Questo articolo è stato ripubblicato nel volume Nel Regno della Quantità edito da Il Leone Verde, Torino.
«Credi
tu che questa carta abbia un valore per se stesso, oppure che l’abbia
ricevuto?».
Michele
rispose: «Essa vale più delle altre, di per sé, essendo il re di
denari».
— I. Silone, Vino e pane (1955)
Nel capitolo XVI de Le Règne de la quantité[1] René Guénon propone una riflessione sulla moneta e sulla sua «degenerazione» in epoca moderna. Il breve testo non ha l’ambizione di sviluppare una definizione e una teoria della moneta, sicché per saggiarne e ampliarne gli spunti occorre tentare almeno in abbozzo un inquadramento dell’enigma monetario con l’obiettivo, che qui anticipiamo, di verificare quanto il processo «degenerativo» annunciato dal filosofo sia un «signe des temps» e quanto invece – o insieme – il compiersi di una tentazione sempre viva e temuta.
In sé, la moneta è uno strumento per facilitare lo scambio delle merci. Da questa prima funzione di scambio in atto discendono tutte le altre, che per quanto nominalmente diverse possono essere ricondotte nel dominio dello scambio in potenza.[2] Il «valore» di un bene misurato dalla moneta non è che il suo prezzo, cioè la quantità di moneta che se ne ricaverebbe qualora fosse venduto, mentre la ricchezza monetaria corrisponde ai beni che si acquisirebbero qualora fosse spesa. Quello monetario non è dunque altro che un valore specialistico e di stretto dominio che allude alla più ampia accezione di valore d’uso[3] nei termini mediati del valore (cioè dell'eventualità) di scambio[4]
Dovrebbe dunque preoccupare la disinvoltura con cui l’uomo moderno tende a espanderne l’applicazione e a proclamarne il primato, che cioè «chez la plupart de nos contemporains, tout jugement porté sur un objet se base presque toujours exclusivement sur ce qu’il coûte»[5]. Questa deplorevole mercificazione che ambisce alla totalità erodendo progressivamente il perimetro dei «non negoziabili» è un effetto del processo di desacralizzazione che da alcuni secoli investe le nostre società. Se il perimetro di ciò che è sacro non può essere travalicato senza incorrere in maledizioni e sventure[6], tanto meno ciò che vi è racchiuso deve essere oggetto di mercimonio. Va inteso così l’episodio evangelico della purificazione del tempio, che nella versione giovannea mette in apposizione le inconciliabili «case» del prezzabile e dell’inestimabile: «non fate della casa del Padre mio una casa di mercato!»[7]. Nel racconto di Marco si aggiunge un dettaglio: avendo visto il Cristo cacciare i cambiavalute dal tempio e uditolo proclamare l’inviolabilità della «casa di preghiera» (οἶκος προσευχῆς), sacerdoti e scribi «cercavano il modo di farlo morire»[8]. Se il sacrilego da mettere a morte è l’idoloclasta che rimuove il commercio dal tempio, significa allora che il commercio reclama a sé un culto simil-divino, che cioè la potenza creativa del plusvalore insidia la creazione dell’Onnipotente. Non si tratta di una dissacrazione fra le tante, ma di un antagonismo sacrale che ha plasmato la storia, come si vedrà nel seguito.
Va per inciso osservato che questa e altre dissacrazioni, tra cui senz’altro le tante che costellano l’era moderna, agiscono appunto nei termini surrogativi della de-santificazione. Giacché non può infatti darsi un’antropologia senza spazi e riferimenti sacri – senza ciò che non è «in vendita» – per commerciare il sacro occorre allora liberarlo dall’àncora eterna che non ammette cambi né scambi, e da lì traslarlo nel dominio cangiante dell’immanenza civica. Anche in quest’ultima prosperano principi supremi, miti e testi fondanti, verità dogmatiche, liturgie, santi, tabù ecc. ma il suo pantheon è mobile come lo sono, di necessità, le circostanze e le opinioni del mondo. Sicché il «relativismo» tante volte denunciato è piuttosto l’ossimoro di un assoluto relativo, di un’eternità a tempo, di un oltrevita mortale. Così è ad esempio la toponomastica urbana, sulle cui targhe si celebra la memoria «imperitura» di eventi ed eroi destinata a perire a ogni cambio di regime, o di idea. O le cronache convulse degli ultimi pochi anni, durante i quali si sono succedute sugli altari laici «salvezze» a cui occorreva di volta in volta sacri-ficare ogni precedente salvezza: ora la democrazia, ora invece i conti dello Stato a cui immolare la democrazia; ora la crescita economica, ora invece il «clima» a cui immolare la democrazia, i conti e la crescita; ora la salute pubblica a cui immolare tutto, anche la stessa salute.[9]
La moneta non è sempre – o almeno non sempre in modo esclusivo e diretto – l’agente di queste trasformazioni, ma ne porta in seno lo stampo. Liquida e polimorfa, la sua essenza è il divenire, cioè l’essere perennemente in potenza tutto ciò con cui la si potrebbe scambiare. Essa corre e si trasmuta senza requie e senza una meta, se non appunto la meta del suo stesso affannarsi che ricalca l’acefalo ciclo delle vicende mortali. È ontologicamente bipolide: mentre da un lato impersona i valori, il possesso e il dominio del mondo materiale, dall’altro trasfigura quel mondo nell’astrazione del numero, cioè nella metafisica. La sua qualità è la quantità, ma diversamente dalle unità di misura può sostituirsi alle cose che mima e sfruttarne l’idea per apparire essa stessa una cosa: la cosa di cui è fatta ogni cosa.[10]
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In queste poche pagine non si può neanche lontanamente abbozzare una storia di come l’introduzione dei numeri e gli sviluppi della matematica abbiano inciso nelle vicende materiali e ideali delle civiltà[11]. Ci basta qui soffermarci sulle concenzioni attribuite a Pitagora e alla sua scuola (V-IV sec. a.C.), il cui carattere fondativo è paradossalmente avvalorato dallo scarso rigore storiografico con cui le si è tramandate. In ciò sembra in effetti tradirsi l’intento degli antichi di trarre dalla nebulosa figura del samese un didascalico mito delle origini che racchiude in sé le aspirazioni prometeiche e le cadute di ogni civiltà del numero[12]. Secondo il mito, Pitagora sarebbe stato il primo ad affermare la possibilità di descrivere il mondo nella sua interezza utilizzando i numeri, pare ispirato dalla scoperta delle proporzioni sorprendentemente esatte tra le frequenze degli armonici musicali. Ma la creduta universalità di quella chiave di conoscenza sarebbe stata presto messa in crisi dal suo allievo Ippaso di Metaponto, a cui si attribuisce la scoperta che la diagonale di un quadrato non può essere misurata dal rapporto di due numeri naturali, e che dunque la sua idea è incommensurabile[13].
