Venerdì è stato approvato alla Camera il «decreto vaccini» che porta il nome del ministro Lorenzin. Come previsto su questo blog, il testo convertito in legge si è ammorbidito nel passaggio parlamentare con la riduzione del numero delle vaccinazioni obbligatorie e delle pene per gli inadempienti. E, come previsto, la sua applicazione si sta già scontrando con difficoltà di diverso ordine che lasciano presagire una situazione di incertezza del diritto ormai tipica di ogni riforma contemporanea: dalla carenza di organici delle aziende sanitarie che non riusciranno a vaccinare tutti gli obbligati nei tempi previsti, agli oneri burocratici a carico delle scuole, nelle cui aule non si raggiungerà comunque l'«immunità di gregge» non essendo vaccinati i docenti e il personale, né potendoli vaccinare per mancanza di fondi.
A ciò si aggiungono le più gravi opposizioni dei governi regionali, cioè di coloro che dovrebbero mettere in pratica la legge. Per toccarla piano, l'assessore all'Istruzione della Valle d'Aosta e la sua collega ligure alla Sanità hanno rispettivamente definito il decreto «nazista» e «fascista», con la promessa di boicottarlo non applicando le sanzioni previste. In giugno il Consiglio provinciale dell'Alto Adige ha approvato all'unanimità un documento contro l'obbligo vaccinale, mentre la Regione Veneto è ricorrente in Corte costituzionale contro la riforma.
Comunque vada, l'approvazione della legge è una iattura per coloro che vi si opponevano e una vittoria per chi la ha sostenuta, per chi cioè, nel dibattito che ha accompagnato il breve iter, si è intitolato il ruolo di defensor scientiae, di fiaccola della razionalità empirica contro le superstizioni dei no/anti/freevax. E noi vogliamo essere con loro.
Tralasciamo dunque i tanti dubbi espressi nell'articolo precedente. E tralasciamo le differenze tra scienza e Lascienza, già protagoniste di un divertissment gaddiano di Alberto Bagnai in cui la divinità scientifica mette in mostra tutta la sua tellurica cedevolezza alle fregole del dominus. Tralasciamo anche il fatto che la scienza, non possedendo favella, parla per bocca di una comunità scientifica tutt'altro che unanime sull'opportunità e le motivazioni del decreto, poco o per nulla coinvolta nella sua redazione e disincentivata al dibattito con la minaccia di ritorsioni disciplinari à la Paolo V. Tralasciamo l'assurdo insiemistico di squalificare le opinioni di alcuni scienziati, cioè di coloro che producono la scienza, in quanto non convalidate da una preesistente e imperturbabile scienza: cioè da Lascienza. E tralasciamo quindi, ad esempio, anche il recentissimo documento della Società italiana di psico-neuro-endocrino-immunologia (SIPNEI) che invito a consultare nella sua interezza, secondo la quale «la decisione governativa di estendere l’obbligatorietà delle vaccinazioni... a nostro avviso, non regge ad un esame ravvicinato dei dati e delle premesse». Gli autori saranno anche scienziati, ma non sono evidentemente Gliscienziati.
Tralasciamo tutte queste cose e, per un giorno, accingiamoci a festeggiare con la frangia illuminista dell'opinione pubblica. Ma, esattamente, a festeggiare che cosa?
È chiaro che l'eventuale valore scientifico della nuova legge non risiede negli obblighi e nelle sanzioni. Questi sarebbero solo strumenti per raggiungere un traguardo predicato, cioè l'aumento delle coperture vaccinali. L'obbligo di comportarsi scientificamente non sarebbe celebrato in sé, ma in quanto promotore di comportamenti scientifici. E qui insorgono un paio di grossi problemi.
