A beneficio dei più pedanti, in questa terza puntata della serie "Dittatura degli intelligenti" (qui la prima e la seconda) ci piace aprire un'appendice in calce al tema trattato nel precedente capitolo, laddove si registravano l'esistenza e i moventi di una tentazione antidemocratica vieppiù diffusa: quella di escludere i cittadini meno istruiti e/o informati dalla partecipazione elettorale. Là ci eravamo lasciati con le fantasie dell'ex cronista sportivo Massimo Gramellini che, elettosi alla testa della crema intellettuale nostrana, contrapponeva i "cittadini evoluti" di cui avrebbe bisogno una vera democrazia alla "gente comune" incapace di scegliere consapevolmente.
Avendo chiarito che le temibili decisioni della massa ignorante non sono altro che le decisioni sgradite alla massa degli opinionisti e dei loro lettori, non è del tutto ozioso chiedersi se esista davvero, e in che misura, una correlazione tra l'istruzione/informazione degli elettori e la qualità della loro partecipazione politica.
Nel mischione semantico postmoderno, scientia (conoscenza) e sapientia (saggezza) convergono nell'accezione burocratica del sapere certificato dai titoli di studio, sicché la sofocrazia platonica - il governo dei saggi - diventa il governo dei laureati e, a fortiori, di coloro che formano i laureati, cioè dei professori. Essa diventa quindi tecnocrazia, l'esito ossessivo della contemporaneità politica in cui l'equivoco di una seduzione antica si coniuga con l'ulteriore equivoco di una competenza che si vorrebbe rivolta agli strumenti - il diritto pubblico, i regolamenti di settore, le norme contabili ecc. - e non ai fini del governo comune.
Se gli strumenti nascono al servizio dei fini, escludere dalla determinazione dei fini coloro che non conoscono gli strumenti è un modo intellettualmente puerile per avocare a sé le decisioni, nel proprio interesse. Per lo stesso risibile principio, chi non ha studiato l'armonia tonale non potrebbe esprimere preferenze musicali, chi non conosce l'aerodinamica non potrebbe decidere su quale volo imbarcarsi e a chi ignora la geologia degli idrocarburi andrebbe vietato di impostare il termostato di casa. L'aristocrazia del passato, più onesta, spregiava il vile meccanico anteponendogli l'erudizione e il lignaggio. Quella odierna lo glorifica per dare una parvenza di asettica meritocrazia ai propri capricci.
Ma c'è anche un'altra ipotesi. Che la palestra mentale degli studi superiori predisponga indirettamente a una più profonda intelligenza delle cose pubbliche. In fondo, si pensa, chi si è educato nelle asperità dell'analisi matematica, delle scienze sperimentali o delle lingue antiche è anche mediamente più attrezzato a dipanare la complessità e l'ambiguità della realtà sociale. La capacità di astrarre, si pensa, gli ha fornito gli strumenti per orientarsi tra nessi, indicatori e simboli. E la disciplina degli studi, si pensa, gli ha insegnato a soppesare i giudizi senza essere impulsivo.
L'ipotesi è verosimile, ma non necessariamente vera. Per testarla empiricamente potremmo considerare proprio il governo dei professori che, a dispetto della sua celebrata scienza, non ha centrato nessuno degli obiettivi che si era proposto. Ma in quel caso ci resterebbe il dubbio che i professori abbiano mentito nel dichiarare i propri fini manifesti per realizzarne altri, come già anni prima aveva teorizzato il loro capobranco. Ci concentreremo pertanto su un caso storico più sedimentato.
Un lettore diligente mi segnala un'interessante ricerca della professoressa Penny Lewis sulla ricezione della guerra di Vietnam presso il pubblico americano. Scorrendone il testo si apprende che
[...] in generale, i settori più istruiti del pubblico hanno sostenuto più di tutti il prolungamento dell'impegno militare americano [in Vietnam]. Nel febbraio del 1970, ad esempio, Gallup sottoponeva al campione il seguente quesito: "Alcuni senatori sostengono che dovremmo ritirare immediatamente le nostre truppe dal Vietnam: siete d'accordo?". Tra coloro che fornirono una risposta, si espressero in favore del ritiro immediato oltre la metà degli adulti in possesso di licenza elementare, circa il 40% dei diplomati e solo il 30% di coloro che avevano frequentato un'università. Non si trattava di un'anomalia statistica. Nel maggio del 1971 il 66% dei rispondenti laureati riteneva che la guerra fosse stata un errore, a fronte del 75% dei diplomati. In generale, un'attenta lettura dei dati dimostra che nella maggior parte delle questioni riguardanti la guerra, la più forte opposizione al coinvolgimento americano in Vietnam provenne dalla parte meno istruita della popolazione.
