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Tutti a scuola!


Beware of mucho texto.

L'istruzione universale e obbligatoria è un concetto recente. Non se ne ha traccia nella storia antica, nel medioevo e neanche in età moderna, con una sola eccezione: l'appello An die Radherrn aller stedte deutsches lands: das sie Christliche schulen auffrichtenn vnd halten sollen (1524), in cui Martin Lutero auspicava per la prima volta l'istituzione di una scuola pubblica obbligatoria rivolta a tutti. Il riformatore tedesco desiderava così da un lato scalfire il monopolio cattolico dell'istruzione delegandola alle autorità civili delle Städte, dall'altro consentire a ciascun fedele di attingere senza mediazioni al testo biblico secondo il principio della «sola scriptura» che nella dottrina luterana delle origini doveva «solam... regnare, nec eam meo spiritu aut ullorum hominum interpretari, sed per seipsam et suo spiritu intelligi» (Assertio omnium articulorum M. Lutheri per bullam Leonis X, 1520). Il concetto odierno di istruzione pubblica nasce su queste basi teologiche nella Prussia protestante, ma si sarebbe concretamente affermato ben più tardi, verso la metà dell'Ottocento, mentre ancora un secolo fa soltanto un quarto della popolazione mondiale sapeva leggere e scrivere. Se l'idea è giovane, la sua applicazione è dunque giovanissima. Tra tutte le idee moderne, è forse la più moderna.

Vista con gli occhi di oggi, questa verità disorienta. Da decenni i tassi di alfabetizzazione e di lauree figurano tra gli indici di sviluppo per eccellenza e sembrano così ovvi che nessuno se ne chiede più il perché, o perché le più prospere e raffinate civiltà del passato non li considerassero tali. Alcuni direbbero che un tempo non si capiva l'importanza di queste conquiste, ma altri troverebbero forse implausibile che proprio nessuno tra i filosofi più eccelsi, i filantropi più illuminati o i santi più misericordiosi ne avesse almeno intuito l'importanza. E che sia perciò difficile definire «conquista» ciò che fino a qualche decennio fa nessuno voleva proprio conquistare. Il caso è davvero unico. Mentre valori come la pace, l'abbondanza, la sicurezza, la salute e le arti sono da sempre riconosciuti e desiderati, la massima diffusione dell'istruzione scolastica è invece un obiettivo tutto contemporaneo, inedito eppure già universalmente percepito come «eterno». La sua forza dogmatica trascina tutti, persino i più conservatori, che pur criticando la scuola di oggi perché ostaggio delle ideologie del momento, professionalizzata, assediata da burocrazia e informatica, dimentica delle radici classiche e cristiane ecc. non dubitano invece della necessità che tutti ci debbano andare. Bisogna tornare indietro, sì, ma non troppo!

Il tema offre insomma un punto di osservazione prezioso sull'eccezione della modernità e invita a sondarne le credenze inespresse. Dal punto di vista popolare l'istruzione è associata alla sicurezza economica, al potere e al prestigio sociale. Questo nesso era percepito anche in passato, sennonché la causalità che sottende è inversa rispetto a ciò che di norma si intende: i ricchi erano istruiti in quanto ricchi, non ricchi in quanto istruiti. Sperare di ascendere alle classi superiori in virtù dell'istruzione sarebbe stato come credere di farsi monaco indossando l'abito proverbiale, o re appoggiando le natiche sui cuscini di un trono. I tanti dotti che hanno dato lustro alla storia erano miseri o abbienti, disprezzati o riveriti, servi o padroni indipendentemente dalla loro dottrina: il successo mondano dipendeva dalla famiglia, dal coraggio, dalla scaltrezza o dal crimine, mentre gli eventuali studi compiuti erano casomai una conseguenza degli agi, non la causa.

La prospettiva contemporanea distorce questa verità storica assumendo a norma gli anni eccezionali dell'alfabetizzazione universale durante i quali, però, il miglioramento delle condizioni materiali ha interessato tutti indipendentemente dal grado di istruzione e il - relativamente minimo - vantaggio sociale degli istruiti è stato imposto ex lege con l'introduzione e l'estensione del valore legale dei titoli. Lauree e specializzazioni sono così diventate trofei da remunerare affinché si autoavverasse la profezia dello studio che «conviene». Da un'indagine di recente pubblicazione emerge effettivamente una correlazione tra laureati e percettori di redditi medio-alti nei comuni italiani, ma più che la significatività tutto sommato modesta di questo nesso (R2 = 28,5%) colpisce il fatto che, con pochissime eccezioni, i comuni che si collocano sopra la linea di tendenza dei redditi appartengono alle regioni settentrionali mentre quelli del centro-sud ricadono puntualmente al di sotto di essa, a prescindere dal tasso di lauree. Ciò suggerisce che la ricchezza pregressa e contestuale conta più del grado di istruzione. L'esperienza conferma che anche nell'irripetibile periodo post-bellico i più benestanti erano istruiti perché provenivano da famiglie già benestanti o si posizionavano in contesti già floridi.

Il secondo problema è che anche la moneta dell'istruzione, come tutte le monete, è tanto più preziosa quanto più è scarsa. Se non all'opulenza e all'aristocrazia, gli scolarizzati del passato potevano almeno aspirare ai mestieri più comodi del segretario, dell'aio, del cerusico, dell'ingegnere o del notaio, ma ciò avveniva appunto in virtù del fatto che pochi potevano ricoprire quelle posizioni. È dunque evidente che un tale vantaggio decade se la scuola è imposta a tutti. Negli ultimi decenni, è vero, le società industrializzate hanno creato un'offerta senza precedenti di posizioni tecnico-scientifiche e amministrative, ma le ferree leggi dell'inflazione hanno presto ripreso il loro dominio. Invece di attenuarsi nell'abbondanza, il vantaggio scolare ha finito per spostare i suoi requisiti sempre più in alto allungando insensatamente gli studi con l'obiettivo taciuto di mantenere competitiva l'arena. Per restare negli ambiti a me noti, oggi per insegnare la musica non è più sufficiente conoscerla e praticarla con perizia ma bisogna anche sostenere esami di psicologia, informatica, recitazione, filologia, diritto, fisiologia (sic) ecc. Mia moglie si è laureata per prendere il posto di suo padre, che svolgeva le stesse mansioni con la sola licenza media... guadagnando il doppio di lei. Dove ieri non erano richiesti studi, oggi bisogna avere il diploma; dove bastava il diploma ci vuole la laurea; dove la laurea, la specializzazione; dove la specializzazione, il master, il dottorato, la «formazione continua» ecc. alimentando una tenia che ostacola e reprime le forze più fresche della società.

Mentre milioni di persone trascorrono (se va bene) un terzo delle loro esistenze abbuffandosi di nozioni irrilevanti, inutili e destinate a un oblio quasi istantaneo, eserciti di laureati reclamano senza successo posizioni e gratifiche all'altezza delle loro fatiche, vittime di una sciagurata retorica che rappresenta lo studio come un merito, un diritto e un dovere, mai invece come uno strumento tra i tanti, qual è. Una credenza antica (lo si è visto, poco fondata) è così degenerata in ideologia: chi più studia n'importe quoi è più «bravo» e la società gli deve un premio. Da qui discende una cascata di effetti negativi. Il grado di istruzione si è imposto tra gli obiettivi più iconici delle lotte per l'emancipazione di classe, sennonché nel ripetere la solita inversione causale si è certificato il primato sociale degli istruiti invece di reclamare parì dignità a tutte le funzioni sociali, come sarebbe stato più intelligente e più giusto fare. Nell'implicare che chi ha un'istruzione è migliore, si è certificato che chi ne è privo è peggiore. La storia degli ultimi decenni ha fatto almeno economicamente giustizia di questo equivoco tracciando una parabola in cui ieri i protagonisti delle classi meno scolarizzate si sono giovati dell'accresciuta sicurezza economica (quindi non dell'istruzione) per far sì che i propri figli accedessero agli studi superiori, mentre oggi quei figli, ottenuti i titoli, si trovano a godere di condizioni materiali mediamente peggiori di quelle dei loro genitori. Conquistato il symbol, hanno perso lo status. Arraffato il fumo, gli è sfuggito l'arrosto.

L'istruzione scolastica a tutti i costi e per tutti ha appiattito i criteri di valore, le prospettive, le vocazioni. Oggidì è quasi automatico subordinare la qualità umana e sociale di un individuo ai suoi successi scolastici, anche in termini predittivi: chi non studia, si pensa, «farà una brutta fine». Mai prima d'ora si era imposto un canone così angusto e monomaniaco, un one size fits all di matrice così tanto zootecnica e così poco umanistica. Ciò comporta innanzitutto uno stigma precoce a carico di chi, per ragioni personali o ambientali, è poco vocato agli studi, avverando così la profezia della sua «brutta fine» o quantomeno condannandolo ad anni di frustrazioni e fallimenti che avrebbe potuto meglio impiegare in attività e apprendistati più consoni alle sue inclinazioni. Se è da apprezzare lo sforzo dei pedagoghi di «valorizzare» i talenti di ognuno, non si può fingere che questo sforzo cozzi contro il dogma della scuola dell'obbligo come luogo formativo par excellence dove ultimamente lo stigma si è addirittura medicalizzato: ora la scarsa attitudine all'apprendimento integra una gamma di «disturbi specifici» (DSA), sicché chi non si conforma ai programmi è «disturbato» oltreché inadeguato, con le immaginabili conseguenze sulla percezione di sé e del proprio futuro.

Dall'altro lato, e per gli stessi motivi, la scuola si è imposta come unica concepibile prospettiva di sviluppo dei giovani. È altrettanto comune ritenere che un adolescente minimamente dotato di intelletto e di volontà debba procedere a ogni costo negli studi, ché altrimenti sarebbe «sprecato». Questa visione appare logica ma è tragicamente disfunzionale, perché implica di converso che tutte le professioni e i ruoli che non richiedono una scolarizzazione canonica – ma ciò nondimeno perizia, esperienza, passione, vocazione, serietà, puntualità, dedizione ecc. – siano destini di ripiego da lasciare a chi non possiede i requisiti minimi per ripetere quattro nozioni: «se proprio non vuoi studiare, impara almeno un mestiere!». Ciò implica fatalmente un abbassamento del numero e della qualità degli addetti ai settori manuali e artigianali, con la nota conseguenza di faticare vieppiù a reperire professionisti capaci e di vedere mestieri indispensabili scomparire o finire nel monopolio di improvvisati e disonesti.

