Wenn alle das gleiche denken, denkt keiner richtig.
— Georg Christoph Lichtenberg —
C'è un paradosso. Che quasi tutti gli eventi più estremi e sovversivi degli ultimi 150 anni di storia nazionale hanno contato sull'appoggio sicuro del cosiddetto pubblico moderato. I moderati: quelli che hanno applaudito i colpi di stato (la Marcia del '22, la cacciata del governo nel 2011), che acclamano le guerre (prima e seconda mondiali, regionali in Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia), che accettano la tortura (le camicie nere, i manganelli di Scelba, la macelleria del G7), la discriminazione (gli ebrei prima, gli islamici poi) e le tirannidi purché amiche. Quelli che giustificano le scorciatoie dell'uomo forte al comando, subordinano i diritti e la dignità dei popoli alle favole economiche, sempre pronti a sottoscrivere deroghe allo stato di diritto in nome di un'emergenza (?), che spalancano le porte all'ingerenza straniera e sognano la dissoluzione dello Stato nazionale nell'abbraccio servile con le altre nazioni: Berlino, Washington, Bruxelles o - come oggi - tutti e tre assieme.
Giudicando gli esiti, i moderati sono tutto fuorché moderati. Dunque perché li chiamano così? Innanzitutto perché a loro piace farsi chiamare così. La moderazione - o temperanza, σωφροσύνη, (aurea) mediocritas - è da millenni tra le virtù morali prescritte ai saggi. La lodava Aristotele nell'Etica Nicomachea, la raccomandava Cicerone nel libro sui doveri (De Officiis) e Tommaso d'Aquino ne fece una virtù cardinale del Cristianesimo. Sicché attribuire all'interlocutore il pregio della moderazione equivale a concedergli le insegne della saggezza e della rettitudine, con l'effetto - e quasi sempre anche l'intenzione - di blandirne l'amor proprio per guadagnarne l'assenso. In quanto al messaggio, poi, poco importa se sia davvero moderato e non viceversa foriero dei succitati cataclismi. Anzi, quanto più è estremo tanto più è d'uopo la captatio benevolentiae, via obbligata per carpire la fiducia dei semplici.
La moderazione ha un altro vantaggio per chi manovra il consenso. È un'etichetta vuota, una connotazione relativa che rimanda a un riferimento non dichiarato in modo da accomodarsi secondo la suggestione di ciascuno. In fondo, dirsi moderati senza specificare rispetto a cosa è come definire una lunghezza come il doppio della sua metà. Non dice nulla se non il bisogno di affermare il proprio equilibrio e la propria presunta superiorità e distanza rispetto a un'altra categoria ugualmente vuota ma specularmente infamante: l'estremismo.
Manipolare l'opinione di chi ama qualificarsi come moderato è quindi semplice: basta fissare d'ufficio gli estremi della dialettica con la certezza che il soi-disant moderato vi si collocherà disciplinatamente nel mezzo, in perfetta equidistanza dalle sponde. In questo modo il messaggio che si desidera accreditare non ha bisogno di essere esplicitamente asserito - come accadeva e accade nei regimi manifesti - ma è suggerito per induzione. Se volessimo far sì che il moderato pensasse al numero 8, gli diremmo di sceglierne liberamente uno tra 4 e 12. E lui cascherebbe prevedibilmente nella media:
Nella realtà, lo spin doctor accorto sa che si deve ridurre il più possibile la distanza tra gli estremi, per evitare un'eccessiva libertà di pensiero e la dispersione delle idee rispetto all'esito prestabilito. Il che spiega l'odierno Drang nach der Mitte, la centrizzazione del pensiero dove i cosiddetti estremi si qualificano sempre più come caute sfumature di un'opinione unica e centrale. Ad esempio, chi oggi chiede di tutelare la sovranità nazionale passa per nazionalista di ultradestra, mentre chi vorrebbe qualche protezione in più per i lavoratori è un comunista. Si tratta chiaramente di rappresentazioni parossistiche e strumentali al mainstream, laddove il vero estremismo è casomai quello di chi non riconosce in queste richieste un invito al rispetto della legalità costituzionale.