Il sogno razionalistico di comprimere la realtà nell’intelletto risolvendo la ferita originale del dualismo ontologico naufragava così contro lo scoglio dei numeri irrazionali. Gli effetti di questo trauma furono enormi: culturali (da qui sarebbe scaturita la dottrina platonica delle idee)[14] ma anche «politici», svelandosi con esso l’infondatezza di una pretesa di dominio sapienziale raffigurato nella leggenda dalle attitudini sacerdotali del maestro e dall’esotericità del suo insegnamento, nonché dalla morte per annegamento che avrebbe colpito l’infedele Ippaso.[15]
La tentazione «pitagorica» ha attraversato i secoli come un fiume carsico, fino a prorompere senza veli nell’evo moderno. L’antica Crotone rivive nelle corti del Rinascimento italiano, laboratori di un recupero che intercetta inevitabilmente anche le sorti del numero monetario, trovando anzi in esso parte delle sue ragioni. Quando, nel 1623, Galileo Galilei scriveva ne Il Saggiatore che il «grandissimo libro» dell’universo può intendersi solo mediante la «lingua matematica» non faceva altro che tradurre alla lettera il pitagorico Filolao: «tutto quel che si conosce ha un numero: senza il numero non sarebbe possibile ne pensare, né conoscere alcunché».[16]. E quando rimetteva in arnese quell’antico sapere applicandogli l’etichetta all’apparenza più dimessa di «metodo», saltava a pie’ pari l’incidente di Ippaso gettando le basi affinché da un’euristica dallo statuto incerto sorgesse una «metafisica della quantità» imbracciata da lì in poi da tutti i materialisti.[17]
Ma il terreno era stato preparato da tempo. Se già più di un secolo e mezzo prima Pico della Mirandola aveva riproposto l’adagio pitagorico («Per numeros habetur via ad omnis scibilis investigationem et intellectionem»),[18] nel De divina proportione (1509) di Luca Pacioli leggiamo che «nella Sapientia ancora è scripto quod omnia consistunt in numero pondere et mensura,[19] cioè che tutto ciò che per lo universo inferiore e superiore si squaterna quello di necessità al numero, peso e mensura fia sottoposto». La chiusa sorprendente di questo famoso passo («fia sottoposto») sottende una rivoluzione. Se infatti Filolao e i pitagorici «did not believe that all things are numbers, but rather that all things that are known are known through number»,[20] ora invece «la concezione del neoplatonismo fiorentino, permeata di motivi pitagorizzanti e cabalistici, mentre con Platone riconosceva alla matematica la funzione di mediatrice fra l’idea e la materia, rivestiva poi il numero di quelle virtù di cui l’aveva cinto la gnosi dei cabalisti. Il numero è il verbo immanente, la trama di cui il tutto è tessuto».[21]
Da qui è facile scivolare in una gerarchia ontologica: non più la ricerca del numero nella realtà, ma della realtà nel numero, fino appunto a pretendere che la prima «fia sottoposta» al secondo. Forse ispirati dalla numerologia cabalistica, quegli umanisti attribuirono al numero un rango superiore e causante che costituisce il motivo della magica arithmetica di Pico della Mirandola e della ricollocazione del pitagorismo nell’alveo di un’ininterrotta tradizione misterica.[22] Qui il numero non coincide più con la natura (Pitagora) né vi allude (Platone), ma dischiude una realtà di ordine superiore e divino (arithmetica divina) secondo un principio che «affonda le sue radici nella concezione cabbalistica che assume le lettere ebraiche [e quindi i numeri a esse associati, n.d.A.] come le componenti del linguaggio cosmopoietico divino, cariche di potere performativo, con le quali è strutturata l’intera realtà».[23] Ciò però implica anche la tentazione oscura di una magia illicita[24] che usurpa le prerogative del Creatore per evocare realtà che si pretendono più reali e verità che si pretendono più vere di quelle accessibili ai sensi. Se il numero che descriveva il mondo ora lo norma e lo supera, esso può anche offrire i mattoncini di una poiesi magica nelle mani di un illusionista-demiurgo.
Una siffatta ipotesi sarebbe azzardata se le civiltà occidentali non fossero poi effettivamente sprofondate in questo incantesimo, arrivando anzi a identificarvisi con orgoglio. Pur introdotta come un mero «metodo» di indagine dei fenomeni naturali, la scienza avrebbe presto reclamato un monopolio gnoseologico per cui tutto ciò che non è misurabile – cioè appunto non riducibile a un numero – deve essere favola, superstizione o sogno. E tutto ciò che i suoi addetti proclamano per numeros deve essere vero anche quando non ha riscontro nell’esperienza – aneddotica, irrilevante, male interpretata ecc. – degli individui. Similmente, la statistica ha tradotto l’antica arte sovrana (basiliké téchne) in una Staatswissenschaft governata dai numeri[25] che promette di restituire un riflesso ordinato e fedele dei fenomeni, mentre nella realtà li seleziona e li interpreta secondo le implicite gerarchie ideali che presiedono alla scelta delle metriche, e dunque li plasma tracciando il perimetro del pensabile e del necessario. Come ha limpidamente osservato Nikolas Rose, il numero statistico crea uno «spazio fittivo» che imita la realtà affinché la realtà lo imiti: «It is clear – scrive – that such [statistical] numbers do not merely inscribe a pre-existing reality. They constitute it […] The collection and aggregation of numbers participates in the fabrication of a “clearing” within which thought and action can occur. Numbers here delineate “fictive spaces” for the operation of government, and establish a “plane of reality”, marked out by a grid of norms, on which government can operate».[26] Nell’onirica società «data-driven» le masse si lasciano trascinare e costringere da una pletora di indici economici, elettorali, sanitari, sociali ecc. inaccessibili all’esperienza e si trovano così prigioniere di una caverna platonica sulle cui pareti scorrono percentuali e istogrammi gabellati per fatti «oggettivi» senza padroni, né interpretazioni, né intenti.
