Beware of mucho texto.
L'istruzione universale e obbligatoria è un concetto recente. Non se ne ha traccia nella storia antica, nel medioevo e neanche in età moderna, con una sola eccezione: l'appello An die Radherrn aller stedte deutsches lands: das sie Christliche schulen auffrichtenn vnd halten sollen (1524), in cui Martin Lutero auspicava per la prima volta l'istituzione di una scuola pubblica obbligatoria rivolta a tutti. Il riformatore tedesco desiderava così da un lato scalfire il monopolio cattolico dell'istruzione delegandola alle autorità civili delle Städte, dall'altro consentire a ciascun fedele di attingere senza mediazioni al testo biblico secondo il principio della «sola scriptura» che nella dottrina luterana delle origini doveva «solam... regnare, nec eam meo spiritu aut ullorum hominum interpretari, sed per seipsam et suo spiritu intelligi» (Assertio omnium articulorum M. Lutheri per bullam Leonis X, 1520). Il concetto odierno di istruzione pubblica nasce su queste basi teologiche nella Prussia protestante, ma si sarebbe concretamente affermato ben più tardi, verso la metà dell'Ottocento, mentre ancora un secolo fa soltanto un quarto della popolazione mondiale sapeva leggere e scrivere. Se l'idea è giovane, la sua applicazione è dunque giovanissima. Tra tutte le idee moderne, è forse la più moderna.
Vista con gli occhi di oggi, questa verità disorienta. Da decenni i tassi di alfabetizzazione e di lauree figurano tra gli indici di sviluppo per eccellenza e sembrano così ovvi che nessuno se ne chiede più il perché, o perché le più prospere e raffinate civiltà del passato non li considerassero tali. Alcuni direbbero che un tempo non si capiva l'importanza di queste conquiste, ma altri troverebbero forse implausibile che proprio nessuno tra i filosofi più eccelsi, i filantropi più illuminati o i santi più misericordiosi ne avesse almeno intuito l'importanza. E che sia perciò difficile definire «conquista» ciò che fino a qualche decennio fa nessuno voleva proprio conquistare. Il caso è davvero unico. Mentre valori come la pace, l'abbondanza, la sicurezza, la salute e le arti sono da sempre riconosciuti e desiderati, la massima diffusione dell'istruzione scolastica è invece un obiettivo tutto contemporaneo, inedito eppure già universalmente percepito come «eterno». La sua forza dogmatica trascina tutti, persino i più conservatori, che pur criticando la scuola di oggi perché ostaggio delle ideologie del momento, professionalizzata, assediata da burocrazia e informatica, dimentica delle radici classiche e cristiane ecc. non dubitano invece della necessità che tutti ci debbano andare. Bisogna tornare indietro, sì, ma non troppo!
Il tema offre insomma un punto di osservazione prezioso sull'eccezione della modernità e invita a sondarne le credenze inespresse. Dal punto di vista popolare l'istruzione è associata alla sicurezza economica, al potere e al prestigio sociale. Questo nesso era percepito anche in passato, sennonché la causalità che sottende è inversa rispetto a ciò che di norma si intende: i ricchi erano istruiti in quanto ricchi, non ricchi in quanto istruiti. Sperare di ascendere alle classi superiori in virtù dell'istruzione sarebbe stato come credere di farsi monaco indossando l'abito proverbiale, o re appoggiando le natiche sui cuscini di un trono. I tanti dotti che hanno dato lustro alla storia erano miseri o abbienti, disprezzati o riveriti, servi o padroni indipendentemente dalla loro dottrina: il successo mondano dipendeva dalla famiglia, dal coraggio, dalla scaltrezza o dal crimine, mentre gli eventuali studi compiuti erano casomai una conseguenza degli agi, non la causa.