Simmetricamente, si gonfiano invece le fila degli «studiati» per inerzia, per il solo fatto cioè di possedere una qualche dote mnemonica e metodica ma senza una vocazione reale. Costoro, oltre a sottrarre forze e intelligenze ai mestieri stupidamente detti «umili», trovano di rado una collocazione professionale coerente con i loro studi e finiscono per ingrassare il già bulimico terzo settore e i connessi «bullshit jobs» descritti da David Graeber. Non si può ignorare il nesso potente tra la matta e disperata corsa agli studi superiori purchessia e la crescita metastatica degli impieghi improduttivi «di concetto» che assorbono i frutti di quella corsa per darle un senso e arginare la disoccupazione. Ecco proliferare gli apparati burocratici, le procedure, le consulenze, gli organi di supervisione e supporto, i promotori, i facilitatori, i controllori, i pianificatori, i formatori, i relatori, i certificatori, i sanzionatori, i digitalizzatori, le facoltà universitarie e le funzioni aziendali dai nomi inglesi che non esistevano fino all'anno prima. Questa massa plumbea di «competenze», che non avrebbe il benché minimo mercato se non fosse imposta per legge, pesa come un cadavere sul residuo mondo produttivo e lo soffoca con oneri procedurali, consulenziali e formativi al solo scopo di mantenere in vita se stessa. Se è dunque vero che oggi bisogna studiare di più perché «è tutto più complesso», quell'inutile complessità è anche figlia e funzione dell'inutile proliferare degli studi.

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Altre sono le apologie di ordine prettamente ideale. Secondo una tesi classica, una popolazione largamente istruita sarebbe più consapevole dei determinanti tecnici e culturali che influenzano la propria esistenza e riuscirebbe così a operare scelte migliori per sé e per la collettività. La complementarietà di democrazia e istruzione è iscritta nelle civiltà costituzionali: affinché il popolo eserciti una sovranità effettiva occorre che possegga gli strumenti necessari per acquisire e interpretare le informazioni che riguardano il governo dello Stato. Ciò varrebbe anche quando la sovranità gli è negata, perché le nozioni e il metodo appresi negli anni scolastici lo proteggerebbero dalle mistificazioni del potere. L'istruzione dovrebbe dunque essere imposta a tutti per il bene di tutti, indipendentemente dai suoi vantaggi materiali diretti.

Per quanto splendidi a parole, anche questi argomenti scricchiolano nei fatti. Si potrebbe obiettare che 1) a differenza di quella elitaria del passato, l'odierna istruzione superiore di massa fornisce prevalentemente contenuti tecnici mentre quella di base, inclusi i licei, offre una propedeutica blanda e dispersiva. La scuola moderna non produce dotti né tantomeno saggi, né potrebbe mai farlo dovendosi serialmente rivolgere a moltitudini eterogenee, sicché gli istruiti dei tempi nostri imparano poco di tutto nelle scuole preparatorie e tutto di poco nelle università. I più istruiti sono tecnici di alto livello, conoscono il come ma non il cosa, ed è perciò del tutto fuorviante il paragone con la vastità, la profondità e la completezza degli antichi cursus studiorum e la consapevolezza di sé e del mondo che vi si acquisiva. In quanto alla democrazia, 2) la diffusione dell'istruzione a tutti i livelli è stata perseguita con successo anche da Paesi non democratici come la Cina, le monarchie del Golfo, l'Unione Sovietica e le nazioni a est della cortina di ferro, senza che ciò ne abbia intaccato i regimi, mentre 3) nel mondo «libero» proprio la stagione dell'alfabetizzazione universale e della democratizzazione dell'accademia ha visto vette di propaganda, di menzogna pubblica e di impoverimento dialettico mai sperimentate prima.

Gli imparati dell'Occidente hanno creduto senza batter ciglio alle provette irachene, alle fosse di Tripoli, alle ciarle scientistiche, ai predicozzi dei ragionieri e insomma a ogni favola scodellatagli dai giornali. Né si può proprio dire che la maggiore istruzione abbia vivacizzato lo scambio culturale e moltiplicato gli apporti al sapere. «Negazionista» e «revisionista» sono solo alcuni degli epiteti con cui si tappa la bocca di chi osa applicare l’osannato «metodo critico» alle nozioni gradite ai potenti. Mai tanto quanto nell'epoca in cui tutti vanno a scuola si elargiscono accuse di ignoranza e di analfabetismo «funzionale» (non potendo più invocare quello stricto sensu) e l'ingiunzione di credere fideisticamente agli esperti, cioè a chi ha studiato di più. Sennonché anche il primato culturale di questi ultimi è funzione dei giochi di forza e vale solo se è asservito all'opinione «giusta». Chi la pensa diversamente, fosse anche un premio Nobel, precipita nello stesso girone degli incompetenti e riceve sberleffi, richiami, radiazioni, sanzioni. Questa è la condizione della civiltà più scolarizzata di sempre, questi i suoi frutti di libertà, pluralità, indipendenza di giudizio.

Più in generale, 4) se davvero gli apparati di potere considerassero l'istruzione delle masse una pericolosa incubatrice di consapevolezza e di critica che limita il loro arbitrio, perché vorrebbero promuoverla fino a renderla obbligatoria? Non sarebbe più logico che la vietassero, o almeno che non la incoraggiassero? E se davvero la scuola desse agli umili gli strumenti per insidiare i privilegi di ricchi e potenti, perché questi ultimi non la boicottano? Summa quaestio, si capisce, che il lettore non mancherà di applicare anche al giornalismo, alla libertà di parola, al mercato, al processo elettorale... 

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Da queste ultime contraddizioni occorre muovere i passi per dipanare il mistero moderno della scuola universale. La spiegazione più semplice è di tipo economico. Le rivoluzioni industriali hanno reso necessaria la formazione di un numero crescente di addetti alla «megamacchina» del processo produttivo: tecnici della chimica, della meccanica, dell'elettronica, dell'edilizia, del diritto, dell'amministrazione, dell'economia, del commercio, della medicina, della psicologia, delle lingue straniere ecc. Il mastodontico sforzo didattico avviato in quegli anni non è dunque indirizzato a produrre l'elevazione intellettuale e civile che i più filantropi ascrivono alla scuola, per quanto il permanere di (sempre più labili) residui umanistici ereditati dal passato abbiano talora alimentato questa ambizione. Ma la spiegazione non basta. L'asservimento della scuola per tutti allo sviluppo produttivo non è infatti che un capitolo, né il primo né l'ultimo, di un asservimento più vasto. Si è anzi visto che l'attuale ipertrofia scolastica non è granché funzionale al bene economico della nazione e integra un aspetto della burocratizzazione, della cattiva occupazione, del declino industriale e della crescente dipendenza dalle produzioni e dalla manodopera importate dall'estero. Eppure si insiste a predicare «più scuola». Perché? Evidentemente agisce un movente ideologico.

Come molte agiografie moderne, anche quella scolastica glorifica l'oggetto senza curarsi dei suoi attributi. Esiste solo «la scuola» e non le scuole, e se casomai queste ultime non corrispondono all'idea platonica di un luogo in cui le masse si elevano e si emancipano, allora non si tratta di «vera scuola». L'onestà vorrebbe invece che si considerassero i fenomeni e non i pensieri sognati, per quanto nobili. Siccome l'insegnamento esiste da millenni in forme sempre diverse, anche la scuola moderna non è la stessa di cento o di vent'anni fa e la si può dunque solo identificare col suo metodo, cioè appunto col fatto di essere obbligatoria per tutti fino a una certa età e desiderabile per tutti a seguire. Nella sua essenza è dunque un'infrastruttura, un vaccinatore di idee. L'attuale modello scolastico si è istituzionalizzato con le ferrovie e si è consolidato con le autostrade, l'elettrificazione e gli acquedotti: è un'opera di cablaggio ideale che al pari della stampa e della televisione fa da controcanto all'innervazione materiale dello Stato centralistico contemporaneo.

È perciò ozioso discettare di contenuti e programmi, i quali non possono che riflettere di tempo in tempo l'agenda e i bisogni del padrone dell'infrastruttura, sia esso lo Stato o chi comanda per suo tramite. Pretendere che l'infusore scolastico accolga temi o visioni invise a chi lo governa sarebbe come chiedere a un imprenditore di produrre per la concorrenza! All'inizio e specialmente nei Paesi giovani come il nostro, le scuole servivano a diffondere la conoscenza della lingua nazionale. Un ruolo che si può dire ancora attuale se si allarga l'accezione della grammatica anche ai giudizi, ai miti buoni e cattivi, a eventi e personaggi storici «imprescindibili», alle competenze «di base», ai comportamenti «virtuosi», alle battaglie «giuste». Nelle aule si imprime fin dall'infanzia una lingua comune di riferimenti che tutti devono padroneggiare. Sono insieme il depositum della tradizione civile e la terra fertile in cui gettare i semi delle idee nuove destinate a farsi identità e coscienza: anche e soprattutto le più estreme, quelle che più difficilmente metterebbero radici nella popolazione adulta. Lì si struttura il campo cognitivo del citoyen che prende a cuore certi temi e ne tralascia altri, sottintende ciò che non si deve discutere, adotta determinati criteri di verità e non altri, si attiva pavlovianamente all'udire certi nomi, certe vicende storiche, certe astrazioni auto-esplicative, nel bene o nel male. Lì si traccia il disegno neurale e si innestano i radicali a cui si legherà il discorso pubblico, che altrimenti scivolerebbe in superficie perché poco comprensibile e alieno. Per leggere un articolo di giornale bisogna certo conoscere l'alfabeto, ma per esserne influenzati occorre che si abbia già in sé un bagaglio di τόποι condiviso con l'autore. Solo così si possono conquistare i lettori con poche righe o anche con un solo slogan, a volte con una sola parola! Si resta perciò esterrefatti all'udire che la scuola offrirebbe un antidoto alla manipolazione, essendone al contrario il fondamento, la propedeutica, il requisito.