Il cosiddetto centro non è che lo stesso concetto di moderazione applicato ai movimenti politici. Ugualmente privo di significato in sé e ugualmente estremo negli atti, vive di ciò che i commentatori - cioè gli influencer - politici definiscono di volta in volta come massimalista. E poiché nessuno vuole portare l'onta dell'estremismo, tutti si accalcano verso il punto centrale di un recinto sempre più stretto - quello del pensiero unico - mentre il dibattito politico si riduce all'irrilevanza dei simboli e del gossip, in una bassa democrazia che discute del colore e della forma del cappio a cui andrà ad appendersi.
Tra i tanti esempi applicativi di questa tecnica di manipolazione di massa mi sovviene una prima pagina del 2003, all'alba della seconda guerra del Golfo. In un'Italia tentennante tra interventismo e astensione (essendosi in realtà già deciso altrove per la prima opzione), mi imbattevo in un doppio editoriale dal titolo "Opinioni a confronto". Qui il primo articolista sconsigliava il ricorso alle armi proponendo di limitarsi (!) a un inasprimento delle sanzioni contro l'Iraq, mentre il secondo invocava una più esemplare azione di forza punitiva. La dialettica era naturalmente falsata e unilaterale: entrambi gli articoli accettavano infatti la necessità di colpire duramente uno stato sovrano, cosicché al moderato non restava che posizionarsi nello stretto margine tra l'estremo e il più estremo, escudendo dal suo orizzonte intellettuale l'ipotesi stessa di non infliggere sofferenza e caos a milioni di persone innocenti. Che poi sarebbe il minimo per chi coltivasse davvero la virtù della moderazione.
La complessità mentale del moderato è quella di un organismo monocellulare. Prevedibile e manovrabile al millimetro, ha l'ulteriore vantaggio di prediligere la cosmesi del simbolo rispetto agli atti. Plasmato da decenni di retorica, egli si pasce di suggestioni, rappresentazioni e slogan, minimizzando così lo sforzo di chi si candida a manipolarne l'opinione. Un tailleur, un loden, un discorsetto sui diritti gay e un eloquio pacato valgono più di mille cronache per accendere in lui l'illusione di un equilibrio sobrio e meditabondo. Al contrario, uno scampolo di turpiloquio, un'intemperanza o una deviazione sia pur minima dal conformismo etico e parolaio dei più lo fanno gridare all'estremismo, purché opportunamente serviti con contorno di editoriali salottieri e distaccatamente indignati.
Una volta confezionato per via mediatica, l'estremo da cui rifuggire si trasfigura nella suggestione dell'opinione moderata in esiti apocalittici e spaventosi. Esiti di cui ovviamente non c'è traccia nella realtà e che pertanto ne travalicano i confini lambendo i territori dell'incubo e del grottesco: "Di questo passo - chiosa il benpensante - dove andremo a finire?". Nel suo microcosmo culturale gli euroscettici sono folli promotori di un'Europa fratricida e pronta a ripetere i massacri delle guerre mondiali, chi mette in discussione la moneta unica un pericoloso fomentatore di miseria e inflazione a due cifre, chi critica le politiche migratorie un nostalgico dei muri spinati di Auschwitz, chi si oppone alla privatizzazione e liberalizzazione di tutto uno stalinista nemico della libera iniziativa economica, chi fa politica dicendo le parolacce un ambasciatore di barbarie, chi declama il primato della famiglia tradizionale un bigotto à la Torquemada, chi si interroga sulle vaccinazioni un untore, chi denuncia le politiche israeliane un antisemita, chi predilige i prodotti nazionali un autarchico ecc. A conferma del fatto che il moderato è necessariamente - non eventualmente - un estremista, in quanto appunto allevato nella rappresentazione ossessiva dell'estremo.
