Che la democrazia simbolicamente intesa sia foriera di morte è un dato storico che non richiede dimostrazione: costruito il nesso tra il simbolo e i suoi archetipi - pace, prosperità, equità, progresso ecc. - ogni violenza è lecita per imporla via export nel nome degli alti valori allusi. Ugualmente insidioso, ma non così immediatamente ferale, è l'approccio tecnico al concetto. Perché qui l'inganno simbolico tende a riprodursi nella forma della falsa sineddoche, dove cioè l'ingrediente fa il tutto. La Germania orientale si definiva una demokratische Republik per il solo fatto di includere il socialismo tra i suoi principi costitutivi, mentre per noi è democratico tutto ciò che in qualsiasi forma e a qualsiasi livello preveda la celebrazione della più simbolica tra le liturgie laiche: il voto.
Non è saggio dare una definizione tecnica di democrazia, ed eventualmente misurarne lo stato di salute, senza avere prima definito la democrazia stessa. La tentazione tecnocratica di identificare la res con il suo fenomeno storico conduce infatti all'autologia: è democratico tutto ciò che è tecnicamente tale nell'ordinamento dato. Si prenda il caso della Commissione europea: i suoi 28 commissari sono nominati dal presidente della Commissione tra individui che "non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo" (Maastricht, art. 17), quindi obbligatoriamente indipendenti dall'indirizzo politico - cioè dalla volontà e dal controllo degli elettori - del paese di provenienza. Il presidente che li nomina è eletto dal Parlamento europeo su una ristretta rosa di candidati nominati dal Consiglio dell'Unione europea, i cui membri sono i capi di governo dei paesi dell'Unione. Nel nostro caso, il consigliere Matteo Renzi è stato a sua volta incaricato dall'ex presidente della Repubblica italiano, il quale è a sua volta eletto dal Parlamento, i cui membri sono nominati dai segretari dei partiti, i quali partiti (non le persone) sono eletti dai cittadini - peraltro con una legge giudicata non democratica con sentenza costituzionale, ma limitiamo i fronti.
In questa lunga catena la volontà dei cittadini italiani si affaccia timidamente in due punti: l'elezione diretta dei parlamentari europei (la cui funzione è più di convalida che di selezione) e l'elezione indiretta e incostituzionale dei parlamentari nazionali (che eleggono il presidente della Repubblica, il quale ha incaricato il capo di Governo, il quale concorre per un ventottesimo alla nomina dei candidati presidenti di Commissione, il quale nomina i commissari). Ora, qualcuno si chiede: questa è vera democrazia? I primi della classe non hanno dubbi: sì, perché il sistema prevede anche l'intervento di organi che in qualche modo esprimono la volontà elettorale. Per controbattere ai quali non basta però la sensazione (giusta) che la moltiplicazione della rappresentanza annacqui omeopaticamente il mandato elettorale fino ad annullarlo. Un'obiezione puntuale richiede che ci si astragga dal caleidoscopio della tecnica e si consideri la democrazia in termini di output rispetto agli obiettivi che essa promette.
M. Gilens e B. Page dell'Università di Princeton, nell'incipit di un paper giustamente famoso pongono tre domande che già rispondono al problema: "Chi governa? Chi detta veramente le regole? In che misura la massa dei cittadini [...] è sovrana, semisovrana o perlopiù impotente?". In altri termini - e mi scuso per la pedanteria - non è democratica una comunità che si dota di istituzioni democratiche (?) ma quella che esprime la volontà e gli interessi del maggior numero dei suoi membri. Votanti o meno - essendo il voto un passaggio tecnico anche manipolabile, ostacolabile ecc. che non sostanzia l'obiettivo. Applicando questa formulazione gli autori concludono che gli Stati Uniti d'America non sono una democrazia bensì un'oligarchia dei ricchi ("Economic-Elite Domination"), fissando altresì un punto importante nella sua ovvietà: che cioè i requisiti tecnici di una democrazia possono tranquillamente coesistere con l'assenza di democrazia. Anzi, aggiungiamo noi: essi assolvono anche (e forse soprattutto) al compito di nascondere questa assenza agli occhi dei cittadini, dissimulandola dietro lo schermo dei simboli e dei significanti.