Un collaterale di questa operazione è la mediocrità. Giacché l'omologazione degli intelletti non è né un rischio né un difetto, ma il primum movens dell'universalismo scolastico, i contenuti e i ritmi dell'insegnamento debbono assestarsi su un livello accessibile a tutti: cioè minimo. Il proposito astrattamente nobile di non lasciare indietro alcuno si traduce nel bisogno di tirare indietro qualcuno, cioè i pochi davvero vocati allo studio. Un prezzo accettabile se la priorità è appunto quella di comprimere tutti nello stesso stampo di cittadinanza (si è anche arrivati a vedervi una qualche forma di solidarietà e di addestramento sociale), drammatico se si vuole coltivare il massimo di ciascuno per il bene di tutti. Per quanto ci si sforzi al contrario, dove vige una siffatta istruzione non può esserci educazione: non si possono ex ducere le predisposizioni irripetibili e insieme imporre ripetitivamente un ordine (instruere) predisposto nel cosa e nel come. Si chiarisce forse così una correlazione paradossale dell'ultimo secolo, durante il quale al crescere degli istruiti e del grado di istruzione si è accompagnato un deterioramento continuo delle produzioni culturali. È difficile non distinguere il marchio del nozionificio erga omnes nell'impoverimento delle arti, nella musealizzazione della ricerca filosofica, nello stato penoso degli «intellettuali» prevedibili e disciplinati che rimasticano da decenni le stesse cantilene.

Quanto scritto vale per la scuola dell'obbligo e per i successivi corsi superiori, sennonché nei secondi lo stereotipo didattico deve adattarsi ai percorsi vocazionali senza soffocarli del tutto e mantenere un equilibrio non sempre facile tra efficacia professionale e requisiti di adesione ideale (vedi i dibattiti recenti sul ruolo del personale sanitario). La dilagante istruzione accademica ha specialmente alimentato il fenomeno inedito della semicultura, ancora poco e male analizzato ma di massima centralità per il buon funzionamento della macchina propagandistica. Il semicolto è un individuo che frequenta o ha frequentato un corso di studi universitari (uno qualsiasi) e in ragione di ciò si presume titolare di una capacità superiore di comprendere la realtà (tutta) e di distinguervi il vero dal falso. Questa curiosa credenza è con tutta probabilità figlia di un'appropriazione semantica, si indovina in essa l'eco del prestigio intellettuale di cui godevano gli eruditi delle accademie antiche, sennonché in queste ultime si esercitavano effettivamente le arti retoriche, filosofiche, teologiche ecc. utili per bene interpretare fatti e proposizioni, mentre gli atenei moderni sono scuole di specializzazione in cui si impartiscono le basi di una professione. Dove un tempo si speculava sulle conoscenze, oggi le si acquisisce e le si applica in un'ottica professionalizzante che non risparmia neanche i curricula umanistici.

In questo equivoco tollerato e invero incoraggiato dalla società il semicolto sguazza e troneggia tra gli indottrinati. Egli è, tra tutti, la preda più facile da condizionare. In generale perché la sua presunzione di sapere lo mette al riparo dal dubbio collocandolo socraticamente ai vertici dell’ignoranza e della creduloneria; in senso tecnico perché, avendo egli confuso il linguaggio della conoscenza con la conoscenza stessa, gli si può vendere qualsiasi «verità» agghindandola coi ninnoli dell’accademia: numeri, calcoli, tavole, istogrammi, reminiscenze da manuale, cognomi venerabili, acronimi anglotecnici, riviste reputate ecc. Siffatte presentazioni strizzano l’occhio al semicolto e lo chiamano in causa offrendogli la gloria di tradurre il messaggio agli illetterati. Che stia casomai traducendo un falso è un problema che non può sfiorarlo, giacché l’unica prova ontologica che gli sta a cuore è quella del proprio creduto primato culturale: certificato dall’istituzione con un pezzo di carta e una corona d’alloro, destinato a riconfermarsi nella rincorsa del verbo istituzionale, non avendo altre basi. Il semicolto non si limita dunque a credere, ma è un diffusore attivo della propaganda che rilancia con una motivazione e uno zelo ignoti ai meno istruiti.

***

È difficile immaginare oggi un mondo senza la scuola per tutti. Per quanto di recentissima introduzione, essa ha già plasmato in profondità l’immaginario, l’identità e i rapporti produttivi e sociali. L’istruzione seriale riflette e prepara la serialità dell’industria, dei regolamenti, dei valori e dei gusti in scala nazionale e globale. Se è dunque poco serio esercitarsi in scenari (contro)riformistici, si possono però almeno nominare i problemi di questo esperimento sociale e tentarne un bilancio. Non per contestarne gli scopi desiderati, ma i risultati. È indubbio che l’eccezione umana della civiltà poggi sulle conoscenze acquisite e che queste debbano trasmettersi per potersi conservare e sviluppare oltre l’orizzonte mortale. Ed è perciò vitale che il processo di trasmissione dei saperi sia efficace, diffuso e mirato a realizzare le vocazioni di ciascuno nell’interesse proprio e della collettività. La questione è se l’attuale sistema scolastico soddisfi al massimo questi requisiti o se non sia piuttosto un compromesso viziato da meno confessabili istanze. In un dibattito possibile ci chiederemmo:

1) in quanto al modo, se davvero gettare indiscriminatamente tutti per almeno un decennio nello stesso carro bestiame formativo sia il modo migliore di sviluppare le forze e le vocazioni di cui la società ha bisogno. Fino a meno di due secoli fa l’istruzione collettiva era un’eccezione, non la norma. La si praticava ad esempio nei monasteri a beneficio dei fanciulli avviati alla carriera religiosa o di quelli intellettualmente dotati ma privi di mezzi, negli studia e nelle università. La relazione formativa di eccellenza era piuttosto quella tra maestro (didàskalos) e discepolo (mathetés) che permetteva da un lato di adattare i ritmi e la direzione dell’insegnamento all’allievo, dall’altro di trasmettere anche la personalità del docente, esempio di un ethos del sapere che è parte viva del retaggio culturale. Quasi tutti i grandi nomi che occupano i programmi scolastici, da Dante a Leopardi, da Aristotele a Pascal, si formarono in questo modo senza mai mettere piede nei corrispettivi delle nostre scuole. Le professioni non strettamente intellettuali si insegnavano invece sul campo con gli apprendistati: espedienti di sfruttamento lavorativo per l’ottusa visione monoscolastica attuale, percorsi formativi anche culturalmente ricchi (e pagati) per i nostri antenati. Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci e il Borromini, per citarne tre tra i moltissimi, coltivarono il loro genio partendo dalle botteghe senza mai fare un solo giorno di scuola (il terzo a nove anni era già in cantiere), mentre a noi non basterebbero mille anni sui banchi per eguagliare un’unghia di ciò che hanno realizzato. Il Filarete diventò ingegnere fondendo il bronzo nel laboratorio del Ghiberti; il Brunelleschi lavorando alle dipendenze di un orafo; Antonio Vivaldi, Domenico Scarlatti, Armand-Louis Couperin e molti altri composero musica divina studiando coi rispettivi padri; gli Amati, Antonio Stradivari e Guarnieri del Gesù impararono in falegnameria ciò che i migliori scienziati di oggi faticano a decifrare. Questi e altri esempi, dai più clamorosi ai più ordinari, testimoniano l’esistenza di sistemi non scolastici di trasmissione e di accrescimento di saperi anche complessi e raffinati, in certi casi eccelsi. Insomma, a inclinazioni diverse corrispondevano in passato percorsi diversi, uno dei quali era appunto la scuola come la conosciamo oggi: utile per certe carriere ma non per altre, adatta a certe persone ma non ad altre. L’avere rinunciato a integrare queste lezioni nella pedagogia moderna, con i risultati e i problemi descritti, invita a domandarsi,

2) in quanto allo scopo, quanto l’odierna standardizzazione delle strategie formative risponda anche a un bisogno politico di formare, riformare e consolidare la polis con-formando i suoi membri. Gli obblighi scolastici e l’ordinamento oggi in vigore nascono in seno alla Rivoluzione francese col dichiarato scopo di far sì che i giovani «traités tous également, nourris également, vêtus également, enseignés également» formassero quasi eugeneticamente «une race renouvelée… séparée du contact impur des préjugés de notre espèce vieillie». L’istruzione obbligatoria primaria doveva precisamente imprimere lo stampo dello Stato («un moule républicain»): solo infatti «dans l'institution [scolaire] publique... la totalité de l'existence de l'enfant nous appartient; la matière... ne sort jamais du moule; aucun objet extérieur ne vient déformer la modification que vous lui donnez» (L. M. Le Peletier, Plan d'éducation nationale présenté à la Convention nationale par Maximilien Robespierre, 1793, corsivo mio). Per quanto mai più espressa così brutalmente, l’impostazione giacobina è sopravvissuta nei fatti perché forse inscindibile dalla forma-scuola in cui ha preso corpo. Oggi, è vero, vige la democrazia (come nella Francia del 1793...) e cambiano forse i contenuti non codificati della «morale républicaine», ma non il rischio di essere «dénoncé par la surveillance, et puni selon la gravité du délit» per il docente che se ne allontana (Décret Bouquier, sect. II, art. 2, 1793). Sicché chi sogna una scuola «diversa» chiede nel migliore dei casi una cosa impraticabile, nel peggiore di imporre con gli stessi mezzi la propria dottrina. Ma la fortuna di questo sistema non si spiegherebbe se non considerassimo anche,

3) in quanto al senso, la mitografia popolare che si è costruita attorno alla scuola per tutti e in particolare la convinzione che essa sia la via regia dell’emancipazione dei deboli. Senza ripetere qui le fallacie concettuali e fattuali di una simile credenza, il suo peccato originale si riassume nell’avere accettato l’idea terribilmente classista che l’istruzione sia un privilegio e dunque nella conclusione, impossibile per logica e definizione, che con la sua universalità il privilegio si sarebbe esteso a chiunque. Risultato: nel reclamare l’orpello di ricchi e potenti invece di metterne in discussione il simbolo e fondare la dignità e la gratificazione delle persone su cose più serie, le masse si sono lasciate sagomare e stipare fin dall’infanzia nelle mangiatoie ideali del Robespierre di turno e, per buona misura, hanno anche preteso di farcisi rinchiudere a doppia mandata. Nell’inseguire l’idolo di una cultura abborracciata si sono fatte soggetti e complici di una massificazione culturale che vomita conformismo e luoghi comuni. Nel confondere le nozioni ready-made con la fatica del conoscere si sono lasciate intortare ogni giorno dalle cattedre dei notiziari. E nell’insistere che tutti dovessero riscattarsi con gli studi hanno gettato alle ortiche patrimoni plurisecolari di abilità maturati nelle famiglie e nei territori. La promessa del «salto di classe» con cui la scuola ha sedotto le generazioni si fonda precisamente sull'etica liberale dell’individuo-monade che non deve essere immeritatamente «premiato» o «punito» dal suo retaggio, quando in realtà sarebbe del tutto funzionale che i saperi si conservassero, si comunicassero e si accrescessero innanzitutto nella viva quotidianità della casa paterna e dell'ambiente, quando è possibile. In quanto poi all’emancipazione, c’è davvero da interrogarsi sull’indipendenza dei milioni che hanno studiato mezza vita per compilare fogli di Excel, applicare procedure e partecipare a riunioni, che non sanno più produrre alcunché e campano (sempre peggio) appesi ai baracconi delle burocrazie pubbliche e private, alla mercé di chi può staccarne la spina.