La conferma più chiara e recente di questo processo è la diffusione a tappe forzate delle tecnologie informatiche che, lontane dall’essere «rivoluzionarie», fissano piuttosto il capolinea obbligato di una reductio ad numeros universale. La digitalizzazione che si è imposta in ogni ambito produttivo, amministrativo, ludico, creativo, relazionale ecc. è una numerificazione sia in senso tecnico, perché si esprime attraverso serie numeriche binarie, sia in senso letterale per la sua radice inglese digit, che significa appunto «cifra».[27] La foga con cui si estendono i campi di applicazione delle nuove tecniche, spesso contro ogni ragione di necessità e di buon senso, segnala il progetto di sostituire il creato con una sua più liquida ed evanescente – e perciò malleabile – rappresentazione numerica.
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Tornando al nostro tema, la moneta ha non solo seguito queste vicende ma ne è stata l’apripista e in qualche modo l’archetipo, per la duplice essenza di cui si è scritto. Parrebbe un caso, ma non lo è, che quello stesso frate Pacioli sia celebrato innanzitutto come economista, che molte delle sue questioni matematiche si indirizzino alla pratica mercatoria e che si debba a lui l’invenzione della partita doppia, strumento che diede ricchezza e gloria ai mecenati fiorentini e «five hundred years later […] continue[s] to provide the guidelines for recording economic activity in all the world’s great financial centers».[28] Non è un caso che in quella stessa regione e in quegli stessi anni si consolidava il moderno sistema bancario e dunque il capitalismo, il cui seme gettato da un altro frate dello stesso ordine, Pietro di Giovanni Olivi, era stato custodito dai confratelli di Santa Croce a Firenze.[29] Nel Tractatus de emptione et venditione (fine sec. XIII) l’Olivi aveva aperto una breccia nella fin lì tetragona condanna del prestito a interesse riconoscendo nel «capitale» una qualità particolare di moneta in grado produrre un valor superadiunctus, cioè altra moneta, a patto che fosse indirizzato a un fine socialmente utile e che fosse già asservito a un processo produttivo (industria), sì che il suo prestito comportasse un lucrum cessans lecitamente compensabile dall’interesse. Lo spunto fu sviluppato da altri teologi[30] e sarebbe sfociato più tardi nella distinzione cattolica tra «capitale» e «capitalismo» formalizzata da Toniolo, Sturzo e altri, sostanzialmente su basi morali.[31]
Più che valutare la bontà e forse l’ineluttabilità di questa svolta pragmatica, qui interessa osservare come il nuovo criterio etico e teleologico abbia messo in ombra il senso e le conseguenze delle precedenti critiche all’usura, che erano invece di carattere ontologico. Secondo la precedente tesi tomistica, se il valore della moneta coincide con il suo uso negli scambi («usus autem principalis pecuniae […] est distractio pecuniae in commutationes»), chiederne la restituzione, cioè la restituzione dell’uso, aggiungendo un ulteriore canone d’uso, cioè appunto l’usura è ingiusto perché in questo modo si vende ciò che non esiste («venditur id quod non est»).[32]
Il capitale deve i suoi attributi esistenziali e «vitali» ai beni con cui è scambiato, dunque anche il seme lucrativo riconosciutogli dall’Olivi è solo la traslazione impropria di una capacità creativa che è invece propria degli esseri viventi e del lavoro.[33] Il punto non è sofistico, perché mette in gioco l’equivoco di equiparare un fatto – la moltiplicazione delle sementi, la commercializzazione di un bene, la costruzione di un manufatto ecc. – a un’idea matematica. Pur nella sua variegata fenomenologia, il capitalismo può definirsi in effetti come un prodotto dell’inversione qui descritta, un incantesimo dove l’ombra cattura la cosa e il numero mima la vita per far sì che la vita lo insegua. Ma essendo il primo privo di limiti come lo sono i pensieri e i sogni, esso spinge la seconda a violare i suoi limiti fino all’esaustione. La moneta prestata è un programma che reclama obbedienza dettando alle risorse fisiche il proprio tasso di crescita a pena della confisca, della rovina e del disonore. E per estensione, ogni forma di pianificazione economica che preveda una marginalità – un business plan, un’obbligazione, un piano quinquennale – impone l’aerea volitività del numero alle carni, alle foreste e agli oceani.
Questo aggancio innaturale ha avuto conseguenze storiche evidenti. Per soddisfare l’aspettativa moltiplicatoria degli investitori l’era moderna si è votata allo sfruttamento sistematico delle risorse in uso e alla ricerca accanita di nuove risorse, come mai prima si era osato. In certi casi ciò che era già noto – il continente americano, i combustibili fossili, la forza del vapore ecc. – fu ribattezzato «scoperta» per creare l’illusione che fossero le cose a chiamare lo sfruttamento, e non viceversa. Sono sorte le industrie e le produzioni seriali, si è praticato il colonialismo e la «globalizzazione», si sono escogitate nuove tecniche e si è affidato alla scienza il compito di dar loro una dignità di sapienza. Da questa epopea sono scaturiti eccidi e sviluppo materiale, oppressione e liberazione secondo i tempi e le fasi, ma soprattutto la necessità di distruggere periodicamente i prodotti di una crescita destinata a saturarsi perché impossibilitata a reggere nel mondo fisico la riproduzione astratta del numero finanziario. Partendo da tutt’altre premesse, Karl Marx attribuirà al capitale un’aspirazione riproduttiva «allargata» («erweiterte Reproduktion») che, pur mimando la riproduzione naturale, la spinge a ritmi insostenibili e distruttivi con la conseguenza di dilapidare le forze dell’ambiente e dell’uomo e di reclamare alla fine di ogni ciclo un punto di rottura – una guerra, una carestia, una crisi – per ricaricare sulle macerie il proprio potenziale.