Poiché raramente i programmi di storia dei licei si spingono oltre il Fascismo, ci piace ricordare anche ai più istruiti che cosa fu la guerra in Vientam: una lunga, inutile e sterminata carneficina, la più grande dopo la seconda guerra mondiale, con oltre 5 milioni di morti di cui quasi 4 civili, dieci nazioni coinvolte, rappresaglie, stupri, torture e milioni di sopravvissuti traumatizzati a vita. Ma essa fu anche la più grande sconfitta politica e militare degli Stati Uniti, che in quell'avventura persero oltre 160 miliardi di dollari e quasi 50.000 uomini senza ottenere nulla, se non la vergogna di un attacco infame e di una disfatta su tutti i fronti.
Inaugurata con il pretesto evergreen di proteggere un gruppuscolo esotico dai cattivoni di turno (allora erano i comunisti, oggi frequenterebbero una moschea) e degenerata nella penosa illusione di "rendere credibile la potenza" americana (cit. JFK), la guerra in Vietnam durò vent'anni. E in quei vent'anni l'opinione pubblica americana ne conobbe le atrocità leggendo i reportage, seguendo i documentari e ascoltando le testimonianze dei rimpatriati. Con il passare degli anni anche la prospettiva di un esito favorevole del conflitto appariva sempre più remota, sicché sostenere l'impegno militare dopo 15 anni di inutili stragi non era da ignoranti, ma da stupidi. E i più stupidi erano proprio i meno ignoranti.
Più avanti, nello stesso libro, si riporta la conclusione di uno studio condotto dal prof. Richard Hamilton nel 1968, secondo il quale:
... la preferenza per le alternative politiche più "dure" si riscontra con maggior frequenza tra i seguenti gruppi sociali: i più istruiti, coloro che occupano posizioni di prestigio, le categorie ad alto reddito, i giovani e le persone che prestano molta attenzione ai giornali e alle riviste.
La testimonianza è di sorprendente attualità. Non solo perché le categorie sociali citate - gli istruiti, i prestigiosi, i benestanti, i giovani, prevalenti tra i falchi politicamente miopi di allora - sono esattamente le stesse in cui la stampa di oggi pretende invece di celebrare l'elettorato più lungimirante, ma soprattutto per la chiave di lettura che si anticipa nella chiusa. Queste persone non sono semplicemente informate, ma "prestano molta attenzione ai giornali e alle riviste". La ricerca di Hamilton evidenzia una correlazione tra quegli status sociali e una maggiore inclinazione a lasciarsi orientare dall'informazione stampata, cioè dalla propaganda. Elidendo i termini centrali, le retoriche degli opinionisti moderni si potrebbero allora ritradurre e semplificare così: l'elettore buono è quello che fa ciò che gli dicono i giornali. A prescindere dalla condizione sociale, che è strettamente funzionale a fabbricare nei manipolati l'illusione della propria superiorità e indipendenza (se in altre circostanze i più obbedienti fossero stati gli incolti, si sarebbe detto che i colti erano inconcludenti, debosciati ecc.).
Ma perché i cittadini più istruiti sono, mediamente, anche i più esposti alla propaganda? Sul tema una lettrice mi segnala una riflessione del sociologo francese Jacques Ellul, qui sintetizzata dal curatore dell'edizione inglese di Propagandes (1962), che mi sembra centrare perfettamente il punto:
Un punto... centrale della tesi di Ellul, è che la moderna propaganda non può funzionare senza "istruzione". Egli ribalta così la nozione prevalente secondo cui l'istruzione sarebbe la migliore profilassi contro la propaganda. Al contrario, Ellul sostiene che l'istruzione, o comunque ciò che è comunemente designato con questo termine nel mondo moderno, è il prerequisito assoluto della propaganda. Di fatto, il concetto di istruzione è ampiamente sovrapponibile a ciò che Ellul chiama "pre-propaganda": il condizionamento delle menti tramite l'immissione di grandi quantità di informazioni tra loro incoerenti, già dispensate per altri fini e presentate come "fatti" e "cultura". Ellul prosegue il ragionamento designando gli intellettuali come la categoria più vulnerabile alla propaganda moderna, per tre motivi: 1) assorbono la più grande quantità di informazioni non verificabili e di seconda mano; 2) sentono il bisogno impellente di esprimere un'opinione su qualsiasi importante questione di attualità, e pertanto soccombono facilmente alle opinioni offerte loro dalla propaganda su informazioni che non sono in grado di comprendere; 3) si considerano in grado di "giudicare per conto proprio". Hanno letteralmente bisogno della propaganda.
In termini pedanti, l'istruzione scolastica al netto delle competenze tecniche che impartisce (da cui l'illusione tecnocratica) è il veicolo di trasmissione di un'impalcatura simbolica che riflette e rafforza, in termini necessariamente schematici e riduttivi, gli automatismi ideali della comunità politica di appartenenza.