In conclusione, non si può né giudicare né, qualora lo si potesse, riformare la scuola di oggi senza riconoscere la sua profonda integrazione con le aspirazioni declamate, sognate o inconfessate del modello di civiltà di cui è lo specchio (non l'anticorpo). Considerandola così, in termini contingenti e non totemici o ancora peggio salvifici, si riuscirebbe a leggere nelle sue crepe le crepe di quel modello e immaginare almeno una narrazione diversa. Dopo tanti anni, forse è possibile farlo.


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Commenti

Apocalisse

Che grande articolo. Complimenti. Sono felice di sentire qualcuno che ancora produce un pensiero vero.

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Spartaco

Sono dell'idea che nella società moderna sia fondamentale avere un luogo, un'istituzione, un contesto in cui cittadini di diversa provenienza possano raggiungere ethos e conoscenze condivise. In alternativa si correrebbe il rischio di ricadere nel particolarismo degli ambienti familiari e locali. Il patrimonio che la famiglia e il territorio portano con sé deve essere tutelato e sarebbe interessante riflettere sull'urgenza di farlo coesistere, per quanto possibile, con un percorso di formazione più completo, ma a maggior ragione non deve diventare un limite. I miei genitori o i miei nonni avrebbero potuto comunicarmi le conoscenze e la passione per la filosofia e per la letteratura che ho ricevuto da alcuni ottimi docenti? Probabilmente no, e credo che tutti i cittadini in linea di principio dovrebbero passare attraverso un ampliamento dei loro orizzonti di vita sociale e di pensiero che al momento forse soltanto la scuola pubblica (accanto a altre istituzioni come le biblioteche) può dare.

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↪ Il Pedante

Gentile lettore, ciò che scrive è vero, ma La invito a riflettere sulla circolarità del Suo commento. La "società moderna" implica la scuola moderna e quest'ultima è lo strumento e il luogo in cui si costruisce e si conferma la società moderna. È naturale che non vi siano alternative, perché la scuola-società moderna si è costituita al costo di spazzare via le alternative precedenti. I personaggi che ho citato nel testo (e molti altri) non hanno imparato la filosofia dai genitori e dai nonni, ma in strutture di trasmissione del sapere diverse da quella attuale. Qui non propongo riforme, ma riflessioni sulla "convenienza" di avere liquidato quelle strutture.

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Pfiuuu

L’abbassamento dei salari e la conseguente costrizione al lavoro delle donne costringe le famiglie a mandare i bambini alla scuola materna, se non addirittura al nido. Se la scuola iniziasse a 7 anni, i bimbi avrebbero già un minimo di struttura mentale originale e sarebbero in grado di resistere maggiormente all’indottrinamento.

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Arconte

Grazie sig. Pedante per questo ennesimo articolo, denso di argomentazione, studio, pensiero e buona letteratura.
Dio Le conservi salute ed intelletto.

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Cardenio

L’uffizio dell’ajo era il render saputo il suo discepolo, e sofficientemente istruito; donde, all’incontro, quello dell’insegnante dell’odierna scuola di Stato più o meno appareggia i compiti di un Mike Bongiorno a Telemike o simili. Scremare (coi quiz, con le VERSIONI [!!!], con le interrogazioni [termine dei legisti, non per caso], con le bocciature [brutto neologismo]): lo vuole il sistema.

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Dante

caro Pedante, come sempre hai analizzato la situazione in modo impeccabile. Soprattutto, sono correttamente inquadrate le due sconfortanti e diffuse figure del semicolto e dell'imparato (e della loro violenza tracotanza protervia).
Purtroppo, a questo quadro già fosco, vanno aggiunte tutta una serie di sconcezze che derivano dal vivere la scuola in questi tempi infami. I dirigenti scolastici interessati soltanto al "trend" degli iscritti, i bagni neutri, gli asterischi e le schwa usate al posto delle normali vocali, le decine di ore di lezione buttate per conferenze e incontri (inutili e patetici), i morti di fame che pensano solo ai PROGETTI, le penne verdi e rosa per non turbare con l'inchiostro rosso, la carriera alias ecc. ecc. ecc. Sinceramente, non so chi mi dà la forza per affrontare tutto questo...

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sano

Complimenti per l'articolo, incisivo e denso di spunti come sempre.
Riporta alla mente la sua celebre massima: "se una cosa non serve, serve ad altro". Non serve allo scopo dichiarato, s'intende, perché nulla serve a nulla e a nessuno, ma tutto serve a qualcosa o a qualcuno, e già individuare quel qualcosa e quel qualcuno è un grande passo avanti nella consapevolezza.
D'altra parte, da semicolto quale sono, potrei stare dicendo un cumulo di fesserie...
Comunque, grazie.

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Il diplomato

Molti applausi e scroscianti! Grazie.

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V

Trovo profondamente ingiusto generalizzare: è corretto descrivere così la scuola di oggi, ma quella che hanno frequentato la nostra generazione e quella prima di noi era diversa.
In quel tipo di istruzione, accanto ai licei e alle università, che non preparavano a dirigere ma a poterlo imparare a fare, vi erano gli istituti professionali che insegnavano non il singolo mestiere quanto piuttsto come apprenderlo.
L'attacco a quella forma di istruzione è venuto subito dopo la normalizzazione della stampa secondo il piano di rinascita democratica (che voleva proprio abolire il valore legale dei titoli di studio, come si parrebbe auspicare nella parte iniziale dell'articolo).

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Agny

Ci sono orari allucinanti. 6-7 ore di fila per avere la settimana corta come se gli studenti fossero operai. Per i piccoli 40 ore settimanali di modo che per i genitori il servizio babysitter sia gratuito.

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AR

Stupendo. Giusto puntare sulle radici profonde di questa idea/prassi.
Mi limito ad aggiungere una osservazione riguardo le conseguenze dell'istruzione di massa: facendo perdere molti anni per raggiungere la stabilità, una posizione socialmente riconosciuta, l'istruzione riduce drasticamente la natalità, perché le persone iniziano ad avere figli sempre più tardi.

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Mario M

Descolarizzare la Società è il titolo di uno dei tanti libri profetici di Ivan Illich, assieme a Nemesi Medica, Il Genere e il Sesso, Nella Vigna del Testo. Illich osservava come l'istituzione scolastica e i corsi di studi generali e imposti a tutta la popolazione piuttosto che appianare le disuguaglianze le aggravava.
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Anni addietro i miei parenti mi chiesero di dare ripetizioni di matematica al loro figlio. Costui però, da ragazzo di 12-13 anni, aveva già costruito un presepe meccanico di tutto rispetto, con cascatelle di acqua, ruscelletti, e una moltitudine di statue ognuna con movimenti particolari. Anni dopo, accanto al padre, aveva già acquisito quasi tutte le competenze per gestire il parco macchine della loro società agricola. Però aveva bisogno di quel dannato pezzo di carta, il diploma di perito, ma faceva fatica ad apprendere le nozioni di matematica, anche a causa del suo disinteresse e forse di un dissidio col professore. Mentre cercavo di trasmettergli le nozioni di analisi matematica e di geometria pensavo all'assurdità della situazione: lui era già un professionista che non aveva più bisogno di quelle nozioni, però senza il pezzo di carta poi poteva avere dei problemi con la burocrazia per la futura gestione della società.
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Considero Philip Glass il più grande compositore. Ha studiato musica prima nel conservatorio di Baltimora, e poi nella famosa Juilliard School di New York. Ma la sua vera e profonda formazione si sviluppò e arricchì dopo, accanto a due persone con cui ebbe un rapporto diretto: Nadia Boulanger e Ravi Shankar.

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↪ @

Gentile @Mario M, insomma. Se la società ha bisogno di geometri, ingegneri etc, dovranno pur sapere la matematica.
La battaglia contro l'obbligo scolastico si interseca pericolosamente co le crociate liberali ti tipo einaudiano...
Lei si farebbe progettare un ponte da un ingegnere autoproclamato? Operare da un medico che ha fatto pratica in sala senza dare esami di anatomia, fisiologia, farmacologia?

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↪ Mario M

Gentile @@, non si tratta di autoplocamarsi con specifiche competenze, ma di dimostrarle sul campo. Pertanto io non chiedo una terapia farmacologica o chirurgica a un semplice laureato in tali discipline, ma cerco di verificare la sua competenza sulla base della sua attività sul campo. Non si tratta di abolire la scuola, ma di non renderla obbligatoria, di eliminare il valore legale dei titoli di studi a favore di un esame sul campo. Ad esempio, quando ho chiesto di entrare a fare parte di una corale di buon livello - che si esibiva anche per MITO -, ho dovuto studiare per alcuni mesi il solfeggio cantato, e sono stato sottoposto anche a un esamino.

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↪ pupi@200000

Gentile @Mario M, un medico studia 6 anni e poi inizia la specializzazione. Senza questo percorso non mi fido. Lo dimostra lei il valore del figlio del primario sottoponendosi a un intervento chirurgico?
La battaglia per abolire il valore legale del titolo di studio è una tipica battaglia (obsoleta) della destra enaudiana per permettere ai figli dei ricchi di ereditare il mestiere dei padri senza avere alcun merito.
Anche chi canta nel coro, come lei mi dice, studia canto e solfeggio. Se un genio non ha bisogno di farlo si riconoscerà il valore di quel genio, ma il genio è uno su 10.000. Il problema mi pare piuttosto l'abbassamento generalizzato del livello scolastico, che in nulla trae giovamento dall'abolire il valore legale dei titoli di studio.