Anche la moneta, strumento di questo processo, avrebbe cercato di allentare i legami con il mondo fisico emancipandosi dal proprio sarcofago di metallo prezioso. Furono di nuovo i banchieri fiorentini a scindere nel secolo quindicesimo i due emisferi dell’intrinseco e dell’estrinseco diffondendo l’uso della «nota di banco», un titolo cartaceo commutabile in oro da cui sarebbero nate molto più tardi le banconote a corso legale. Affinché la carta numerata infondesse in tutti lo stesso senso di sicurezza e di brama che era prima della terra, dell’argento e dell’oro occorreva un’emittente universalmente credibile o almeno creduta, autorevole o almeno autoritaria. Occorreva cioè uno stato moderno in senso hobbesiano: capillare, burocratico, impersonale.
Nel corso del suo lungo esordio la banconota ha cavato pazientemente gli attributi dei metalli garantendo o comunque promettendo di potersi scambiare con essi alla stregua di un contratto circolante tra i portatori e il sovrano. Ma una volta affermatasi, ormai verso la fine del sec. XIX, la garanzia della convertibilità si fece eventuale e parziale (riserva frazionaria) o fu addirittura sospesa (corso forzoso). I fogli numerati scalpitavano, reclamavano la libertà di circolare e riprodursi, opponevano la loro velocità alla lenta materialità del sottosuolo, causando crisi e squilibri. Da lì la moneta cercò prima un’àncora fingendo una convertibilità indiretta: il gold exchange standard, decretato a Bretton Woods nel 1944 agganciava le valute a un dollaro formalmente commutabile in oro. Infine, dopo la stipula dei patti smithsoniani (1971) rescisse ogni vincolo con le riserve preziose. Si è molto scritto sulla necessarietà di queste annunciate evoluzioni per servire più agilmente gli scambi e le allocazioni dei capitali. Non occupandoci qui di tecnica economica, ne osserviamo invece i prodotti cognitivi e culturali.
La moneta emancipata è un’«idea materiale» che tintinna come uno zecchino e sugli schermi dell’home banking. La sua metafora è un incantesimo quasi mai consapevole che si avvera per la credenza di tutti e in quella credenza fonda il perno ideale della presenza e dell’autorità statuale. Prima degli individui è infatti lo Stato monetiforme – o gli individui per il suo interposto simbolo – che rintuzza l’allucinazione monetocentrica. Stato e moneta si confondono in un uno simbiotico dove il primo garantisce la seconda e la seconda dà al primo identità, forma e potenza.[34] Il fulcro operante di questo incanto è la raccolta fiscale, che esigendo moneta da tutte le produzioni fa sì che tutti i prodotti esigano moneta. In questa chiave andrebbero meglio compresi l’accanimento, l’invadenza e la dispendiosità dell’odierna infrastruttura fiscale, altrimenti indecifrabili in una condizione in cui i biglietti di Stato sono, per gli stati che li emettono, appunto biglietti e non «risorse». Siccome una tale pressione non sarebbe giustificata neanche da altre possibili funzioni della tassazione – controllo dell’inflazione, ridistribuzione, governo delle esternalità, protezione del cambio e delle produzioni ecc. – occorre piuttosto considerare il ruolo che essa svolge nel preservare il primato semiotico della moneta, da un lato assoggettandovi le stesse autorità emittenti (che dunque giurano di dipendere dagli stessi finanziatori a cui concedono di operare), dall’altro adducendo la ragione fiscale per monetizzare anche ciò che non si esprimerebbe in moneta: doni, favori, scambi in natura, lavoro volontario, solidarietà famigliare.[35] Nessun rivolo di realtà deve sfuggire all’ologramma del quattrino, nessun valore può scalfirne il monopolio.[36]
È dunque normale che per le persone così costrette il sottostante della moneta siano i beni e cioè la mera possibilità di mantenersi in vita. Ed è normale che i governi delegati a gestire e tutelare la vita monetizzata si esprimano solo con i glifi del soldo: preso a credito dagli investitori, reclamato con le imposte, sottratto dai contribuenti, elargito in rendite e sussidi, speso, investito, dilapidato, sufficiente o carente, troppo debole o troppo forte nel cambio, stanziato, ridistribuito, previsto, proiettato, auspicato, rivisto, contato e ricontato, squadernato e discusso nelle arene pubbliche. Come prima governavano i condottieri, così oggi si chiamano al trono gli economisti, i maghi tristi del sostituto numerico che pretende di essere e di costringere l’essere altrui.[37]
Ragionando astrattamente, la moneta-numero è un’agnostica convenzione di servizio che può servire ogni progetto – di sviluppo, di depressione o di conservazione, popolare o di classe. Ma affinché ciò sia possibile occorrerebe la consapevolezza della sua evanescenza, un freddo stacco dalla tirannide che esercita nella vita di ogni giorno. Abbonda invece l’illusione contraria: l’averle attribuito la prerogativa di surrogare tutte le cose naturali l’ha trasformata da servitrice in padrona, o meglio in servitrice di pochi e padrona di molti. Incarnando un ossimoro che può solo darsi nella prestidigitazione e nei sogni, essa si è fatta insieme idea per chi la comanda e materia per chi la riceve. E il perduto vincolo dei giacimenti l’ha liberata nelle mani di chi la riproduce, mentre un altro vincolo più potente e più oscuro l’ha resa scarsa secondo l’arbitrio dei suoi maghi. Come si addice all’autosufficienza delle cose divine e degli idoli che le ricalcano, il nuovo vincolo in questione non è altro che la moneta stessa[38] e il nuovo oro con cui è forgiata è il credito,[39] al quale spetta anche il compito di regolarne la proliferazione. Sicché la discrezione di chi la riproduce si fa legge di natura e dalla natura assume non solo i crismi della necessità ma anche il precetto di non violare i suoi limiti.