La prospettiva contemporanea distorce questa verità storica assumendo a norma gli anni eccezionali dell'alfabetizzazione universale durante i quali, però, il miglioramento delle condizioni materiali ha interessato tutti indipendentemente dal grado di istruzione e il - relativamente minimo - vantaggio sociale degli istruiti è stato imposto ex lege con l'introduzione e l'estensione del valore legale dei titoli. Lauree e specializzazioni sono così diventate trofei da remunerare affinché si autoavverasse la profezia dello studio che «conviene». Da un'indagine di recente pubblicazione emerge effettivamente una correlazione tra laureati e percettori di redditi medio-alti nei comuni italiani, ma più che la significatività tutto sommato modesta di questo nesso (R2 = 28,5%) colpisce il fatto che, con pochissime eccezioni, i comuni che si collocano sopra la linea di tendenza dei redditi appartengono alle regioni settentrionali mentre quelli del centro-sud ricadono puntualmente al di sotto di essa, a prescindere dal tasso di lauree. Ciò suggerisce che la ricchezza pregressa e contestuale conta più del grado di istruzione. L'esperienza conferma che anche nell'irripetibile periodo post-bellico i più benestanti erano istruiti perché provenivano da famiglie già benestanti o si posizionavano in contesti già floridi.
Il secondo problema è che anche la moneta dell'istruzione, come tutte le monete, è tanto più preziosa quanto più è scarsa. Se non all'opulenza e all'aristocrazia, gli scolarizzati del passato potevano almeno aspirare ai mestieri più comodi del segretario, dell'aio, del cerusico, dell'ingegnere o del notaio, ma ciò avveniva appunto in virtù del fatto che pochi potevano ricoprire quelle posizioni. È dunque evidente che un tale vantaggio decade se la scuola è imposta a tutti. Negli ultimi decenni, è vero, le società industrializzate hanno creato un'offerta senza precedenti di posizioni tecnico-scientifiche e amministrative, ma le ferree leggi dell'inflazione hanno presto ripreso il loro dominio. Invece di attenuarsi nell'abbondanza, il vantaggio scolare ha finito per spostare i suoi requisiti sempre più in alto allungando insensatamente gli studi con l'obiettivo taciuto di mantenere competitiva l'arena. Per restare negli ambiti a me noti, oggi per insegnare la musica non è più sufficiente conoscerla e praticarla con perizia ma bisogna anche sostenere esami di psicologia, informatica, recitazione, filologia, diritto, fisiologia (sic) ecc. Mia moglie si è laureata per prendere il posto di suo padre, che svolgeva le stesse mansioni con la sola licenza media... guadagnando il doppio di lei. Dove ieri non erano richiesti studi, oggi bisogna avere il diploma; dove bastava il diploma ci vuole la laurea; dove la laurea, la specializzazione; dove la specializzazione, il master, il dottorato, la «formazione continua» ecc. alimentando una tenia che ostacola e reprime le forze più fresche della società.
Mentre milioni di persone trascorrono (se va bene) un terzo delle loro esistenze abbuffandosi di nozioni irrilevanti, inutili e destinate a un oblio quasi istantaneo, eserciti di laureati reclamano senza successo posizioni e gratifiche all'altezza delle loro fatiche, vittime di una sciagurata retorica che rappresenta lo studio come un merito, un diritto e un dovere, mai invece come uno strumento tra i tanti, qual è. Una credenza antica (lo si è visto, poco fondata) è così degenerata in ideologia: chi più studia n'importe quoi è più «bravo» e la società gli deve un premio. Da qui discende una cascata di effetti negativi. Il grado di istruzione si è imposto tra gli obiettivi più iconici delle lotte per l'emancipazione di classe, sennonché nel ripetere la solita inversione causale si è certificato il primato sociale degli istruiti invece di reclamare parì dignità a tutte le funzioni sociali, come sarebbe stato più intelligente e più giusto fare. Nell'implicare che chi ha un'istruzione è migliore, si è certificato che chi ne è privo è peggiore. La storia degli ultimi decenni ha fatto almeno economicamente giustizia di questo equivoco tracciando una parabola in cui ieri i protagonisti delle classi meno scolarizzate si sono giovati dell'accresciuta sicurezza economica (quindi non dell'istruzione) per far sì che i propri figli accedessero agli studi superiori, mentre oggi quei figli, ottenuti i titoli, si trovano a godere di condizioni materiali mediamente peggiori di quelle dei loro genitori. Conquistato il symbol, hanno perso lo status. Arraffato il fumo, gli è sfuggito l'arrosto.