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↪ Cardenio

@pupi@200000
Sono tanti gli atti di fede, che facciamo nel corso della nostra vita. Ad esempio, già tre anni ora sono, mi sono fidato dei noti vaccini e di chi li proponeva come utili e sicuri (Fidarsi di chicchessia o checchessia: Commettere sua propria fede, o veramente fiducia, in altrui o altra cosa). Questo, per quel che concerne le cosiddette scienze corporee, come la medicina o simili.
Quanto al campo delle scienze spirituali o addirittura divine, invece, cito spesso, da qualche tempo, quell’aforisma del Gomez Davila, che seguita: «Quanto maggiore è l’importanza di un’attività intellettuale, tanto più ridicola è la pretesa di certificare la competenza di chi la esercita. Un diploma di dentista è degno di rispetto, uno di filosofo è grottesco».

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Ecfanto

Intervengo con ritardo e me ne scuso. Non sono d'accordo quasi con nulla di quanto Lei scrive, ma non voglio annoiarLa con una critica pedante. Mi limito a farLe presente che il suo articolo soffre di un difetto di fondo: Lei immagina la scuola tutta d'un pezzo, mentre essa è da più di due secoli e mezzo un campo di battaglia tra una concezione puerocentrica (a cui Lei, almeno quando polemizza contro le nozioni, è vicino) e una concezione che dalla prima è stigmatizzata come "tradizionale". Questa seconda concezione si attiene al compito di trasmettere ai giovani quanto di meglio il passato ha scoperto e creato, a partire dalla scrittura, sia per conservarlo sia perché dia origine a nuove scoperte e a nuove creazioni. La tradizione puerocentrica – che inizia da Rousseau («Je hais les livres; ils n’apprennent qu’à parler de ce qu’on ne sait pas».), che è ripresa da Dewey, che dagli anni Venti del Novecento conquista la scuola statunitense e dagli anni Ottanta quella europea – crede invece che la mente del bambino si sviluppi naturalmente, come il suo corpo, senza memorizzare le vituperate nozioni e senza acquisire abilità teoriche a forza di esercitazioni ("drill and kill" – dicono in America), in un ambiente attrezzato di cui l'insegnante è sostanzialmente un elemento di arredo ("Don't be a sage on the stage. Be a guide on the side" – dicono sempre in America). Questa concezione che si attiene all’intuizione e alla manipolazione, e rifiuta la conoscenza discorsiva, ha svuotato la scuola di contenuto e l'ha sviata dal suo fine. Oggi la scuola non istruisce (termine contro cui Lei commette più di un peccato), così gli alunni non sanno tenere la penna in mano e, come si è accorto anche il ministro Valditara, non sanno neanche scrivere in corsivo. Oggi la scuola è infatti ridotta a un centro di servizi sociali dal puerocentrismo pedagogico. Per questo elargisce, ideologia, voti, promozioni, ma è vuota di conoscenza e di spirito. La polemica nei confronti della scuola dovrebbe iniziare da qui.

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↪ Il Pedante

Gentile @Ecfanto, La ringrazio di questi preziosi contributi. Fatico tuttavia a leggervi un'obiezione. Il mio articolo sviluppa una fenomenologia, il Suo commento è un manifesto di come dovrebbe essere secondo Lei la scuola. Nel testo spiego perché non mi cimento in quest'ultima operazione. Se si accetta il monopolio formativo della scuola bisogna anche accettare che ci sia un monopolista: che non siamo né io ne Lei.

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@pupi200000

Caro Pedante,
questo importante articolo, che condivido ma non del tutto (alcuni punticini sarebbero da discutere), meriterebbe un dibattito ampio e pubblico. L'analisi storica post-rivoluzione francese andrebbe a mio avviso segmentata in almeno tre differenti periodi, tutti diversi tra loro, e sarebbe anche da considerare un ruolo certo poco nobile ma essenziale che la scuola di oggi svolge nella società: il contenimento della disoccupazione generato dai processi di smantellamento del lavoro e per causa della tecnologia e per causa della delocalizzazione. Un contenimento fondamentale nel momento in cui il 14enne che non ha voglia di studiare non trova più l'artigiano che gli insegna il mestiere (perché l'artigiano sta in Cina) o la 14enne brava a ricamare ha la concorrenza di un macchinario che fa 100 ricami in un'ora e quindi non potrebbe campare ricamando. Il tessuto socioeconomico e familiare che sosteneva le società europee e permetteva all'individuo non scolarizzato di campare più che dignitosamente nel suo paese, parlando il suo dialetto e lavorando all'interno di una comunità è stato smantellato da un pezzo.
RR

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↪ Il Pedante

Gentilissima Lettrice, è tutto corretto. La scuola di oggi riflette una deriva sociale e produttiva che si avvertiva già persino in seno ai dibattiti rivoluzionari (consideri ad esempio la proposta di Condorcet). Non si può ripensare la prima senza denunciare la seconda. Sono comunque interessato a conoscere i rilievi a cui fa cenno nel commento.

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↪ pupi@200000

Gentile @Il Pedante, la mia critica all'articolo è fondamentalmente questa: scuola organizzata e potere vanno a braccetto da sempre. Succedeva ai tempi dell'Impero Romano (gli imperatori sostennero scuole 'pubbliche'), succedeva con la Chiesa, gli Asburgo, Napoleone. Quando inizia la scuola moderna né a Napoleone né ai Prussiani viene in mente di smantellare il sapere tradizionale per sostituirlo con un altro (mentre nel frattempo vivono di vita indipendente attività artigianali e di svago). Le scuole europee postrivoluzione e post congresso di Vienna sono state tutte indistintamente di buona qualità. Nel contempo l'Europa produceva musica, letteratura e arti e sorgevano grazie alla Scuola studi più laici (filologie, diritto, scienze naturali etc.), non più riservati ai soli abati o nobili. Nel Dopoguerra sono cominciate le riforme: dopo una prima fase socialdemocratica accettabile, di cui hanno beneficiato anche figli di operai, di panettieri etc., si assiste all'onda distruttiva della base tradizionale che costituisce l'ossatura stessa del sapere. Parallelamente, l'esplosione di mezzi alternativi a fruizione illimitata sostituisce il percorso verso il sapere con l'ascolto di programmi, video etc. che dismettono di fatto l'insegnamento e le pratiche attive di ragionamento (scrivere a mano, fare calcoli senza calcolatrice, memorizzare...). La pueolatria di cui parla bene Ilde dà allo studente lo status di piccola divinità capricciosa da assecondare mentre scopre il genio racchiuso in sé (ovvero: non si insegna più niente). Il potere ha scoperto che lo smantellamento del sapere è funzionale alla sua stessa esistenza: somministrare meno istruzione possibile ma nel contempo tenere lo studente a scuola il più possibile. Ora, in società in cui la comunità tradizionale si è persa, il potere gioca facile, perché l'alternativa alla scuola non è il percorso in una comunità che continua, ma la strada, la droga, il videogioco, la dipendenza da cellulare.
Come uscirne è un bel problema.
In questo momento stanno vincendo loro: hanno in mano i mali e i rimedi..... Spesso alternative proposte sono poco rigorose e credibili (eccetto la scuola cattolica di lunga tradizione, che però sopravvive malamente tra crollo demografico, calo di vocazioni e adeguamenti al mondo).

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↪ Ilde

Gentile @pupi@200000,
esatto.
Un'analisi sull'istruzione scolastica che mira, nella sostanza, ad indicare il fallimento "dell'orizzonte unico", e dunque automaticamente la necessità del suo abbandono in favore di percorsi alternativi, non dovrebbe prescindere dalla constatazione della sostanziale "dismissione dell'insegnamento e delle pratiche attive di ragionamento" (verissimo! Perdita irreparabile per gli individui in quanto tali prima ancora che per il loro grado di istruzione ) che sono la ragione intrinseca del fallimento e di tutte le conseguenze illustrate nell'articolo. Se contenuti e metodi sono stati traditi e dunque vanificati, qualsiasi bilancio sui risultati rischia di risultare falsato, a monte.
Grazie e mi scuso per l'intromissione qui.

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↪ Il Pedante

Gentile @pupi@200000, La ringrazio di questa preziosa integrazione. Fatico però a considerarla una critica, giacché è piuttosto un'analisi succinta ma veritiera di un percorso storico. Non mi stupisce che il deterioramento dell'insegnamento si collochi in più ampio deterioramento culturale, ma non riesco a non pensare che la massificazione (di marca politica) dell'istruzione non abbia a che fare con la progressiva rottamazione delle pratiche didattiche e dei saperi ereditati dalla scuola antica. Le ottime scuole di cui Lei parla erano opportunità offerte a chi aveva l'attitudine e il desiderio di frequentarle, poi si sono succeduti periodi di transizione in certi casi felici, ma pur sempre orientati al risultato attuale. In sostanza, Lei accusa correttamente la civiltà contemporanea di avere snaturato la scuola, io parto dalla scuola per tracciare un quadro critico della civiltà contemporanea che l'ha snaturata.

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Elisabetta

Eccellenza, grazie per questo articolo, per il coraggio di esporre concetti scomodi e controcorrente.
Abbiamo visto benissimo in questi anni l'arroganza dei semicolti e il disprezzo verso chi è ritenuto inferiore perché non in possesso del "titolo".
Oggi ho visitato un'area dove avrà sede un'importante organizzazione non-profit della mia città, siamo saliti e abbiamo raggiunto una sala bellissima con grandi finestre ogivali.
Lì nell'area nei decenni scorsi c'era una grande industria. Da lì erano uscite importanti realizzazioni, frutto di grande perizia trasmessa con passione. Ora la città punta solo (e male) al turismo, la sala verrà destinata a non meglio precisati eventi.
All'epoca della grande industria quella sala era la mensa dei dipendenti.