Così il credito si fa anche seme di concetti e corollari morali: la «credibilità» del debitore sottoposta a un giudizio (rating), la «fiducia» degli investitori, la «sostenibilità» di un prestito, la «responsabilità» verso le generazioni future. L’usura così a lungo repressa è dunque davvero la culla e l’arnese di questa magia: culla perché il valor superadiunctus oliviano ha dato vita e sostanza a ciò che era segno; arnese perché quel segno mima il privilegio e la scarsezza dei preziosi senza la fatica di cavarli dal suolo. Quella usuraia è un’aristocrazia di carta che domina affatturando, un sacerdozio neopitagorico del numero applicato agli averi.[40]
***
Fatta questa lunga escursione, possiamo finalmente riaccostarci all’analisi guènoniana per tentarne una lettura critica e allargata. Secondo il pensatore di Blois anche la moneta, come ogni prodotto materiale e ideale, avrebbe perduto il suo «valeur proprement qualitative» e «toute garantie d’ordre supérieur» per ridursi a essere «un signe d’ordre uniquement “matériel” et quantitatif».[41] Ciò si evincerebbe anche dalla scelta di espungere dalla sua superficie i simboli tradizionali di cui sarebbe stata «littéralement couverte» nell’antichità. La tesi è condivisibile, a patto che si declinino più a fondo gli sviluppi di questo processo.
È certo che la moneta moderna, surrogando e appiattendo tutte le qualità in una scala numerica, si sia fatta «représentation d’une quantité pure et simple». Eccepibile è casomai la sua materialità, in un’epoca come quella attuale in cui quasi tutto il denaro depositato e scambiato non ha forma fisica.[42] Eppur tuttavia anche in ciò si confermerebbe la purezza del suo carattere quantitativo, il suo divenire mera contabilità spogliata di ogni portato simbolico che richiederebbe il supporto di un manufatto, o almeno di un’immagine.
È proprio in questo nudo formalismo che lo spazio monetario si ripopola di nuove qualità non più proprie, ma riflesse. La moneta quantificata e quanticante allude alla materialità per ridurla a un’idea immateriale che si colloca nel dominio grigio del numero pacioliano, in quel «regno di mezzo» dove il numero non si limita più a contare ma vuole autorizzare, sostituire e ricreare la realtà che gli «fia sottoposta». Attestato il suo dominio, la moneta-idea vampirizza gli oggetti e le opere, da un lato svuotandoli e «commodizzandoli» in una quantità indistinta e seriale, dall’altro intitolandosi le loro qualità: merito, affidabilità, solidità, durevolezza, bellezza, ordine, autorità morale. Dal solo fatto che la qualità di un bene è percepita oggidì in ragione diretta ed esclusiva del suo corrispettivo monetario («on en est arrivé à ne “estimer” couramment un objet que par son prix») si ricava la prova regina di questo trasferimento.
La moneta moderna inverte l’ordine aureo. Se in questo le menti erano sedotte dalla rarità e dallo splendore della materia, quella deve invece il suo potere materiale a una seduzione ideale. In tal senso andrebbe discussa l’affermazione del tutto contraria di G., secondo il quale la moneta avrebbe invece perduto «toute garantie d’ordre supérieur» e «l’influence spirituelle» di cui era tradizionalmente investita. La differenza qui sottintesa è tra l’investitura antica e l’usurpazione moderna del valore spirituale, come si evince nel prosieguo del testo. Secondo la concezione degli antichi, afferma l’autore, la moneta sarebbe stata infatti soggetta a «le contrôle de l’autorité spirituelle […] qui est, en définitive, l’unique source authentique de toute légitimité» sicché, ad esempio, le adulterazioni degli stessi sovrani – le stesse rese oggi strutturali dalla natura liquida e convenzionale del soldo bancario – erano aborrite come un crimine. Dunque «il faut conclure [...] qu’ils n’avaient pas la libre disposition du titre de la monnaie et que, en le changeant de leur propre initiative, ils dépassaient les droits reconnus au pouvoir temporel». Ciò che G. omette di denunciare sono le conseguenze più paradossali di questo dépassement, cioè a dire l’invasione della moneta emancipata nel disertato campo dello spirito. Resasi spiritus nel corpo – prima imponderabile come la carta, poi impalpabile come i byte – essa usurpa dello spirito le qualità metafisiche di ubiquità, onnipresenza, infinitezza[43] e anche le sue funzioni di rappresentazione, immaginazione e giudizio.
Pur elevandosi sopra la natura, essa non può tuttavia rendersi soprannaturale ma è piuttosto preternaturale come lo sono i prodigi che superano i vincoli del creato senza però trascenderlo. Una lunga tradizione teologica colloca nell’ambito della preternaturalità le qualità angeliche e gli interventi demoniaci: possessioni, malefici, fatture, divinazioni, false rivelazioni.[44] Il preternaturale è il dominio della magia e quindi del numero magico, della magia arithmetica e dunque del segno monetario. «Maxime praeter naturam» è la formula con cui l’Aquinate e i giuristi medioevali definivano l’usura citando la lezione moerbekiana della Politica di Aristotele.[45] La riproduzione usuraria, epifania in atto del denaro-idea che «seipsum adauget», è innaturale ma non divina,[46] trascina la natura oltre i suoi vincoli costringendola ai ritmi del pensiero calcolante e al disordine dell’ingordigia.
Da questi elementi ritengo si debba evincere il senso autentico del «contrôle de l’autorité spirituelle sur la monnaie» che si esercita non già per esaltare ma per subordinare, per imporre un freno o persino un esorcismo o, come si usa oggi dire, un kathekon messo a guardia di una caduta affatto peculiare che porta impresso il segno della disgrazia adamitica. La «dégénérescence» monetaria disegna una parabola in cui il soldo prima aspira a un cambio ascendente di genus per farsi datore di vita e di qualità e solo dopo, in conseguenza e a causa di quella pretesa, precipita gli uomini nel deserto spirituale e nella confusione dell’idolatria. L’illusione di risolvere e assoggettare il mondo nel numero, che nella moneta dégénérée e nella sua proliferazione feneratizia si compie, muove dalla stessa tracotanza di attingere dagli alberi dell’Eden e conduce alla stessa miseria di barattare il mistero per un teatro di ombre. È dunque appropriato che il compito di reprimere l’ambizione poietica della moneta spetti alle autorità religiose, come risulta dal fatto che i testi sacri e magisteriali di tutte le grandi fedi vietano l’esercizio del prestito a interesse.[47] E si comprende perché questi divieti siano stati così spesso e così facilmente – e persino necessariamente! – elusi, trattandosi appunto non di norme di igiene civile ma di moniti metafisici contro le lusinghe degli idoli; non di avversare una pratica storica ma una categoria sempiterna dell’anima: la tentazione di sostituirsi al Creatore dominando le cose con il segno e schiacciando l’universo prossimo con l’onnipotenza semiotica e mercatoria della seconda bestia, quella che «obbligò tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, a farsi mettere un marchio sulla mano destra o sulla fronte. Nessuno poteva comprare o vendere se non portava il marchio, cioè il nome della bestia o il numero che corrisponde al suo nome».[48].