Le derive antidemocratiche della democrazia rappresentativa sono note. Tra i rimedi proposti la formula della democrazia partecipativa vanta una certa tradizione e prescrive che i cittadini affianchino gli organi eletti per condividere, indirizzare e valutare gli atti di governo anche in corso di mandato. Similmente, la democrazia diretta mette a disposizione dei cittadini strumenti consultivi e decisionali per intervenire direttamente in determinati ambiti di governo. Ciò che qui interessa, più che la storia e le applicazioni di questi nobili principi, è la loro degenerazione recente nelle forme della cosiddetta democrazia dal basso dove la complementarietà delle forme partecipative al potere si è fatta alterità allo stesso per segregare e sterilizzare la partecipazione politica delle masse.
Banalmente, una maggiore inclusività dei processi decisionali non rileva in sé come democrazia partecipativa. Anche qui vale infatti il criterio dell'output: se le discussioni, le analisi e le deliberazioni dei cittadini non si traducono in atti di governo, il fumo serve solo a nascondere la pochezza dell'arrosto. In Italia ne abbiamo esperienza con referendum e leggi di iniziativa popolare, ma vale così in tutto il mondo (vedi ad es. l'Austria su questo blog): se mancano meccanismi che prevedano l'obbligatorietà di assumere a legge gli esiti della democrazia diretta e sanzionino chi non otttempera, e se questi ultimi servono semplicemente a impegnare - magari moralmente (?) - i parlamentari al dibattito, allora promuovere un ampliamento ulteriore di questo coinvolgimento non è solo futile ma fa sorgere fondati dubbi sulla buona fede dei promotori.
Dirottare l'impegno politico dei cittadini in forme ininfluenti di dibattito extraistituzionale per tenerli fuori dai piedi è una tecnica credo piuttosto comune. Ma lo stato dell'arte lo ha raggiunto solo in anni recenti il Movimento 5 Stelle, che della democrazia diretta ha fatto una bandiera per scardinare - dice - la casta autoreferenziale dei partiti tradizionali. Che si tratti anche dell'unico partito che non preveda meccanismi di selezione democratica dei propri leader è una contraddizione che non deve stupire. Nel M5S c'è un tripudio di democrazia nelle parti basse della gerarchia, con migliaia di meet-up impegnati a dibattere sullo scibile pliniano - dalla bioetica all'etichettatura dei cibi, dalle piste ciclabili al ripopolamento del peccio - mentre salendo l'afflato democratico si va assottigliando come l'aria in montagna, fino a spegnersi ai vertici. Più che una democrazia dal basso è una bassa democrazia, la cui vicenda va studiata perché paradigmatica non tanto di quel singolo partito (che si limita a darne una rappresentazione più nitida degli altri) ma di un'involuzione storica in cui, se le decisioni importanti devono avvenire al riparo dal processo democratico (cit. Mario Monti), il processo democratico deve riguardare solo le decisioni di poca importanza.
Le indiscrezioni riportate da Andrea Malaguti su La Stampa del 5 maggio 2013 - che cioè Gianroberto Casaleggio avrebbe vietato ai suoi parlamentari di occuparsi di macroeconomia - troverebbero conferma nella mortificante vicenda del programma per le europee 2014 dove, stando alle residue testimonianze degli attivisti (ad es. qui e qui), la seconda proposta più votata dalla base chiedeva l'uscita immediata dall'eurozona e il ritorno alla sovranità monetaria. Nella versione finale questa volontà era stata tradotta (da chi?) in un referendum consultivo sulla permanenza nell'euro con la risposta inclusa: gli eurobond. O per dirla con la leggiadria del portavoce Francesco d'Uva, era stata sottoposta (da chi?) a un processo telepatico e paternalistico di "libera estrapolazione del pensiero degli attivisti" in quanto evidentemente toccava ambiti di governo cruciali ritenuti (da chi?) non assoggetabili alla deliberazione democratica. La vicenda, oltre a mettere una pietra tombale sulla democrazia diretta di Giuseppe Grillo, pone una domanda importante: se i cittadini e i parlamentari di uno Stato non devono occuparsi di politica macroeconomica, chi diamine se ne deve occupare? Non lo sappiamo, non dobbiamo saperlo, non ci deve riguardare.
Si chiude così il cerchio o simbiosi tra tecnocrazia e democrazia dal basso. Dove il tecnocrate, per operare a mani libere, deve sublimare e rinchiudere le pulsioni politiche della massa in una democrazia-giocattolo i cui esiti sono solo simbolici e virtuali: una sandbox dove cittadini e politici infantilizzati giocano al piccolo parlamentare costruendo castelli di sabbia che non saranno mai realizzati mentre gli adulti operano indisturbati per il bene di tutti - cioè il loro. O nei casi migliori, una democrazia cosmetica dove si decide il come ma non il cosa, con gli organi democratici declassati al rango di funzionari ed esecutori di decisioni prese altrove con il ristrettissimo mandato di focalizzare i dettagli - se ad esempio tagliare le ambulanze o i farmaci, le mense o gli insegnanti, ma non certo di decidere se tagliare.