Il primo è che, delegando direttamente le conclusioni del dibattito scientifico a istituzioni dotate di vis politica - dagli ordini professionali fino ai membri del governo - lo si è privato di una sua prerogativa sostanziale, di ricercare liberamente una verità provvisoria utile all'avanzamento delle conoscenze. Per quanto in modo strisciante, la querelle sulle vaccinazioni ha reso più esplicito un ribaltamento di forze tra scienza e potere dove quest'ultimo si va ritirando dal ruolo di promotore della ricerca e vi rientra a gamba tesa per suffragare l'una o l'altra campana, per certificare l'uno o l'altro risultato con il peso minaccioso della propria autorità, buttando così nel gioco istanze che nulla hanno a che fare con gli obiettivi di quella ricerca: consenso elettorale, inclinazioni ideologiche, condizionamenti geopolitici, interessi di lobby ecc. Ma non solo. Nell'impossessarsi di quel discorso, lo riformula in un codice linguistico - quello della politica e del giornalismo - che è la negazione quasi puntuale di ogni disciplina di metodo, pieno com'è di grossolane semplificazioni da talk show, attacchi alla persona, slogan pieni d'effetto ma poveri di contenuto, fino al falso sic et simpliciter.
Nella rottura di questo equilibrio non si inabissa solo l'utilità dello strumento scientifico, ma prima ancora la sua rispettabilità. Il punto è stato ben colto dal citato documento SIPNEI:
Istituzioni scientifiche, professionali e singole personalità, con l’amplificazione dei media, hanno dato una pessima prova, adottando un atteggiamento paternalistico, dogmatico e, a un tempo, di allarme sociale, bollando con marchio d’infamia tutti coloro che, anche in sede professionale e scientifica, hanno espresso valutazioni articolate e di merito sui singoli vaccini... nel furore della polemica, alcuni esponenti dell’Accademia hanno diffuso una visione della scienza di stampo dogmatico, con il risultato paradossale, a nostro avviso, di produrre un rafforzamento, invece che un indebolimento delle convinzioni di tipo antiscientifico presenti nella popolazione. In questo modo, è stato prodotto un danno enorme alla diffusione della cultura scientifica del nostro Paese, che già soffre di ritardi storici a livello di massa.
E ancora:
Non si difende e non si diffonde la cultura scientifica adottando il modello medievale dell’«ipse dixit», dell’autorevolezza della cattedra, bensì mostrando la bellezza del metodo scientifico... Solo una scienza che ottenga i suoi risultati adottando una procedura trasparente e che li condivida con la società tutta, è in grado di conquistare la partecipazione convinta dei cittadini alle proposte di politica sanitaria che ispira.
E già questa, comunque la si pensi, è una pessima notizia, tanto più per chi sognava il positivismo al governo. Se non irreversibile, il danno d'immagine è in effetti «enorme» e lascerà un segno duraturo nell'opinione pubblica se non si provvede in fretta a restituire al pensiero scientifico la dignità, l'indipendenza e la problematicità che lo devono caratterizzare.
Il secondo problema è al tempo stesso corollario e dimostrazione del primo. Chi scrive si confronta sempre più spesso con persone che fino a sei mesi fa non si erano neanche minimamente poste il problema delle vaccinazioni. Parliamo di qualche decina di casi, a cui corrispondono le decine di migliaia che manifestano nelle piazze e sui social e, si presume, le centinaia di migliaia o milioni haec conferentes in corde suo. Se non vogliamo pensare che queste moltitudini, prima ignare e poi insospettite dal metodo, convertitesi in compulsatrici notturne di siti alternativi, alimenteranno almeno in parte le fila degli esitanti o dei renitenti, bisogna ammettere che chi già ne faceva parte affronterebbe oggi il supplizio della ruota pur di non sottoporre i pargoli alle iniezioni. Sicché, se proprio andrà bene, la situazione non potrà che consolidarsi sui numeri attuali.
Occorre insomma chiedersi, sempre a beneficio degli Auguste Comte con cui avrei voluto brindare, se il provvedimento sia funzionale all'obiettivo. Perché se ciò non fosse, si tratterebbe di una mossa politica non solo fallimentare, ma anche antiscientifica nei suoi effetti. Per valutarlo non basta però l'esperienza aneddotica di un Pedante, né le previsioni di chi osservasse l'inedito tenore delle proteste. Ci vuole, appunto, una valutazione scientifica del fenomeno. Che esiste.