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Andrea Romani

Eccellenza,
ringraziandoLa per il sempre intrigante contributo, Le sottopongo un piccolo commento caricato su Twitter.
Alla società attuale fondata sui canoni della mediocrità, dell'asservimento culturale e morale, dell'alienazione continua, s'è giunti attraverso le forche caudine della democratura ossia la progressiva e inarrestabile distruzione di ogni valore aristocratico, lo spregio di ogni differenza verticale, il sostegno all'egualitarismo orizzontale travolgente ogni qualità umana. Questo è avvenuto e avviene nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro e in ogni altro luogo sociale, compreso ciò che resta della famiglia. Le masse, una volta catapultate obtorto collo nella Storia, non tornano ai margini ma distruggono lo spazio stesso di vita statuale seguendo il pifferaio di turno. L'unica soluzione realizzabile restava la sintesi tra basso e alto, locale e nazionale, mestiere e economia, Stato e mercato. Il corporativismo e uno Stato organico mi paiono ancora la risposta assorbente i problemi della modernità senza traumatici scossoni anti-umani. Naturalmente ciò richiederebbe il superamento delle forme di "democrazia rappresentativa" che sono la menzogna di ogni sincera capacità di raccordo tra popolo e governo, Stato e lavoratori.

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↪ Il Pedante

Ringrazio Lei di questa integrazione, che spero vorrà sviluppare in futuro.

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↪ Andrea Romani

Gentile @Il Pedante, tento di ampliare il mio breve commento con colpevole ritardo.
Nella Sua pregevole analisi, molto s'è detto sul metodo artigianale attraverso cui le individualità venivano formate: Michelangelo, così come Leonardo o Borromini, non frequentavano "corsi di laurea". Si andava a bottega, da un maestro, e si faceva l'apprendistato secondo una prassi consolidata dalla tradizione secolare.
Tale meccanismo, oltre ad avviare i grandi Italiani verso l'immortalità della loro Arte, permetteva a una vasta classe di onesti mestieranti di tirare a campare. Parlando di quel che grossomodo conosco, tale "modo di produzione" è andato avanti (cfr. le opere di Carlo Cipolla) nell'Europa pre-industriale, ma anche nella Roma classica suppongo che il metodo di trasmissione dei saperi non fosse poi così differente.
Ciò che a mio avviso rende il tutto assai distante dal successivo ciclo capitalistico è un elemento decisivo: la regolamentazione dei mestieri e delle quote di mercato.
Nell'Europa preindustriale esistevano le corporazioni: rinvio a questo breve e però incisivo contributo di Franco Cardini per ulteriori approfondimenti (link).
Il mercato, inteso come luogo ossessionante di controllo e gestione della produzione, era regolato e sottomesso alle esigenze umane espresse dalle Corporazioni di arti e mestieri. Il che, naturalmente, non significa l'Eden.
Voglio solo ricordare come la formazione tecnico-teorica dei mestieri avvenisse in un sistema pluralistico affidato a entità diverse dallo Stato, o comunque a esso contrapposte in una dialettica che garantiva spazi di autonomia. Tra Stato e Corporazioni esistevano legami organici, tuttavia l'uno e l'altro elemento mantenevano un'autonomia che nella temperie borghese non si ripeterà più.
Cosa fanno infatti i rivoluzionari dell'Ottantanove? Aboliscono, tramite la famosa Loi Le Chapelier, ogni "corpo intermedio" tra l'individuo e lo Stato. Affermava l'autore del provvedimento:
«Il doit sans doute être permis à tous les citoyens de s'assembler ; mais il ne doit pas être permis aux citoyens de certaines professions de s'assembler pour leurs prétendus intérêts communs; il n'y a plus de corporation dans l'Etat; il n'y a plus que l'intérêt particulier de chaque individu, et l'intérêt général. Il n'est permis à personne d'inspirer aux citoyens un intérêt intermédiaire, de les séparer de la chose publique par un esprit de corporation.»
A questo punto, rimanendo su un terreno di fattualità economica, pare logico considerare l'accentramento statuale dell'istruzione per evitare ogni interferenza sui nuovi schiavi salariati: in un primo tempo con la scelta politica di mantenere l'analfabetismo (si veda la storia dell'istruzione nell'Italia liberale dalla Legge Casati in poi), poi favorendo- in accordo con le esigenze della produzione- quel tantum di cultura necessaria alle nuove tendenze della società (tra cui ri-monopolizzare l'istruzione sottraendola al lavoro di propaganda delle insorgenze sovversive).
L'esperimento prussiano-humboldtiano, capace di fornire ottimi cittadini per la pace (supersviluppo della Germania bismarckiana e guglielmina) e per la guerra, dimostrava l'intima coerenza di un modello ispirato a criteri ben più alti del materialismo capitalista, in cui le influenze idealistiche erano evidenti (studio della classicità, della musica, della religione, dell'amor di Patria, per approfondire link), restando sempre inteso che lo Stato costruiva un eccellente dispositivo formativo per la cura dei propri fini, superiori all'individuo-arbeiter-soldato.
Non a caso la scuola italiana abbisogna del Fascismo per addivenire a una compiuta riforma (con Bottai più che con Gentile) che razionalizza e completa l'ordinamento nella sua globalità: è logico perché Mussolini, da buon maestro di scuola, comprende perfettamente la necessità di controllare e plasmare le giovani generazioni attraverso l'istruzione di massa.
Su quell'esperienza chi scrive nutre un giudizio positivo, non fosse altro per la sua schiettezza: nei regimi totalitari i fini sono sempre stati evidenti, mai nascosti dalla melassa ipocrita della cd. democrazia rappresentativa-liberale. Ispirarsi a Roma, alla religione e al culto della Patria, per quanto selettivo, è sempre preferibile all'agenda 2030.
Non v'è in sostanza una soluzione di continuità tra istruzione pre e post Sessantotto: serviva al Sistema aggiornare e rendere "credibile" uno strumento rimasto assai indietro (cioè ai tempi del regime) per le nuove esigenze di massificazione-controllo-propaganda. Fuori dalle apologie, la distruzione sistematica della scuola e dell'università non esiste. Vive invece l'aggiornamento continuo delle tecniche di controllo sociale dello Stato, propagandate da un proletariato cd. intellettuale che trascende ogni istinto di dubbio per la sicurezza della mancetta statale, nel deserto familiare e senza curarsi degli effetti di lungo periodo.
Uno Stato corporativo, cioè animato e incardinato dalle rappresentanze dei lavoratori VERAMENTE designate dalle moltitudini distinte per professione, potrebbe tranquillamente riannodarsi all'esperienza pre-1789 separando l'aspetto di formazione professionale dalla crescita culturale, che resterà sempre un elemento personalissimo nemico di ogni massificazione.
Del resto, qualunque lavoro abbisogna di un tirocinio d'esperienze e di "saperi" acquisibili soltanto sul campo: la fola della Scuola come grande fucina della coscienza personale e collettiva del citoyen repubblicano va demolita, perché porta dritto all'abominio del pensiero unico, ivi compreso il trienno 2020-2022.

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Stefano Longagnani

Il questo post, insieme a profonde riflessioni, compaiono eclatanti paralogismi, e così si riesce a buttare via il bambino con l'acqua sporca.
La scuola ha tanti difetti, anzi è ormai stata completamente stravolta ed oggi è al 90% un luogo di indottrinamento. Ma sostenere che sia inutile perché ora è inutile finisce per appoggiare il gioco di chi l'ha resa inutile. Rileggetevi per favore "Il paese sbagliato - Diario di un'esperienza didattica", di Mario Lodi, edito nel 1970, e sappiatemi dire se trovate traccia di "etica liberale". La scuola di Stato ha un senso solo se lo Sltato è nelle mani del popolo, non degli oligarchi o dei loro sodali.
Chi vuole che la scuola sia oggi com'è oggi, cioè un pericoloso luogo di indottrinamento dove le inconsapevoli vestali del capitale ubbidiscono inconsapevoli e "formano" capitale umano e teste facilmente manipolabili, sono sempre gli stessi. Nel 1821, a Lubiana, Francesco IV duca di Modena spiegava con chiarezza agli astanti che la diffusione delle scuole non era da perseguire ma anzi da ostacolare. Oggigiorno il problema è stato risolto in altro modo. Certamente la soluzione da proporre non è il ritirarsi nell'istruzione della casa paterna.

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↪ Il Pedante

Naturalmente non ho scritto nulla del genere. La tesi è che le scuole siano istituti utili e in certi casi indispensabili (sono sempre esistiti), ma che considerarli templi monoteistici e passaggi parasacramentali obbligati del sapere, dell'educazione e della maturazione personale sia una stortura di radice politica.

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↪ e io ricummo

Gentile @Il Pedante, lo stesso discorso del buon Stefano si potrebbe fare per ogni istituzione attuale, che per quanto oggi sia una Macchina per far Accadere Cose Brutte in molti casi è nata per cercare di risolvere altri tipi di problemi. Questo non vuol dire che sia riformabile, anzi. Cercando di dare corpo alle istanze di Chi Non Ci Sta (tarlo che rode molti di noi e di cui il vairus ha avuto per lo meno il pregio di fungere da sveglia) si attirerà l'ira e il biasimo prima di chi crede in essa e subito dopo dell'istituzione.
il momento in cui I Buoni, I Nostri guidano la cavalcata e riguadagnano il potere, nella politica come nella scuola, non arriverà. Non con le regole vigenti. Che suoni come una bestemmia il considerare un'alternativa, come qui Lei fa, è abbastanza indicativo.

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↪ Il Pedante

Gentile @e io ricummo, effettivamente è così. Al culmine del male non esisterà un Ministero del Male ma quelli dell'Amore, della Pace, della Verità e dell'Abbondanza. Che siccome sono cose belle, guai a criticarli.