Come tutti i pensatori elementari, il moderato avverte il bisogno di dare un volto alle sue paure. Egli cerca il cattivo per conferire senso alle vicende del mondo, siccome l'orco e la strega danno senso alle fiabe. E i fabbricatori dell'informazione lo sanno bene, e sono più che pronti a soddisfarne la fame di orrore: con i Salvini, le Le Pen, i Gasparri, gli Orban, i corrottissimi autarchi delle steppe, i satrapi dissoluti del continente nero e gli sceicchi del terrore da mille una notte. Una galleria sinistra e letteraria popolata non dai protagonisti di storie da approfondire, ma da personaggi che incarnano l'estremo in quanto oggetto da odiare, mostri mitologici messi a guardia di un recinto mentale che non va oltrepassato affinché il gregge non si disperda nei pascoli del libero pensiero.
In questa allegoria i fatti si annullano e più spesso si ribaltano, essendone l'occultamento uno dei fini. Nelle presidenziali americane in corso il cattivo è Donald Trump: perché è intemperante, aggressivo e razzista. Il che è probabilmente vero, ma vieppiù inquietante è il fatto che la sua rivale, la signora Clinton, sia invece accreditata dall'opinione pubblica come il polo moderato della sfida. Mettendo così sullo stesso piano le sparate verbali di un Berlusconi al cubo con i fatti atroci e documentati ascrivibili alla cinica ambizione della donna. La stessa che dopo avere votato l'invasione dell'Iraq con un pretesto consapevolmente falso e lasciando sul terreno un milione di morti, nel 2011 si è fatta principale sponsor politico dell'intervento in Libia, ribattezzato dai giornali Hillary's war: la guerra di Hillary. Anche qui persero la vita decine di migliaia di persone innocenti e un paese florido e politicamente stabile fu devastato e consegnato all'anarchia. E lei? Se ne vantò ridendo in prima serata: "We came, we saw, he died". Si scoprì poi che tra i fini della moderata Hillary, l'amica dei moderati italiani che ride della morte altrui, c'era anche quello di strapparci con le armi le concessioni petrolifere in Libia. Ma la signora è donna, si dice democratica e comsopolita e dispensa carezze alle portoricane del Queen. E tanto basta per sostenerla.
Il caso - e i moltissimi ascrivibili allo stesso paradigma - rivela un aspetto centrale della psicologia dei moderati, cioè l'inclinazione ad anteporre nella gerarchia dei pensieri le conseguenze immaginabili dei fatti ai fatti stessi. Ciò preoccupa perché integra una forma di alienazione o paranoia collettiva dove i diritti dell'immaginazione prevalgono sulla realtà e la potenza sull'atto. Mentre si chiedono angosciati di che cosa sarebbe capace un Trump, non si curano di ciò di cui è stata capace Hillary. O per fare un esempio a noi più vicino, mentre paventano le conseguenze di un'uscita dell'Italia dal baraccone europeo, non registrano che quelle stesse conseguenze - disoccupazione, diminuzione del potere d'acquisto, instabilità finanziaria, insicurezza dei risparmi, cessione di asset nazionali, delocalizzazioni produttive, emigrazione giovanile, aumento del debito pubblico, conflittualità tra gli Stati ecc. - si stanno verificando dentro l'Unione e a causa dell'Unione. Il moderato non è programmato per i fatti e non impara nulla dalla storia, neanche quella a lui contemporanea. A tutto vantaggio di chi lo manovra, che non potendo alterare gli eventi storici può invece comodamente scrivere e riscrivere le fantasie che lo orientano nel giudizio.
Spesso mi sono chiesto quali siano i moventi psicologici che spingono i sedicenti moderati a dichiararsi tali e a sottoporsi a un processo di manipolazione così umiliante. Oltre al già detto bisogno di affermare la propria degnità morale, la risposta credo sia da cercare nella qualità estetica dell'apparato mediatico che sostiene l'operazione. I protagonisti e le istituzioni dell'opinione moderata incarnano un rassicurante cliché altoborghese che non ha mai smesso di affascinare la nostra classe media. Un cliché senza tempo sotto i cui abiti di sartoria pare indovinarsi una cultura profonda ma non esibita, una proprietà di giudizio che si impone senza urla né insulti, una signorilità indulgente che sa sorridere delle debolezze umane. Ma soprattutto, il savoir-vivre degli uomini di mondo che con accorta eleganza scivolano da un sistema di potere all'altro senza sporcarsi il vestito e cadendo sempre in piedi, quasi appartenessero a una civiltà a sé che trascende gli accidenti storici e se ne immerge senza corrompersi.