Il progetto ASSET è un progetto quadriennale europeo di ricerca che studia le ricadute sociali delle pandemie e delle politiche sanitarie di emergenza. Nel report Compulsory vaccination and rates of coverage immunisation in Europe (settembre 2016) i membri del gruppo indagavano la correlazione tra coperture vaccinali e obbligatorietà dei vaccini nei paesi dell'Unione europea e dell'Area economica europea (EU/EEA), concludendo che
... il confronto [tra i paesi esaminati] non è in grado di confermare alcuna relazione tra vaccinazioni obbligatorie e tassi di immunizzazione infantile nei paesi EU/EEA... Benché questa esposizione dei dati non sia in grado di fornire la prova definitiva dell'efficacia o inefficacia delle vaccinazioni obbligatorie sui tassi di immunizzazione, essa dimostra che questo approccio non risulta rilevante nel determinare la copertura vaccinale infantile nei paesi EU/EAA.
Qui gli scienziati (sì, sono scienziati) del progetto ASSET non esprimono un'opinione o una raccomandazione, ma presentano i risultati di una rilevazione da cui emerge che, nell'epoca e nel contesto geografico, politico e sociale in cui si trova il nostro Paese, l'obbligo di vaccinarsi non fa aumentare i vaccinati. Punto. E lo dimostrano attraverso un'osservazione empirica, cioè scientifica, dalla quale si deve evincere che la legge sull'obbligatorietà dei vaccini, anche volendole attribuire le migliori intenzioni e la fondatezza degli assunti, è antiscientifica in definizione perché contraddice i risultati della ricerca scientifica sulla sua utilità.
Una beffa, insomma. La nemesi di un metodo scientifico che evidentemente non si lascia mettere le mani addosso senza reagire. E non si può neanche dire che i dati - peraltro facilmente accessibili a tutti - fossero arrivati tardi. La ricerca era già pubblicata nell'estate del 2016 e gli autori, basandosi su quei risultati (lo ripetiamo: scientifici), lanciavano anche un avvertimento al Governo italiano nel febbraio di quest'anno:
Sono molti i modi in cui le autorità possono lottare contro l'esitazione vaccinale. Tutti possono migliorare la situazione, ma solo a patto che ci si tenga ben presente che i genitori non sono fanatici, testardi e irrazionali, ma padri e madri ansiosi e preoccupati che hanno a cuore i loro bambini tanto quanto coloro che decidono di vaccinarli. Occorre aiutarli a fare la scelta migliore per i loro piccoli, non obbligarli a fare qualcosa che secondo loro li potrebbe danneggiare in modo grave.
Tutto inutile. Doveva vincere Lascienza, e vinceremo.
***
Le vie dell'irrazionalità sono infinite. Sicché non deve stupire che riescano anche a indossare il camice di una metodo scientifico propedeuticamente squalificato al rango della sua caricatura simbolica. Se scoprire il gioco è tutto sommato facile, capirne le cause è un esercizio più arrischiato che per amore di pedanteria tenteremo almeno di abbozzare, domandandoci perché i sostenitori più vocali della razionalità aderiscano, nel nome di quella razionalità, a soluzioni razionalmente non fondate.
La prima e più banale ipotesi chiama in causa il deficit di informazione. Per comprendere le istanze di un dibattito scientifico non servono solo competenze alla portata di pochi, ma anche la disponibilità ad accettare risposte «aperte» e provvisorie che non possono da sole colmare il margine della discrezionalità e della precauzione di ciascuno. La ricerca di nozioni definitive e non problematiche («Lascienza dice») diventa così un atto di economia cognitiva necessario come lo è l'intuizione pre-empirica, ad esempio quella di credere che obblighi e sanzioni promuovano sempre la diffusione di una pratica più di quanto possa un invito.
