ticket sanitari del 40% (Aiop 2016). E il ministro che ha firmato il decreto è lo stesso che due anni fa voleva mettere in carico ai pazienti più di 200 esami e prestazioni «inutili». E non senza effetti. Secondo il Censis 11 milioni di italiani rinunciano alle cure sanitarie per difficoltà economiche o liste d’attesa troppo lunghe. Sicché ora la preoccupazione per la terribile varicella può anche essere sincera. Ma qualche problema c'è.
L'emergenza è l'ecosistema emotivo della shock doctrine, è la cifra stilistica delle decisioni antidemocratiche. Ma più ancora lo è l'emergenza potenziale. In un altro articolo si osservava l'inclinazione dell'opinione pubblica più conformista «ad anteporre nella gerarchia dei pensieri le conseguenze immaginabili dei fatti ai fatti stessi», in un prevalere dei «diritti dell'immaginazione... sulla realtà e [della] potenza sull'atto». Perché la colpa muove le menti più del dolore. Sicché il timore di non avere fatto abbastanza per scongiurare un pericolo spaventa molto di più del pericolo stesso. Le idee oggi più illiberali si collocano quasi tutte in quell'alveo: il ridimensionamento della libertà di tutti perché il terrorismo potrebbe colpire, le riforme dolorose care al capitale finanziario perché lo spread potrebbe salire e, salendo, potrebbe farci fallire (?), il rinvio e la limitazione delle consultazioni elettorali perché i «mercati» potrebbero prendersela, la demonizzazione di alcuni partiti politici perché potrebbero portare la guerra, la dittatura, la «fine della civiltà». Nell'urgenza dei problemi immaginati si trascurano e si alimentano quelli reali, più spesso se ne creano di nuovi.
Anche escludere il dibattito pubblico e parlamentare è illiberale, come lo è il fatto di imporre sanzioni sproporzionate all'illecito. Vi si intuisce la disperazione di un direttorio rinchiuso a Versailles che nel popolo non vede più il titolare della sovranità, ma una turba nemica e bestiale da costringere e punire. Un popolo da mettere sotto tutela perché incapace di discernere il proprio bene, immeritevole di essere coinvolto nelle decisioni che lo riguardano. Non sfiduciato, ma infido. Non da riconquistare, ma da riprogrammare con le minacce.
La disperazione è però anche una cattiva consigliera. Presi com'erano a immaginare le epidemie del futuro, ai nostri è sfuggita una certezza della storia: che l'obbligo di vaccinare non fa aumentare le vaccinazioni (v. ASSET, qui e qui). E minacciando la sottrazione dei figli ai genitori si sono spinti, con una leggerezza che lascia interdetti, nel fondamento biologico delle relazioni umane, affettive, e quindi anche sociali. Comunque la si racconti, l'avere accettato, espresso e tradotto in legge l'idea di distruggere le famiglie - e quindi le esistenze dei bambini che ci vivono - per motivi così controversi e immotivati da urgenza, è una pietra miliare, è la prova generale di una protervia di Stato degna di altri regimi.
Ma l'illiberalità è anche la ricetta infallibile del conflitto. Sia essa sfiducia nelle istituzioni o motivato scrupolo scientifico (o entrambe le cose), la polemica sui vaccini cova sotto traccia da anni. L'avere umiliato ed escluso i critici della linea governativa in modo così esemplare e feroce li ha dati in pasto al fanatismo dell'altra sponda, ha gettato benzina sullo scontro agitando, come è ormai prassi quando si tratta di derogare alle ragioni dell'intelletto, lo spettro dei bambini cadaveri o menomati. Il divide et impera si arricchisce così di un altro capitolo. Dopo i pensionati privilegiati, gli statali parassiti, i professionisti evasori e i giovani svogliati, ecco gli «antivaccinisti»: genitori immeritevoli di amare i propri figli, scienziati indegni della laurea, opinionisti da zittire, medici che, per essersi posti dubbi di natura medica su una pratica medica, devono essere radiati. Il caso identifica un pattern: il conflitto sociale si coltiva dapprima nei messaggi di politici e opinionisti «accreditati», poi, quando è maturo, lo si trasforma in legge nella certezza di raccogliere il plauso e la complicità degli esasperati. Da quel momento in poi l'odio è legittimo: può diventare persecuzione, emarginazione, delazione. Diventa odio di Stato.
Come andrà a finire? In realtà è già finita male. È l'ennesimo colpo inferto a un edificio civile traballante dove la sfiducia nei governanti si riscatta con la guerra tra i governati. È l'esperimento riuscito di trasformare una verità di Stato in un tabù da difendere con il terrore di sanzioni inaudite. Una verità forse pretestuosa che può aprire la strada ad altre censure nel nome di terribili emergenze ugualmente presunte: in campo economico e militare, sui temi dell'immigrazione, del lavoro e dell'ordine pubblico, nella politica estera ed europea.
Ci saranno prevedibilmente ricorsi, proroghe ed emendamenti, applicazioni differenziate e l'incertezza del diritto che puntuale accompagna quasi tutto ciò che si fregia oggi del titolo di «riforma». Non si esclude che il decreto, volutamente esagerato in prima stesura, si lascerà ammorbidire in sede di conversione. Lì i «poliziotti buoni» potrebbero portare a sette-otto i vaccini obbligatori, ottenendo anche sconti sulle pene. Nulla di nuovo (ibid.):
Manipolare l'opinione di chi ama qualificarsi come moderato è quindi semplice: basta fissare d'ufficio gli estremi della dialettica con la certezza che il soi-disant moderato vi si collocherà disciplinatamente nel mezzo, in perfetta equidistanza dalle sponde.
Si otterrebbe così il risultato di elidere dall'orizzonte del «buon senso» e della «disponibilità al compromesso» le posizioni di chi chiede una profilassi vaccinale ragionata, personalizzata e non obbligatoria. Sarebbe un modo più soffice, ma non meno pericoloso, di squalificare il dissenso e di reprimere la partecipazione al dibattito in un Paese i cui governi insistono a dirsi democratici e liberali.
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