Non è
perciò utile
seguire da vicino le glorie e gli inciampi degli strumenti di volta
in volta prestati a questo
intento.
Più che sapere se le antiche tribù d’Israele abbiano mai praticato davvero
la remissione giubilare dei debiti secondo le minuziose
prescrizioni dettate da Jahvè nel Levitico,[49]
importa piuttosto cogliere il significato di quel precetto, che è
quello di rimuovere periodicamente le metastasi e gli squilibri del
valore figurato come fu prima necessario demolire la torre eretta dai
popoli uniti
nel Sennaar, affinché gli uomini non presumessero di occupare il
Cielo e schiacciare la terra
con un divino
artefatto.
Come
illustra la
fulminea risposta evangelica
sulla liceità del tributo a
Cesare,[50]
la moneta antica era insomma
sì
una cosa sacrale, ma proprio affinché non diventasse sacra,
purché
cioè
le effigi – i numeri,
i segni – di
Cesare non attentassero alle
cose divine e gli uomini non li brandissero per imitare
e manipolare il creato. È,
questo, un inganno antico e potente che i farisei vollero
tendere allo stesso Figlio di Dio «per coglierlo in fallo nelle sue
parole». Un inganno di cui i
moderni, spocchiosamente dimentichi di quella lezione, avrebbero poi fatto la loro bandiera.
Qui si è consultata la prima edizione dell’opera: R. Guénon, Le Règne de la quantité et les signes du temps, Gallimard, Parigi, 1945. ↩
Le funzioni del denaro riportate nei manuali di economia ricalcano, con poche varianti, la famosa «triade» di John Hicks: 1) mezzo di pagamento, 2) unità di conto e misura del valore, 3) riserva di valore (v. J. Hicks, Critical Essays in Monetary Theory, Oxford University Press, Oxford, 1967). ↩
È valore (dal lat. valeo: essere forti, star bene) tutto ciò che porta benessere e prosperità secondo gerarchie di utilità (utilitas), scarsità (raritas) e preferenza soggettiva (complacibilitas) evidentemente irriducibili a un «listino» universale. ↩
«Se in un certo momento non abbiamo bisogno di nulla, la moneta è una sorta di garanzia che gli scambi saranno possibili anche in futuro, quando saranno necessari […] È per questo che tutte le merci devono essere valutate in moneta; così, infatti, sarà sempre possibile uno scambio e, se sarà possibile lo scambio, sarà possibile anche la comunità» (Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1133). ↩
Guénon, Le Règne de la quantité…, cit., p. 148. ↩
Nella latinità arcaica si contemplava anche un’accezione negativa del termine: cfr. T. Lanfranchi (a cura di), Autour de la notion de sacer, Publications de l’École française de Rome, Roma, 2017. ↩
«Μὴ ποιεῖτε τὸν οἶκον τοῦ πατρός μου οἶκον ἐμπορίου» (Gv 2,16). L’apposizione è mantenuta nella Vulgata («Nolite facere domum Patris mei domum negotiationis»), ma non nella trad. CEI 2008 («Non fate della casa del Padre mio un mercato!»). ↩
Mc 11,15-18. ↩
Alle ricadute sanitarie, oltreché politiche e sociali, dei provvedimenti adottati nel corso della proclamata pandemia del 2020-2022 ho dedicato la prima parte del libro Governo virale. Dalla polis all’ovile, Arianna Editrice, Cesena, 2021. Ancorché rappresentato come una necessità conseguente, lo zelo con cui si chiedono e si impongono tali sacrifici costituisce la cifra dominante, se non unica, delle salvezze proposte e perciò anche la prova letterale di un sacra faciere: di una sacralizzazione in atto. ↩
I pericoli di credere in questa convenzione furono particolarmente avvertiti da Ezra Pound: «Le nazioni hanno dimenticato le differenze tra animale, vegetale e minerale, ovvero la finanza ha fatto loro rappresentare le tre categorie naturali con un solo mezzo di scambio, negligendo di prendere in considerazione le conseguenze di un tale atto» (E. Pound, Oro e Lavoro, in Lavoro e Usura, Schweiller, Milano, 1954). ↩
Per un’introduzione al tema, cfr. ad es. G. Ifrah, Histoire universelle des chiffres, Robert Laffont, Parigi, 1994; o il più succinto L. Corry, A Brief History of Numbers, Oxford University Press, Oxford, 2015. ↩
Per un informato tentativo di ricostruire il pensiero numerico della scuola pitagorica alla luce della critica antica e moderna, cfr. L. Zhmud, All is number? Basic doctrine of Pythagoreanism reconsidered, in “Phronesis”, vol. 34, n. 3, 1989, pp. 270-292. ↩
Sulle circostanze, le implicazioni e le fonti di questa scoperta, cfr. K. Von Fritz, Discovery of Incommensurability by Hippasus of Metapontum, in “Annals of Mathematics”, vol. 46, n. 2, aprile 1945; F. Enriques (a cura di), Gli Elementi di Euclide e la critica antica e moderna (Libro X), Zanichelli, Bologna, 1932. ↩
Più di un secolo dopo, Platone faceva dire all’Ateniese de Le leggi che l’ignoranza di questa scoperta «non era degna di uomini, ma piuttosto di maiali, e provai vergogna non solo per me, ma anche per tutti i greci» (§ 819). ↩
L’episodio è narrato in uno scolio al Libro X degli Elementi di Euclide attribuito a Proclo Licio Diadoco, che ne dà anche l'interpretazione: «È fama che colui il quale per primo rese di pubblico dominio la teoria degli irrazionali sia perito in un naufragio, e ciò perché l'inesprimibile e l'inimmaginabile avrebbero dovuto rimanere sempre celati». Ne fa cenno anche Giamblico nella sua biografia di Pitagora. ↩
Framm. B4, in H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Dublin-Zürich, 1952, Vol. 1, Cap. 47. ↩
A distanza di quasi quattro secoli non si è ancora giunti a una definizione di «scienza» univoca e coerente con la prassi, né è logico aspettarsi che ciò avvenga, trattandosi di un costrutto semantico che incorpora una visione dei destini umani irriducibile a una pretesa proceduralità tecnica (tra le critiche più recenti, v. P.P. Dal Monte., La favola della scienza, in pubblicazione). ↩
Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae, p. LXXXV (1486). ↩
Sap 11,21: «… sed omnia in mensura, et numero et pondere disposuisti». ↩
«… and number in Philolaus appears in an epistemological but not ontological context» (C. A. Huffman, Philolaus of Croton: Pythagorean and Presocratic. A Commentary on the Fragments and Testimonia with Interpretive Essays, Cambridge University Press, 1993). ↩
E. Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino, 1966, cap. XVII. ↩
«Le nombre dont parle Pic [dans les Conclusiones] n’est donc aucunement le nombre empirique, résultant de nos mesures; il est, comme chez Plotin, le nombre en soi, posé comme principe réel, antérieur à la chose materielle (Enn. VI-vi, c. 9)» (L. Valcke, Des Conclusiones aux Disputationes : Numérologie et mathématiques chez Jean Pic de la Mirandole, in “Laval théologique et philosophique”, 41, 1, 1985, cit. in F. Buzzetta, «Magia naturalis» e «scientia cabalae» in Giovanni Pico della Mirandola, Olschki, 2019). Sulle pervasive influenze della cabala ebraica nel Rinascimento, cfr. F. Secret, Les Kabbalistes chrétiens de la Renaissance, Arché, Paris, 1985 (seconda ed.); M. Idel, F. Lelli (a cura di), La cabbalà in Italia (1280-1510), Giuntina, Firenze, 2007. ↩
F. Buzzetta, «Magia naturalis» e «scientia cabalae»…, cit. ↩
È stato osservato che la distinzione operata dai maestri bassomedioevali e rinascimentali tra la magia naturalis, che asseconda e illustra l’ordine naturale impresso da Dio, e la necromantia che lo sovverte non è sempre ben marcata, il che dà conto delle ripetute condanne ecclesiastiche. Cfr. P. Zambelli, L'ambigua natura della magia: filosofi, streghe, riti nel Rinascimento, Il Saggiatore, Milano, 1991; ead., Magia bianca, magia nera nel Rinascimento, Longo, Ravenna, 2004. Gli sforzi degli umanisti di coniugare la magia con la religione cristiana ricalcano quelli dei cabalisti medioevali che già dovettero confrontarsi con il divieto espresso nel Deuteronomio (18,9-11) e in numerosi altri passi biblici. Cfr. A. Di Nola, Magia e Cabbala nell’Ebraismo medievale, STEM, Napoli, 1964. ↩
«Der Begriff der sogenannten Statistic, das ist, der Staatswissenschaft einzelner Reiche…» (in G. Achenwall, Abriß der neuesten Staatswissenschaft der heutigen vornehmsten europäischen Reiche und Republiken zum Gebrauch in seinem Academischen Vorlesungen, 1749). Giurista e docente a Gottinga, Gottfried Achenwall (1719-1772) è considerato uno dei padri della statistica moderna. ↩
N. Rose, Governing by numbers: Figuring out democracy, in “Accounting, Organizations and Society”, Vol. 16. Issue 7, 1991. ↩
In modo ancora più trasparente, nei paesi di lingua francese si usano le parole numèrique («digitale») e numérisation («digitalizzazione»). Mentre in quasi tutte le lingue la macchina digitale prende il nome dalle collegate operazioni di calcolo (ingl. computer, it. calcolatore, ted. Rechner, sp. computadora ecc.), nel 1955 la ditta IBM introdusse in Francia un neologismo che meglio illustra il sottotesto culturale di questa tecnologia: affinché il pubblico non considerasse i nuovi dispositivi come semplici macchine calcolatrici (quali in effetti sono), li fece ribattezzare ordinateurs implicando così l’ambizione più antica di trarre dai numeri non una semplice utilità, ma piuttosto un ordo in cui si trasfigura (si «virtualizza») l’esperienza del mondo. ↩
Così scrive Jeremy Cripps nella prefazione all’edizione inglese del c.d. «Trattato di partita doppia» contenuto nella Summa De Arithmetica, Geometria, Proportioni Et Proportionalita (1494): L. Pacioli, J. Cripps (a cura di), Particularis de computis et scripturis, Pacioli Society, Seattle, 1994. ↩
Figura complessa e carismatica legata al movimento degli Spirituali d’Occitania, il narbonese Pèire de Joan-Oliu (1248-1298) insegnò teologia nello Studium francescano di Santa Croce tra il 1287 e il 1289. Alcune sue tesi controverse gli guadagnarono la condanna postuma dell’Ordine e di papa Giovanni XXII. Nonostante i superiori avessero ordinato la distruzione di tutti i suoi libri, le forti e inequivocabili influenze che ha esercitato nel pensiero di San Bernardino da Siena, Sant’Antonino da Firenze e altri, testimoniano il permanere delle sue opere e del suo lascito intellettuale nell’ambiente fiorentino. Cfr. M. C. Jacobelli, La povertà francescana e il capitalismo medioevale negli scritti di Pietro di Giovanni Olivi, Miscellanea Francescana, Roma, 2014. ↩
Mentre la tradizione francescana tenne ben ferma la condanna dell’attività finanziaria in sé (v. ad es. le prediche infuocate di San Bernardino da Siena), questa trovò successivamente aperture in alcuni esponenti della Scuola di Salamanca, v. infra. ↩
Per una succintissima panoramica, cfr. L. Barberi, Il capitalismo non è un termine evangelico. Una breve riflessione “sturziana” rileggendo l’Enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, 15 ottobre 2012 (link). ↩
Summa Theologica, II-II, Qu. 78, Art. 1. L'Aquinate sviluppa l'argomento proponendo gli esempi del vino, di cui si vende la cosa ma non l'uso, e della locazione immobiliare, in cui si vende il consumo. Ma il denaro prestato, al contrario dei beni locati, non si deteriora (appunto, non si usura), sicché il suo uso è un bene inesistente o comunque non negoziabile: è cioè il tempo, che nella visione medioevale è un universale che appartiene soltanto a Dio (il concetto fu poi messo in discussione dai saggi di Salamanca e particolarmente da Martin de Azpilcueta, che sul valore del tempo fondò la prima giustificazione teologica dell'attività finanziaria). ↩