La seconda ipotesi, che si dovrà sviluppare meglio in un'altra sede, è quella della partecipazione politica identitaria. In una democrazia impotente dove la volontà popolare è sostituita da vincoli e necessità esogeni a cui bisogna piegarsi - i listini di borsa, i trattati internazionali, i mercati esteri, i capricci dei partner politici e commerciali ecc. - la partecipazione politica diventa uno strumento cosmetico per affermare un'immagine di sé, non per promuovere azioni e programmi. Sicché, come si vota a sinistra per essere di sinistra e non per fare politiche di sinistra, così si sostiene una qualsivoglia legge a favore delle vaccinazioni per essere razionali e moderni, o specularmente per non essere oscurantisti, complottisti, grillini, lunatici ecc. Che poi serva davvero, è questione pratica che esula dalla funzione identitaria in cui si è arenato l'esercizio politico.
La terza ipotesi ci fa ritrovare una vecchia conoscenza, anzi una vecchia zia: la zia Tecno, per gli amici tecnocrazia. Qui Lascienza non è che l'ulteriore mascheramento della competenza dei professori al governo, dell'indipendenza dei banchieri centrali, della τέχνη dei tecnici che agiscono per necessità aritmetica e non per orientamento politico. È il sogno, così ricorrente nell'ultimo decennio, di un principio superiore e imperturbabile all'errore umano che può salvarci dai capricci della turba elettorale e condurci, volenti o nolenti, a compiere le scelte migliori. Il ritornello de «la scienza non è democratica» non significa in sé nulla: non trattandosi di una forma o surrogato di governo, essa non è nemmeno monarchica, autarchica, ginarchica, papale o altro. In quella formula si rivela piuttosto la tentazione di sostituire agli incerti della democrazia un meccanismo che si immagina infallibile e preciso. Di rottamare l'autodeterminazione dei popoli e affidarsi a un'acefala, impersonale e più tranquillizzante eterodeterminazione. Che poi la titolarità di quel vincolo sia in realtà reclamata, come sta accadendo in questo e in altri contesti, da umanissimi potentati mossi da umanissimi interessi, lascia presagire fin troppo bene dove si andrà a parare.
(Parentesi giuridica: nella nostra democrazia la scienza non è una fonte del diritto, lo sono invece la consuetudine e gli usi, cioè l'eventuale pratica scientifica «condivi[sa] con la società tutta». Se è lecito che i popoli si conducano anche in violazione delle certezze scientifiche del momento - ad esempio nelle questioni religiose, o culturali - non lo è il fatto di imporre loro un provvedimento per la sola virtù di essere «scientifico», anche ammesso che lo sia davvero).
La quarta ipotesi è anche la più audace e meno documentabile, perché postula un dolo, sia pure potenziale. Se si introduce un obbligo con la promessa di un miglioramento che non avverrà, che cosa resta? L'obbligo, appunto. Resta una limitazione della libertà dei singoli a cui non corrisponde una contropartita nel contratto sociale, un'imposizione fine a se stessa che libera spazi per controllare e reprimere, fissare un altro precedente nella revoca dei diritti fondamentali della persona in nome dell'«emergenza» e alimentare insieme un conflitto ideologico dove il fronte dei sudditi si spezza in un gioco di odio, delazioni e sospetti. Qui la scienza non è più solo il pretesto dell'oppressione, ma per ciò stesso ne è anche la vittima. Rileggiamo, ancora una volta, George Orwell:
Nell'Oceania di oggi la scienza intesa come la si intendeva un tempo ha quasi cessato di esistere. In neolingua non esistono parole per esprimere il concetto di «scienza». Il metodo di pensiero empirico, su cui si fondavano tutte le conquiste scientifiche del passato, non è compatibile con i principi più fondamentali del Socing. Lo stesso progresso tecnologico riguarda ormai solo i prodotti che possono essere utilizzati in qualche modo per ridurre la libertà degli uomini. In tutte le discipline di un certa utilità, il mondo è fermo o sta tornando indietro.
Una scienza controllata e sfruttata da chi governa tende all'inutilità, una volta esauritasi come strumento. Ce lo spiega in una sola frase il poco pedante O'Brien, alto funzionario del Partito interno in 1984:
Quando saremo onnipotenti, non avremo più bisogno della scienza.
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