Una fotografia
La fotografia di Aylan Kurdi, il bambino curdo morto in mare mentre fuggiva dalla guerra dell'Occidente contro la Siria - e della Turchia contro i curdi - offriva al branco mediatico l'occasione di esibire i propri buoni sentimenti in un rito pornografico e purificatorio così osceno da non lasciare dubbi sulla cattiva coscienza dei suoi celebranti. Che la civiltà a cui ci vantiamo di appartenere abbia le mani insanguinate è una percezione che, per quanto vaga e sgradita, tocca ormai anche gli strati più ignari dell'opinione pubblica occidentale. I massacri, i colpi di stato, le usurpazioni e gli strupri degli eserciti europei, americano, saudita e israeliano (che ai bambini in spiaggia invia i missili) e delle loro agenzie - dai nazisti ucraini ai tagliagole islamisti passando per gli sciacalli del credito - sono un segreto così mal custodito da richiedere dosi sempre più massicce di antidoti retorici moralistici e fantasie geopolitiche, a cui ormai si crede più per disperazione che per ignoranza.
L'ostentazione del piccolo corpo è lo stratagemma di una cultura lacerata tra la penosa retorica di un primato etico indimostrabile e una norma politica distruttiva e autodistruttiva sempre più scoperta. Uno stratagemma gettato in pasto a un pubblico manipolato, disorientato e distratto che in quell'immagine si illude di riverginare, urlandola, la propria umanità espiando la complicità e l'acquiescenza con cui nei fatti continua a sostenere i crimini dei propri governi.
Nel suo percorso mediatico la fotografia di Aylan Kurdi si è trasformata. Da documento - tra i miliardi - degli orrori che infestano il mondo è diventata un simbolo, e nel suo farsi simbolo ha smesso di essere un documento. Non parla più di un bambino in fuga dagli eventi ma ne rappresenta l'idea: la morte innocente ovunque essa colpisca. E non è più il fotogramma di un popolo perseguitato né di una guerra illegittima e mercenaria, ma simboleggia l'orrore di tutte le guerre: in ogni tempo e luogo e a prescindere da chi le fa, chi le subisce e chi ci guadagna.
Perché i simboli funzionano così: per elevarsi nelle sfere immobili delle idee devono spogliarsi della contingenza storica che li ha ispirati. Il simbolo non sopporta i dettagli della realtà empirica - date, nomi, luoghi, nessi, responsabilità ecc. - e ancor meno li sopporta chi se ne abbevera, che nel simbolo trova una scorciatoia per attingere alla facile ebbrezza degli archetipi senza darsi l'incomodo di conoscere i fatti. Dal che l'entusiasmo del pubblico che nella foto di Aylan si scopre "buono" senza doversi interrogare su chi siano i "cattivi". Ma anche quello di questi ultimi e dell'establishment mediatico che li copre: in un mondo pago di condannare l'idea platonica del Crimine, i criminali possono dormire sonni tranquilli.
La notizia simbolica
Non si pensi che i simboli siano una figura retorica ricorrente della comunicazione politica e giornalistica: essi ne costituiscono anzi l'essenza. Chi - come Il Pedante - sfoglia le pagine di un quotidiano non più di una volta ogni due mesi è investito in quei rari casi dall'inquietudine dell'alienazione: lì non si trovano fatti e opinioni, ma un catafalco narrativo, una sovrastruttura letteraria liberamente ispirata da eventi e persone reali che nella notizia si trasfigurano spogliandosi della loro realtà. Il filtro operato da questo sottogenere letterario è appunto la rappresentazione per simboli che trasforma il sottostante narrato in un teatro allegorico dove si misurano i grandi valori e le grandi emozioni: il Bene, il Male, la Giustizia, il Sacrificio, il Riscatto, il Dolore, la Vergogna, l'Orgoglio, la Solidarietà ecc. La linea editoriale non si esibisce di norma in schiette posizioni di parte ma nella scelta e nella fabbricazione dei simboli che veicolano la notizia, i quali possono essere il fotogramma di un evento, una testimonianza o una frase che assurgono a rappresentare il tutto (nel qual caso parleremo, con Vladimiro Giacché, di falsa sineddoche) o ancora un accostamento storico o semantico, un hashtag, un gesto, una canzone o, all'occorrenza, una falsificazione.