La contrapposizione tra natura, lavoro e moneta è centrale negli argomenti medioevali contra usuram. Per Dante l’usuraio è da condannare perché «per sé natura e per la sua seguace [cioè l’arte, il lavoro] dispregia, poi ch’in altro pon la spene» (Divina Commedia, Inf. XI, 97-111). Le stesse categorie tracciano la linea tra investimento lecito e attività feneratizia illecita: nel primo caso vi è una partecipazione ai rischi e ai guadagni di un’opera produttiva «per modum societatis cuiusdam», nel secondo un trasferimento del rischio da cui il mutuante «non debet amplius exigere» (Sum. Theol., ibi, Art. 2). La finanza islamica adotta a tutt’oggi questa distinzione. ↩
Da qui ad es. il tentativo di fabbricare un nuovo soggetto nazionale «europeo» partendo proprio dall’istituzione di una moneta comune. ↩
L’innaturalità di questo processo è ben dimostrata dall’istintivo raccapriccio che suscitano le periodiche notizie di sanzioni inflitte a chi beneficia del lavoro gratuito di famigliari e amici in cambio di utilità non monetarie. ↩
Il «sommerso» che si dice di voler debellare per ragioni erariali non è altro, metafisicamente parlando, che il residuo di realtà non ancora assoggettato al numero. Per gli stessi motivi si forza la diffusione dei pagamenti elettronici a scapito della moneta contante, il cui vero «difetto» è quello di numerare solo il valore di scambio e non anche il comportamento e il carattere dei pagatori, come avviene invece con le registrazioni elettroniche delle transazioni. ↩
Oggi la disciplina economica è quasi universalmente percepita come una «scienza dei soldi» mentre, secondo tutte le definizioni, essa ha per oggetto le risorse materiali. Come la moneta ha impersonato le cose, così evidentemente la finanza ha impersonato l’economia. ↩
Osserviamo alcune espressioni di questo delirante oruboro: ora «mancano i soldi» (e non le maestranze e le pietre) per costruire un edificio; ora «mancano i soldi» (e non le bende e i chirurghi) per aprire un ospedale; ora «non ci sono i soldi» (e non il cibo o le case) per aiutare gli indigenti; ora «si sprecano i soldi» (e non il tempo e le forze) in attività inutili; ora le terre ricche sono povere perché hanno preso in prestito i soldi. ↩
Sulla crezione creditizia della moneta, cfr. la sintesi divulgativa pubblicata dalla Banca di Inghilterra: M. McLay et al., Money creation in the modern economy, in “Quarterly Bulletin”, Vol. 54, No. 1, Bank of England, Londra, 2014 (link). ↩
Alcune recenti correnti di pensiero politico si pongono l’obiettivo di esporre la natura convenzionale della moneta per promuoverne un utilizzo socialmente più equo. Per quanto corrette nell’analisi, queste lotte scontano a parere di chi scrive il vizio di confondere lo strumento col fine, di ignorare cioè che il primo nasce per servire un obiettivo gerarchico proprio di tutte le società, indipendentemente dal regime assunto. Come si racconta del principe Boromir, così l’ambizione di impossesarsi dell’anello magico forgiato dal nemico replica e rinforza i discorsi, le brame e gli obiettivi del nemico. Meglio sarebbe occuparsi dei bisogni senza concedersi alle sirene dell’economicismo. ↩
Qui e di seguito: R. Guénon, Le Règne de la quantité…, cit., Cap. XVI. ↩
Ciò nondimeno il denaro «dematerializzato» non esiste, se non appunto nell’aspirazione ideale alla finzione numerica. Lo stesso cyberspazio della moneta elettronica «is physical as all its components are physical. […] Each aspect of cyberspace may be experimented […]. All storage media are themselves commonsense objects. They are all objects which take up space and which may be directly perceived […] In this way, cyber-objects are ontologically dependent upon storage media for their existence» (D. Koepsell, The Ontology of Cyberspace, Open Court Publishing Mathieu, Chicago, 2000). ↩
Si traperò di un’illusione che sfrutta il limite delle facoltà sensoriali: «There are significant properties of bits which make them seem special, namely their ease of transport and reproduction» (D. Koepsell, The Ontology of Cyberspace, cit.). ↩
«Il preternaturale – spiega l’esorcista Francesco Bamonte – è costituito da ciò che è proprio e naturale negli angeli buoni o cattivi. I fenomeni preternaturali, dunque, non sono "fatti soprannaturali" (come ad es. i miracoli), ma fatti entitativamente naturali, perché non sorpassano le forze naturali di un essere creato, ma solo quelle di qualche altra natura» (Messaggio ai Confratelli Esorcisti e Ausiliari, 2014). ↩
Sum. Theol., cit.; Sententia libri Politicorum, Lib. 1, Lec. 8. In ossequio al testo originale (παρά) le traduzioni moderne rendono «contro natura», ma il Doctor Angelicus intendeva diversamente i due concetti: cfr. ad es. De potentia, Qu. 6, Art. 2; Scriptum super Libros Sententiarum, II, Dis. 18, Qu. 1, Art. 3. Per contro, Nicola d’Oresme condannava l’usura utilizzando indifferentemente entrambe le espressioni (Tractatus de origine, natura, iure et mutationibus monetarum, Cap. XVI). ↩
Così, nell’allegoria collodiana, i «miracoli» promessi dall’omonimo campo, di moltiplicare gli zecchini che erano ivi sotterrati, non è che un miserevole inganno. ↩
Per una breve rassegna (con bibliografia) cfr. A. M. Visser, A. McIntosh, History of Usury Prohibition. A Short Review of the Historical Critique of Usury, in “Accounting, Business & Financial History”, luglio 1998, pp. 175-189 (link). ↩
Ap 13,16-17 ↩
Lv, 25. Cfr. Grillo, M., “Giubileo e remissione del debito: antiche istituzioni sociali e finanza moderna”, in L’uomo e il denaro, Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa, Quaderno n. 57, 2016. ↩
Mt 22,15-22; Mc 12,13-17; Lc 20,20-26. ↩
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