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Ilde

Buongiorno e grazie per questa lucida disamina che stimola importantissime riflessioni. Nella parte relativa alla capacità o meno della cultura di favorire una maggior comprensione della realtà (con la conseguenza di essere di supporto alla consapevolezza ed anche, dunque, rappresentare un "antidoto" come da lei definito) non concordo e vorrei porle un interrogativo. Senza entrare nel merito dell'indagine se la situazione del sapere attuale sia frutto o meno del prevalere (idolatria) della tecnica, economia, scientismo fine a se stesso, sugli studi umanistici (si perderebbe di vista il fulcro dell'interrogativo), e considerandolo dunque come dato acquisito, non ritiene che siano proprio il decadimento e impoverimento dei contenuti, forme, scopi (eccetera) dell'insegnamento all'origine del dilagare odierno di individui non istruiti ma appunto semicolti, non realmente in possesso degli strumenti utili al ragionamento e dunque alla comprensione profonda che garantirebbero loro maggiori "difese" rispetto al mondo reale? Perché "discettare" su programmi, intenti sarebbe ormai "ozioso" e vano quando è evidente che semicultura e semicolto sono fenomeni recenti dunque causati da qualche errata valutazione (a voler essere buoni) sulle scelte operate (non solo in Italia aggiungerei) nel campo dell'istruzione? E ancora, perché non considerare la formazione culturale di base, quella vera, pero' - e non la parvenza di cui stiamo parlando e che è purtroppo sotto i nostri occhi oggi - come un bene e arricchimento in sé indispensabili per l'essere umano, per tutti gli esseri umani, a prescindere dal lavoro, professionale, artigianale, operaio, impiegatizio, casalingo che andranno a ricoprire da adulti a seconda delle inclinazioni di ciascuno? Un conto è l'erudizione ai massimi livelli, in qualsiasi campo, altro è l'accesso a determinati contenuti (poesia, filosofia, letteratura, musica, per citarne alcuni) che mirano a consolidare l'essere umano nella sua essenza, crescita e formazione (la specializzazione per il lavoro/mestiere che si andra' a svolgere rispondera' alle altre esigenze: quelle sociali, economiche, di sostentamento). Sono da sempre convinta che, tanto per fare un esempio, rudimenti di filosofia (preciso che non è stata oggetto dei miei studi universitari ma solo liceali) sarebbero molto utili all'individuo in quanto tale, in qualsiasi ordine e grado di scuola, per dire. Contenuti e modalita' di insegnamento credo facciano enorme differenza rispetto agli intenti e risultati finali che intendiamo attribuire all'istruzione nel suo complesso La ringrazio.

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↪ Il Pedante

Gentile lettrice, la ringrazio di questa riflessione. Posso sbagliare e nel caso chiedo testimonianze di altri, ma non credo né ho mai visto che i «rudimenti» della filosofia abbiano elevato intellettualmente alcuno, mentre al contrario è vivo il rischio che abbiano illuso molti di padroneggiarne «le basi» con le conseguenze illustrate nel paragrafo «semicultura». Tutte le discipline, umanistiche o scientifiche, producono i loro frutti solo una volta penetrate profondamente con la pratica, la passione e la disposizione: cosa che quasi mai avviene solo in virtù degli studi, tant'è che giustamente diffidiamo tutti di chi è "fresco di laurea". La buona (o cattiva) notizia è questo percorso non può e non deve essere delegato solo alla scuola.
Sono invece d'accordo sul fatto che buoni insegnanti facciano la differenza. Ma anche gli insegnanti sono stati studenti, sicché è difficile trovare una soluzione restando nel perimetro del monismo scolastico. I buoni insegnanti esistono e penso che esisteranno sempre, ma credo siano tali per ragioni che eccedono le possibilità di intervenire sul «sistema». Sono anzi la conferma che il precettorato è la forma didattica eccellente perché incarna i saperi nella PERSONA, non nei programmi. Ebbi UNA (e già sono fortunatissimo) professoressa di questo tenore, la quale si scoprì poi essere membro di circoli gnostici (o qualcosa del genere) per lunga tradizione familiare. Ho inoltre vissuto questa esperienza studiando professionalmente la musica, che è rimasta tra le pochissime discipline irriducibili all'aula. Anche in quel caso ho incontrato persone prima che metodi e nozioni. Essendomi poi specializzato nel jazz ho scoperto con non poca sorpresa che spesso i primi colossi di quest'arte sapevano a malapena leggere e scrivere. Avevano assorbito tecnica e gusto in un ambiente irripetibile: non a scuola!
Temo insomma di leggere nelle Sue pur condivisibili osservazioni un residuo accanimento circa il ruolo primario della scuola. Che invece è sì importante (le scuole, non la scuola) ma non ha altri motivi di avocare monopolisticamente a sé l'apprendimento e la maturazione intellettuale delle persone, se non appunto di carattere politico.

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↪ Ilde

La ringrazio per la sua gentile risposta sulle cui argomentazioni sostanzialmente concordo. Mi permetta solo di puntualizzare il mio pensiero.
Più volte, negli anni recenti, mi sono interrogata (ho 54 anni) su chi/cosa abbia maggiormente inciso o contribuito alla formazione e costituzione della persona che oggi sono ed ogni volta ho concluso che si tratta di un insieme di esperienze fatte ma soprattutto di PERSONE (la seguo convintamente sulla sottolineatura) incontrate in ambiti molto diversi cui sono approdata (alle volte in maniera persino casuale) durante gli anni della crescita (e non solo: il mosaico si arricchisce sempre di nuove tessere col passare degli anni, degli incontri e delle esperienze, naturalmente). La formazione scolastica/universitaria è solo uno dei miei ambiti formativi, senza dubbio importante ma certamente non il piu' rilevante.
Il merito che attribuisco all'idea di universalità e gratuita' dell'istruzione (lascio volutamente da parte il discorso sull'obbligatorieta' che merita disamina a parte) è quello di offrire l'opportunità a tutti (indipendentemente dalla condizione familiare e sociale di partenza) di entrare in contatto col "sapere" per poter trarre da esso occasione di arricchimento interiore finalizzato, mi spingerei a dire ESCLUSIVAMENTE, alla formazione e sviluppo dell'individuo, da tutti i punti di vista e nel suo complesso (dunque non solo sotto il profilo intellettuale): un necessario nutrimento dello "spirito" parallelo a quello del corpo entrambi fondamentali per la crescita complessiva dell'essere umano (perdoni l'uso di termini generici troppo approssimativi scelti per brevita' nell'intento di non abusare della sua attenzione e del suo spazio). In quest'unica prospettiva ho citato l'esempio della filosofia...
Concordo pienamente con lei sul fatto che apprendimento e maturazione personale possano essere forniti, anche molto più efficacemente, in contesti alternativi a quello scolastico, ma non mi sentirei di dare per assodato che essi siano realmente tutti e sempre accessibili a qualsiasi bambino/ragazzo/giovane, a prescindere dalle sue condizioni di partenza.
Pertanto, lasciando da parte le cause del decadimento sia della capacità dell'istituzione scolastica di assolvere degnamente a questo compito come degli scolari di apprendere in maniera realmente proficua (punto certamente di partenza del ragionamento ma a mio parere non di arrivo) ritengo resti intatto il valore dell'idea di garantire e fornire a chiunque l'opportunità di accedere alla conoscenza e al sapere nell'ottica sopra precisate. Ecco perché ritengo rimanga di centrale importanza occuparsi tanto delle cause della tragica situazione attuale da lei perfettamente descritta che dei possibili rimedi (non perdendo dunque di vista contenuti e metodi).
Grazie ancora per il suo lavoro e per questo prezioso suo spazio: è sempre di grande interesse e piacere leggerla e riflettere insieme a lei.

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↪ Il Pedante

Quello dell'accessibilità ai percorsi di formazione (ma mica solo scolastici!) è un obiettivo che deve essere soddisfatto nell'interesse di tutti. Nell'articolo però si discuteva di obbligo e di orizzonte unico, cose ben diverse.

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↪ Ilde

Si, ho ben colto la riflessione sull'orizzonte unico - apprezzandola (pur nei limiti di quanto ho poi esposto) - non la centralità dell'obbligo. Rivalutero', allora, fermo restando che concordo pienamente con @pupi200000 sul fatto che questo articolo meriterebbe un dibattito ampio e pubblico. Peccato non poterlo fare.
Grazie

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↪ pupi@200000

Gentile @Il Pedante, qui sono d'accordo. L'esistenza di corsi di Filosofia all'università senza greco e tedesco non ha senso e mostra il livello di prostituzione a cui è giunta questa disciplina, anche per adeguarsi al livello di preparazione dei diplomati.

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↪ Il Pedante

Gentile @pupi@200000, ovviamente. Aggiungo che 1) oggi la conoscenza delle lingue antiche e moderne è considerata una competenza in sé e chi ne padroneggia molte un prodigio, se non proprio un soggetto quasi autistico, il che dà l'idea di quale "cultura" stia uscendo dagli allevamenti "umanistici"; 2) la filosofia è forse, tra tutte, la disciplina più refrattaria all'insegnamento ex cathedra. Nell'accademia platonica si discuteva sotto gli alberi, non c'erano programmi, esami, lezioni ecc. Era un'Umgebung di personalità e saperi, non una scuola. Lo stesso accadeva più tardi nei monasteri. Spogliata dall'ambiente e dal carisma, la filosofia è lettera morta.

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↪ Ilde

Gentile @pupi@200000,
concordo se a livello universitario. Non il tedesco ma ho fatto studi classici e dunque credo di comprendere le vostre critiche. Pensavo solo a "rudimenti" e ai primi ordini e gradi di istruzione e comunque era solo un esempio fra i tanti che potevo fare, mi rendo effettivamente conto probabilmente il meno appropriato non potendolo circostanziare compiutamente in questo spazio. Ecco perché lei ha totalmente ragione a dire che sarebbe necessario un ampio e pubblico dibattito, auspicabile per quanto, concordo, troppo complesso nella situazione attuale.
La ringrazio.

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↪ @pupi200000

Gentile @Il Pedante, ormai si perpetra il falso.
Esami di Filologia Romanza senza sapere il latino sono vuoti di senso. Tuttavia, non nascondiamoci il fatto che il Potere abolirebbe la Filologia Romanza piuttosto che reintrodurre il latino nei licei.
La creazione dei licei senza latino è stato uno dei progetti geopolitici più brutali promossi dal Potere per creare quadri intermedi della società privi di qualsiasi coscienza storico-linguistica e costruire uomini-pedina da spostare liberamente nel mercato globale.