Se i fatti sono trasfigurati e sostituiti dal simbolo il giudizio del lettore non può che essere plasmato da ciò che esso rappresenta, ottemperando all'arbitrio e agli interessi di chi lo ha prodotto. Non è raro - anzi è la norma - che il simbolo sia utilizzato per nascondere una realtà che, se conosciuta nella sua complessità e interezza, genererebbe giudizi diversi od opposti rispetto a quelli simbolicamente evocati. Fare esempi equivale a pescare nel mucchio: il loden di Mario Monti, simbolo della pretesa Sobrietà risanatrice di un uomo e di un governo che nella realtà - quella non simbolica - hanno dilapidato più ricchezza nazionale di una guerra; l'hashtag #jesuischarlie, simbolo di una protesta per la Libertà di stampa e di una mobilitazione nella realtà promosse dai più accaniti persecutori della libertà di stampa; il tweet della morente Olesya Zhukovskaya, l'infermiera di Kiev il cui martirio straziante (ma falso) assurgeva a simbolo della lotta dei cittadini ucraini contro la Corruzione (?), quando si trattava invece di una militante nazista impegnata nel golpe che avrebbe consegnato il suo paese ai nazisti. O ancora, il simbolo più caro al Pedante: quel #ChiCeLaFa dove i sedicenti successi di giovani e sorridenti connazionali vorrebbero anesteticamente simboleggiare il Riscatto di un Italia in cui nella realtà disoccupazione, precariato e working poverty galoppano come mai altrove nel mondo sviluppato.
Particolare accanimento è riservato alle personalità politiche, presentate al pubblico come figurine allegoriche di una fiaba prescolare e manichea: Giorgio Napolitano, venerato simbolo di una Stabilità politica così stabile da avere prodotto l'unico colpo di stato di cui si abbia pubblica notizia nel nostro dopoguerra; Barack Obama, simbolo di un'Emancipazione razziale in cui la condizione dei neri d'America è regredita all'era reaganiana; Kim Jong un, simbolo della Follia guerrafondaia (non avendo mai fatto una guerra); Vladimir Putin, simbolo della Dittatura (essendo stato sempre regolarmente eletto); Alexis Tsipras, simbolo della Resistenza all'Europa delle banche (avendone esaudito tutti i capricci, con lo zelo dei servi). Per non aprire il lungo elenco dei personaggi consegnati alla storia, che lasciamo all'esercizio dei lettori: da J. F. Kennedy (la Pace) al Mullah Omar (il Terrore), da Slobodan Milošević (il Genocidio) al colonnello Gaddafi (il Medioevo), da Bettino Craxi (la Ruberia) ad Altiero Spinelli (il Sogno europeo).
La tribuna simbolica
Ma se il potere del simbolo di mistificare e negare la realtà piace tanto a giornalisti e lettori, è nella comunicazione politica che trova le sue applicazioni più sfrenate. Qui tutto è simbolo. Qui tutto si esprime alludendo ai più alti valori e relegando i contenuti nell'oscurità di una tecnica ormai largamente ignota ai suoi stessi protagonisti, a loro volta allevati nel culto dei simboli e dello sproloquio idealista. Qui la compulsione all'astrazione simbolica assume i contorni clinici di un'aberrazione che l'insipienza di politici ed elettori non è più in grado, da sola, di spiegare. Bisogna allora tornare all'immagine del piccolo Aylan e alla natura consolatoria della sua ostentazione a reti unite ("non è vero che siamo cattivi, il nostro pianto è qui a dimostrarlo!"). Ecco, in quella strumentalizzazione di regime emerge a parer del Pedante una chiave per decifrare il delirio simbolico del discorso politico di oggi: anche qui gli effetti misurabilmente distruttivi dell'azione legislativa sui diritti, il benessere e la dignità delle masse sono a tal punto macroscopici e osceni - non solo per i governati ma per le stesse coscienze di chi governa - da esigere un mascheramento ideale che ne dissimuli l'infamia.