Il meccanismo si è dispiegato con rara nitidezza nel corso delle recenti elezioni presidenziali austriache, dove alla netta polarizzazione dell'elettorato lungo l'asse della scolarizzazione - l'80% dei laureati e il 73% dei diplomati sceglievano l'europeista Van der Bellen - corrispondeva una polarizzazione del dibattito pre elettorale attorno al tema del presunto nazionalsocialismo del contendente di destra e della FPÖ. Nell'Austria contemporanea - come in Germania, e in Italia con il fascismo - il trascorso nazista del Paese ha subito nella memoria collettiva un processo di cristallizzazione e tabu-izziazione che lo ha relegato negli spazi irreali e irrealmente suggestivi del simbolo. Esso è diventato il Male, e non già un male storicamente attestato le cui cause possono quindi ripresentarsi - come sta infatti avvenendo nell'Europa dell'austerità brüningiana. Sicché, per fuggire l'orrore di un presunto simbolo del nazionalsocialismo, chi ne ha studiati gli orrori si rifugia in un progetto politico che ne ripropone nei fatti le cause - austerità, deflazione, disoccupazione - e le prerogative, germanocentriche e antidemocratiche.
Un ulteriore esempio, tra i tanti, è la permeabilità del pubblico al discorso pseudoscientifico (ne abbiamo scritto qui), che veicola messaggi privi di fondamento scientifico ammantandoli del lessico e del contesto - accademico, editoriale, mediatico ecc. - propri della scienza. La seduzione di questa cosmesi è evidentemente tanto più efficace verso coloro che hanno maturato un rispetto acritico e istintivo verso le insegne della scienza e dei suoi luoghi, cioè in chi ne ha più a lungo subito l'autorità nel corso degli studi. Ciò realizza puntualmente l'intuizione di Ellul: l'istruzione è necessaria per affermare l'autorità dei maestri, ma quasi mai sufficiente per verificarne gli insegnamenti.
Lasciando all'esercizio dei lettori l'indagine di ulteriori applicazioni, rileviamo infine nel pubblico più acculturato una coazione alla complessità, e di conseguenza alla sintesi, analoga e propedeutica alle illusioni del pensiero simbolico. Secondo un cliché anche linguisticamente cristallizzato, prendere le distanze dalle "eccessive semplificazioni", dai "giudizi superficiali" e dalle "facili soluzioni" che conducono al "voto di pancia" è un imperativo per chi voglia marcare la propria appartenza, reale o auspicata, all'immaginaria classe sociale degli imparati. Nel predicare una visione che vada oltre la realtà apparente, questa posa intellettuale convoluta e socialmente consolatoria finisce però per nasconderne le correlazioni e i nessi più elementari.
L'elettore istruito, un po' perché è tale ma molto di più perché vuole dimostrarsi tale, tenderà a confondere e a negare le conseguenze dirette di una scelta politica collocandole ad esempio nella prospettiva apparentemente raffinata del lungo termine, dell'insufficienza e degli altri miti che già altrove ci siamo divertiti a descrivere, oppure calandole nel contesto etnico-culturale con tirate varie su brigatisti, partigiani, savoiardi, briganti, mecenati rinascimentali, riformisti greco-latini e via onanizzando. O ancora, brandirà l'irrilevanza di una minuzia statistica come una piccola ma clamorosa conferma - invisibile agli incolti e ai grossolani - di ciò che gli alberga in testa: uno zero virgola in più di PIL, un coro fascista nel bar sotto casa, una startup, le buone prassi di un comune di quattro abitanti, un #ChiCeLaFa. Mancando clamorosamente - e sdegnosamente - l'elefante nella stanza.
In quanto alla sintesi, indispensabile veicolo di sistemazione della complessità, si tratta in questo caso della mera compensazione di una visione analitica negata e scombinata da una pretesa raffinatezza di pensiero. È una sintesi autoportante, le cui conclusioni nascondono l'assenza e l'impossibilità di sviluppo. È, per restare nel tema, una sintesi figlia degli schemi della cultura scolastica e cosiddetta generale, dove Machiavelli è un cinico, Mozart è spontaneo, Nietzsche un nazista e l'Europa un sogno di pace. La complessità inesistente converge così nella semplificazione di ciò che non esiste.
È un caso etimologico che "dotto" e "indottrinato" condividano la stessa radice (dŏcĕo), e così anche "sedotto" ed "educato" (dūco). Non è invece un caso che i cittadini più istruiti, sia per il maggior prestigio sociale di cui mediamente godono, sia per l'impalcatura simbolica dispensatagli dalla scuola, sia per un risibile e mal dissimulato orgoglio di classe, siano i bersagli non solo preferiti dalla propaganda, ma anche i più facili.
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