Il moderato è quindi all'origine un conformista nel senso pieno del termine, in quanto desidera appunto conformarsi all'asettico decoro stilistico e materiale dei sempre-amici del principe, dei quali riconosce solo strumentalmente - cioè per viam imitationis - anche l'autorità intellettuale. Perché in fondo non vuole essere, non cerca un'identità propria. Vuole anzi non essere:
provinciale, razzista, fascista, immaturo, populista, omofobo,
impulsivo, semplicista, italiano-medio e insomma tutto ciò che nella
vulgata del momento lo distinguerebbe dal modello astratto a cui occorre uniformarsi per non stonare nella mandria dei "buoni".
La fortuna di questa operazione di marketing mediatico e sociale non ha mai conosciuto crisi. Dall'Unità nazionale ad oggi vi si è coltivato un serbatoio di consensi a cui i potenti di turno hanno attinto per legittimare se stessi e i loro atti, anche e soprattutto i più osceni. Un serbatoio di consensi pregiati, perché espressione delle classi mediamente più colte e facoltose, le stesse che amano informarsi e dibattere, diffondere le opinioni e dare vita a movimenti, iniziative a supporto di un'idea e finanche scrivere libri. Non stupisce allora che i partiti politici e gli organi di informazione si contendano l'etichetta di moderati e l'attenzione di quel pubblico: perché i moderati sono la spina dorsale del potere, gli utili inconsapevoli sempre pronti a reggergli il gioco. Qualsiasi gioco.
Alcuni giorni fa il Corriere della Sera, organo indiscusso della categoria qui descritta, ripubblicava in occasione del 140o anniversario dalla fondazione il celebre editoriale di Eugenio Torelli Viollier "Al pubblico" apparso sul numero 1 del giornale. Rileggerlo oggi fa quasi spavento. La parola "moderato" vi appare 12 volte e, se non fosse per la prosa datata e i diversi riferimenti storici, potrebbe essere stato scritto ieri. Qui c'è già tutto.
La captatio benevolentiae:
Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. In diciassette anni di regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle declamazioni solenni d’altri tempi. La tua educazione politica è matura. L’arguzia, l’esprit ti affascina ancora, ma l’enfasi ti lascia freddo e la violenza ti dà fastidio.
L'epica dell'austerity:
Come il cavaliere templario della ballata di Schiller, il partito moderato mosse diritto al mostro del disavanzo, con un mastino al fianco. Questo mastino si chiamava l’Imposta – bestia ringhiosa, feroce, spietata; ma senz’essa era follia sperare di vincere. L’Italia unificata, il potere temporale de’ papi abbattuto, l’esercito riorganizzato, le finanze prossime al pareggio, – ecco l’opera del partito moderato.
La fregola di congiungersi con i popoli tedeschi:
In grazia loro [del Governo] si è udito Francesco Giuseppe d’Austria dire a Vittorio Emanuele: «Bevo alla prosperità dell’Italia», e Guglielmo di Prussia: «Bevo all’unione de’ nostri popoli».
Il fastidio per la democrazia:
E però ci accade [...] di non voler il suffragio universale, se l’estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili e nervose delle città.
Ma soprattutto, la definizione più precisa e rivelatrice dell'ethos politico moderato: essi sono "conservatori prima, moderati poi", appartengono cioè
al partito [...] che ha avuto finora le preferenze degli elettori, – e per conseguenza il potere. Questo partito cadrà un giorno, perché tutto cade, tutto passa a questo mondo...
... ma non i moderati. Loro sono ancora qui, eterni anche nel nome, sempre pronti a schierarsi con il più forte, fieri di essere servi e penosamente illusi di custodire la coscienza civile di questo Paese.
Come si fa a non disprezzarli?
***
Vedi anche:
- ilsimplicissimus, In attesa dell’Occidente moderato
Lascia un commento