Uno scarto antitetico e grottesco separa i pensieri della politica dai suoi atti. I primi, negati e mortificati dai fatti, non possono che trovare rifugio nell'inutile appagamento dei simboli - tanto più nobili e vuoti quanto più ignobile e concreta è l'azione. C'è chi onora la Costituzione simbolo della nostra democrazia mentre ne progetta lo stupro; c'è la cacofonia dei dementi che intonano "Bella Ciao", l'inno-simbolo della resistenza all'imperio del capitale, subito dopo avere regalato 7,5 miliardi di rivalutazione azionaria a un manipolo di banchieri; c'è chi sventola i simboli arcobaleno della pace bombardando il Nord Africa e spalancando le porte alla guerra; c'è chi si versa un secchio d'acqua ghiacciata in testa per simboleggiare la propria solidarietà ai malati di SLA, e nel mentre taglia l'assistenza domiciliare; e ci sono i sedicenti depositari dei simboli della Resistenza al nazifascismo che rinunciano a condannarlo nelle sedi internazionali e acclamano e finanziano i nazisti redivivi alle porte d'Europa.
Va ancora peggio con ciò che, non trovando simboli dietro cui nascondersi, si fa esso stesso simbolo: le riforme distruttive, recessive e classiste che diventano simbolo e feticcio di un Paese che si rinnova (?); le opposizioni alle stesse, simmetricamente simbolo di una deprecabile resistenza alla modernità; lo spread, simbolo dell'arretratezza politica e civile degli italiani; i diritti civili, simbolo di una pretesa maturità etica con cui si vuole nascondere l'erosione criminale di diritti ben più fondamentali: casa, lavoro, salute; la multiculturalità, simbolo di una società aperta e accogliente con tutti - tanto da considerare nemici i suoi stessi cittadini. Ma più di tutti il simbolo dei simboli: l'Europa, il cui progetto politico è così smaccatamente perverso e deleterio per i popoli che lo subiscono da esigere un'overdose simbolica. Tutte le apologie del percorso unitario europeo - politico, fiscale, monetario - si attengono rigorosamente alla suggestione del simbolo per non subire l'impatto traumatico dei fatti. L'Europa e l'euro (quasi sempre sinonimi) simbolo di pace, solidarietà, occupazione, democrazia, benessere, sviluppo, gestione virtuosa delle risorse, universalità dei diritti, accesso al credito, tutela dei consumatori, innovazione tecnologica - in una parola: di tutto ciò di cui i vincoli politici e finanziari di marca europea ci stanno privando.
La prevalenza del simbolo scioglie anche l'annoso paradosso delle sinistre moderne che - da Menem a Blair, da Clinton a Obama, da Hollande a Renzi, fino al caso clinico Tsipras - fanno il lavoro sporco delle destre: revocando i diritti dei deboli, portando la guerra tra gli ultimi, privatizzando, reprimendo e spalancando le porte alla finanza più psicopatica e feroce. Politiche, queste, che solo il packaging rassicurante dei simboli storici (e rigorosamente svuotati) del solidarismo di sinistra può sdoganare tra le masse senza innescare rivolte.
Il titolo di questa pedanteria è Dementia symboli - perché la via del simbolo conduce alla follia. La sospensione dei nessi empirici e l'ascensione al mondo delle idee eterne e incorrotte dalla storia fornisce una protezione dalla realtà - specialmente se spiacevole e specialmente se a questa spiacevolezza concorre, direttamente o indirettamente, la responsabilità del percipiente. Una protezione che appaga come solo i sogni sanno appagare. Ma mentre il discorso verte in ogni sede - dai parlamenti ai bar, dagli altari ai dopocena, dai social network ai talkshow - sui massimi ed epidermici sistemi, sotto cute infuria l'infezione - indisturbata, nobilitata, e perciò letale.
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