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iltubo

Roba potente, interessante. Stimolato da Suoi precedenti articoli ho letto Foucault, Ellul e Bernays su questo tema senza riuscire ad arrivare alla sintesi di questo articolo. So per certo che i potenti si occupano dei programmi scolastici quale mezzo migliore per installare nei cervelli i sistemi operativi dove poi gireranno le loro idee, proprio come applicativi. Anche strategicamente mi pare la strategia migliore (per loro), per tutti i motivi menzionati nell'articolo.
Forse però siamo di fronte a un falso problema o comunque a un problema più ristretto: l'istruzione di massa non impedisce un'istruzione personalizzata d'eccellenza. I figli dei dei potenti destinati a proseguire l'esercizio del potere, quell'educazione la ricevono in un modo o nell'altro, alla peggio accanto al padre nei comitati strategici di aziende o a casa confrontati con problemi che io non vedrei mai e che per loro diventano pane quotidiano.
Il problema è per la plebe: posto che l'istruzione mediante precettore è impraticabile, l'alternativa mi pare tra educazione universale che almeno dia ai più svegli la possibilità di invertire il percorso (pur con i rischi di indottrinamento) oppure ignoranza dilagante per tutti? Forse il lavoro da fare è di non arrivare compiutamente all'ignoranza dilagante tramite manipolazione profonda dei programmi scolastici che, sotto una falsa apparenza, sono disegnati per somministrare ignoranza. Siamo in tempo?

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↪ Il Pedante

Gentile @iltubo, Lei però accetta il dogma che extra schola nulla scientia, quindi poi è costretto a tenersi tutte le conseguenze. Eppure nella vita si impara sempre, le scuole sono utili e in certi casi insostituibili: ma non «la scuola».

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↪ Stefano Longagnani

Gentile @Il Pedante,
ma chi le organizza "le scuole"?
Alla fine il problema vero non è "la scuola", ma chi controlla lo Stato.
Vien voglia di dare ragione al PCC.

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↪ Il Pedante

Ma perché ci deve per forza essere UNA entità che controlla TUTTO ciò che finisce nelle teste di TUTTI i giovani? Fosse anche a Lei gradita, non lo sarebbe ad altri.

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↪ iltubo

Gentile @Il Pedante, i dubbi sono intavolati correttamente ma auale potrebbe essere una via per migliorare lo stato delle cose? Vedo amici che, disgustati dalla scuola pubblica, si sono adoperati per cercare e animare una scuola parentale dove i bambini apprendono seguendo percorsi diversi. Non so se saranno validi, il tempo ce lo dirà. Ma hanno un costo e non tutti possono affrontarlo.

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↪ Il Pedante

In realtà, se la scuola non deve essere idolizzata, non deve esserlo neanche in negativo. È una parte del nostro tempo: giusto discutere le falle della sua idea e del suo sviluppo (come ho cercato di fare) ma anche non vederci un veicolo di perdizione (o di salvezza). Le soluzioni sono innanzitutto (e quasi sempre soltanto, per forza di cose) interiori.

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↪ Stefano Longagnani

Gentile @Il Pedante,
lo Stato della democrazia sostanziale tratteggiato in Costituzione non prevede «UNA entità che controlla TUTTO ciò che finisce nelle teste di TUTTI i giovani». Chi ha creato la scuola pubblica attuale (che fa esattamente così) non sono stati i costituenti. Il progetto dei costituenti era una scuola di Stato con impiegati dei docenti LIBERI di insegnare ciò che ritengono importante nel modo che ritengono migliore, per dare la possibilità a TUTTI, anche a chi a casa non ha una famiglia che lo può supportare, di incontrare intellettuali, adulti significativi, dando a tutti la possibilità, la possibilità, non l'obbligo, di venir in contatto con la musica, la matematica, le scienze, la letteratura, le lingue, ecc. Lo Stato, cioè la comunità nazionale, avrebbe solo l'importante funzione di fornire le strutture, gli stipendi, i soldi per i materiali didattici, ecc. I cittadini italiani selezionati per concorso e chiamati a insegnare avrebbero la libertà di insegnare non quello dettato dallo Stato, ma ciò che della propria disciplina considerano importante. Ci conforta infatti lart. 33 Cost. in cui è chiaramente garantito che «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.»
La comunità, tramite le articolazioni della amministrazione dello Stato, «detta le norme GENERALI sull'istruzione ed istituisce scuole statali per TUTTI gli ordini e gradi.»
Ma per preservare la libertà, SI CONVIENE CHE «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazionep, senza oneri per lo Stato.»
Ed è importante che «La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, assicur[i] ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.»
Cosa ha chiesto Confindustria (ente servo di chi comanda) per decenni? Ha chiesto che fosse abolito il valore legale del titolo di studio. Perché lo ha chiesto? Per due motivi. Che sono gli stessi due motivi a mio parere alla base della distruzione della scuola pubblica.
Il primo motivo è facile da capire. La scuola per un economista liberista è un "servizio" rivolto a tantissime persone. Perché quindi non privatizzarlo? Perché non erodere un po' di spazio all'intervento pubblico e lasciare libero lo spirito animale del mercato?
Il secondo motivo è altrettanto semplice. Se per l'accesso ai concorsi statali il diploma di laurea in economia preso a Urbino o a Sassari, ecc. vale tanto quanto una laurea in economia alla Bocconi, i figli di chi comanda devono, ahimè per loro, competere con il figlio dello spazzino, dell'operaio, del panettiere, ecc. anche per i posti da boiardi di Stato. Un altro modo per non trovare figli del popolo fastidiosamente in competizione coi figli di chi comanda (o dei loro tirapiedi) è distruggere la qualità della scuola pubblica, in modo da lasciare campo libero alle scuole private per ricchissimi (un esempio già presente in Italia è la scuola internazionale di Trieste, dove ha studiato ad esempio la vicepremier canadese).
In definitiva le scuole ci sono sempre state, verissimo. Ora la scuola è un luogo di indottrinamento, più che vero. Ma che facciamo? Ritiriamo lo Stato per poi, come conseguenza , dare spazio ai privati? O torniamo ad applicare la Costituzione? O ci mettiamo al applicarla nei settori dove non la si è mai attuata?

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Emanuele777

Letto tutto d'un fiato: è un articolo eccezionale, ne condivido ogni parola. Ci vuole del coraggio a sollevare apertamente certi temi, su cui si basa la nostra 'cività' moderna. Purtroppo la perdita dell'arte dell'apprendistato e una sorta di disprezzo dei lavori 'manuali' ci ha impoverito, con il risultato che (per assurdo) i pochi che oggi fanno mestieri cosiddetti 'umili', spesso si trovano a guadagnare di più di coloro che invece fanno i mestieri 'studiati'. Si è convinti che la gioventù debba essere passata solo sui libri (o peggio ancora, sui computer), e che usare le mani per imparare un mestiere sia cosa indegna.

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Giocontra

Sviluppa riflessioni che già avevo svolto, e con me alcuni spiriti affini incontrati in questi ultimi anni bui...
Il Pedante lo fa con la classe e la nitidezza di pensiero che lo contraddistinguono.
Grazie.

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Allegra

Pezzo grandioso. Vedo in certi passaggi Ellul.

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Luca

Articolo condivisibile dall'inizio alla fine e perfetto nell'inserire nel quadro generale due metastasi del mondo moderno, cioè l'abuso normativo che letteralmente crea professioni allo stesso tempo inutili e imprescindibili (decreto 231, privacy, requisiti ESG, certificazioni ISO...) e la funzione propagandistica della scuola (che non "istruisce", ma "educa": educazione all'ambiente, educazione sessuale, educazione civica...).
E tuttavia, sebbene possa sottoscrivere ciascuna parola di ciascuna riga, alla fine cosa ripeto giornalmente al mio figliolo? Di studiare la matematica e la chimica, altrimenti non passa il test di medicina, e se non passa il test di medicina poi non potrà fare il medico, e se non potrà fare il medico...
Questo per dire quanto è difficile far penetrare la razionalità in meccanismo profondi che abbiamo appreso sin da piccoli.

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Fabio

Non è che ricchi e potenti non boicottino la scuola pubblica, solo che il boicottaggio non consiste nel levare l'obbligo scolastico, che del resto non è appunto cosa buona in sé, ma nel tentare di sopprimere ciò che ha il potenziale di non essere semplice omologazione, ovvero le discipline in sé.

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Carlo

CARO SIGN. IL PEDANTE ,SE 60 ANNI FA NON AVESSI IMPARATO A LEGGERE A SCUOLA (CON LA M I T I C A MAESTRA MILITIELLO ) NON AVREI LETTO IL SUO ARTICOLO..... COME LA METTIAMO, ADESSO ......?

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↪ Emanuele777

Gentile @Carlo, una cosa non esclude l'altra. Si può andare alla scuola dell'obbligo e nel contempo imparare a un mestiere.

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Heautontimorumenos

Credo di condividere tutto.
Le devo l'illimpidimento di concetti che nella mia mente un disagio crescente, male arginato e perciò ostinatamente rimosso, unito a pigrizia e soprattutto al timore di riuscire demolito io stesso dalla demolizione dialettica dell'istituto cui sono entusiasticamente dedito da quattro lustri, offuscavano sino a rendermeli inaccessibili.
Non ho domande, se non il retorico invito a considerare con quale spirito possa presentarmi in classe, domattina.
Ciò, esattamente perché credo di condividere ogni Sua riflessione.
Non avrebbe dovuto andare così, nei miei piani...

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↪ Il Pedante

Gentile lettore, mi creda sinceramente dispiaciuto di averLa demoralizzata. Non era questo l'intento dell'articolo. Per il solo fatto di essere vivi nessuno di noi può sfilarsi dalla macchina contemporanea, indipendentemente dal ruolo e dalla professione. Credo semplicemente che una maggiore consapevolezza ci permetta di non essere complici delle sue storture peggiori.

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↪ Heautontimorumenos

Gentile @Il Pedante,
non si dispiaccia, non deve.
La ringrazio, invece: aprire gli occhi talvolta abbacina ma è benefico. Poi ci si adatta e si va avanti, nella maggiore eterodossia possibile...

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Giuberga

Si può proseguire, aumentando l'angoscia, che questa cultura basata su evidenze statistiche si rafforza e si espande nell'IA. Che ci governerà e guiderà verso lidi ancor meno umani. Urge dibattito, purtroppo.

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↪ e io cummo

Gentile @Giuberga, non mi preoccuperei troppo. Il presente e l'immediato futuro (e la scuola ne è un tassello) sono il racconto di una guerra psichica fra dominanti (giunti all'ammazzacaffè in quanto a ethos da proporre) e dominati. L'angoscia verso l'intelligenza artificiale, ennesima doratura sul filone fecale a noi destinato, ha un senso solo nel momento in cui non si riescono più a immaginare armi contro chi la impone e ne fa suo feticcio. Ma sarebbe buona educazione non giungere a quel punto: qui si parrà nostra nobilitate.

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