Non è un caso che la democrazia dal basso - di qualsiasi filiazione politica o apolitica - ami i microcosmi locali della quotidianità: i piccoli comuni, le petizioni di quartiere, i comitati dei genitori, i mercatini di vicinato e le riunioni di circoscrizione, i gruppi d'acquisto condominiali, le buone pratiche da boy scout dove l'ultimo spegne la luce e la bicicletta fa tanto bene anche all'ambiente. Nella bassa democrazia si celebrano l'irrilevante e le periferie alla ricerca di un appagamento tutto etico e pedagogico: il ciascuno-faccia-la-sua-parte, le rivoluzioni-che-partono-dai-piccoli-gesti-quotidiani, il mare-è-fatto-di-gocce, l'umiltà operosa della regola francescana e l'orgoglio dei puri che non partecipano ai grandi giochi di potere dove - corollario del credo ipodemocratico - la buona politica non ha cittadinanza perché soffocata da sprechi, corruzione, malaffare e privilegi di casta.
L'idea di una rifondazione civica che riparte dal basso sposa il mito palingenetico della radicalità: se la società e la politica sono irreversibilmente corrotte e se la rappresentanza è compromessa, allora la salvezza non può che venire dall'anonima buona volontà degli umili chiamati a ricostruire dalle fondamenta una civiltà desertificata dalla scelleratezza dei vertici. Si capisce perciò la seduzione psicologica e religiosa del pauperismo democratico: non solo offre agli ultimi l'occasione di esaltare la propria virtù morale ("O-ne-stà!") ma anche la sensazione di farsi protagonisti e pionieri di un agire politico rivoluzionario.
Si intenda, il Pedante non disprezza le virtù civiche e comunitarie. Vi riconosce anzi un patrimonio di buon vivere che nessuna legge e nessun ordinamento può imporre. Dubita invece che esse possano farsi protocollo di governo di una nazione sviluppata - come del resto non è mai accaduto. Il potere non lo si cambia lasciandolo nelle mani degli altri né le rivoluzioni, anche le più gentili, si fanno rispettando il galateo dei propri nemici. Chi asseconda o promuove queste illusioni persegue un tentativo - ad oggi perfettamente riuscito - di polarizzare la gestione del potere sull'esempio di una società sempre più diseguale. Al vertice, la sedicente democrazia dei veri decisori la cui sostanza è negata - come nel caso della Commissione - da una rappresentanza convoluta, filtrata e inintellegibile come un gioco di specchi, nella cui contraddittoria complessità si aprono varchi per ignorare o sovvertire la volontà popolare permanendo formalmente nella legalità. Una rappresentanza non solo fattivamente, ma anche orgogliosamente antidemocratica, che fa delle scelte "dolorose" e "impopolari" - cioè non democratiche - il proprio marchio di qualità. Più in basso, alla base, c'è la democrazia schietta, trasparente e diretta delle masse - che non decide nulla.
La fame di democrazia è così forte da oscurarne l'assenza. È forse questa la cifra più rivoluzionaria delle oligarchie o tirannidi occidentali contemporanee. Che a differenza dei meno evoluti totalitarismi del passato non soffocano il libero confronto delle opionioni ma anzi lo incoraggiano e lo agevolano mitizzandolo fino alla bulimia: dall'ossessione dei sondaggi all'inutile rito delle primarie, dai referendum consultivi alle assemblee locali non deliberative. Per giungere infine allo strumento cardinale di questa farsa: la glorificazione della rete internet - anzi della Rete - la cui immaterialità è metafora perfetta dell'inconsistenza del suo potere. Mentre il popolino mima i cerimoniali e i simboli della democrazia su forum, blog, social network e lungo i binari sicuri - cioè morti - di appositi portali calati dall'alto e sotto gli occhi e il controllo di chi sta in alto, i decisori extraistituzionali vietano la connessione internet nei loro consessi. Il potere vero viaggia sui pizzini. Gli altri, tra cui anche chi scrive, sono autorizzati e anzi incoraggiati a pubblicare, dibattere, all'occorrenza dissentire.
Perché (e fintanto che) non serve a niente.
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