L'istruzione scolastica a tutti i costi e per tutti ha appiattito i criteri di valore, le prospettive, le vocazioni. Oggidì è quasi automatico subordinare la qualità umana e sociale di un individuo ai suoi successi scolastici, anche in termini predittivi: chi non studia, si pensa, «farà una brutta fine». Mai prima d'ora si era imposto un canone così angusto e monomaniaco, un one size fits all di matrice così tanto zootecnica e così poco umanistica. Ciò comporta innanzitutto uno stigma precoce a carico di chi, per ragioni personali o ambientali, è poco vocato agli studi, avverando così la profezia della sua «brutta fine» o quantomeno condannandolo ad anni di frustrazioni e fallimenti che avrebbe potuto meglio impiegare in attività e apprendistati più consoni alle sue inclinazioni. Se è da apprezzare lo sforzo dei pedagoghi di «valorizzare» i talenti di ognuno, non si può fingere che questo sforzo cozzi contro il dogma della scuola dell'obbligo come luogo formativo par excellence dove ultimamente lo stigma si è addirittura medicalizzato: ora la scarsa attitudine all'apprendimento integra una gamma di «disturbi specifici» (DSA), sicché chi non si conforma ai programmi è «disturbato» oltreché inadeguato, con le immaginabili conseguenze sulla percezione di sé e del proprio futuro.
Dall'altro lato, e per gli stessi motivi, la scuola si è imposta come unica concepibile prospettiva di sviluppo dei giovani. È altrettanto comune ritenere che un adolescente minimamente dotato di intelletto e di volontà debba procedere a ogni costo negli studi, ché altrimenti sarebbe «sprecato». Questa visione appare logica ma è tragicamente disfunzionale, perché implica di converso che tutte le professioni e i ruoli che non richiedono una scolarizzazione canonica – ma ciò nondimeno perizia, esperienza, passione, vocazione, serietà, puntualità, dedizione ecc. – siano destini di ripiego da lasciare a chi non possiede i requisiti minimi per ripetere quattro nozioni: «se proprio non vuoi studiare, impara almeno un mestiere!». Ciò implica fatalmente un abbassamento del numero e della qualità degli addetti ai settori manuali e artigianali, con la nota conseguenza di faticare vieppiù a reperire professionisti capaci e di vedere mestieri indispensabili scomparire o finire nel monopolio di improvvisati e disonesti.
Simmetricamente, si gonfiano invece le fila degli «studiati» per inerzia, per il solo fatto cioè di possedere una qualche dote mnemonica e metodica ma senza una vocazione reale. Costoro, oltre a sottrarre forze e intelligenze ai mestieri stupidamente detti «umili», trovano di rado una collocazione professionale coerente con i loro studi e finiscono per ingrassare il già bulimico terzo settore e i connessi «bullshit jobs» descritti da David Graeber. Non si può ignorare il nesso potente tra la matta e disperata corsa agli studi superiori purchessia e la crescita metastatica degli impieghi improduttivi «di concetto» che assorbono i frutti di quella corsa per darle un senso e arginare la disoccupazione. Ecco proliferare gli apparati burocratici, le procedure, le consulenze, gli organi di supervisione e supporto, i promotori, i facilitatori, i controllori, i pianificatori, i formatori, i relatori, i certificatori, i sanzionatori, i digitalizzatori, le facoltà universitarie e le funzioni aziendali dai nomi inglesi che non esistevano fino all'anno prima. Questa massa plumbea di «competenze», che non avrebbe il benché minimo mercato se non fosse imposta per legge, pesa come un cadavere sul residuo mondo produttivo e lo soffoca con oneri procedurali, consulenziali e formativi al solo scopo di mantenere in vita se stessa. Se è dunque vero che oggi bisogna studiare di più perché «è tutto più complesso», quell'inutile complessità è anche figlia e funzione dell'inutile proliferare degli studi.
***
Altre sono le apologie di ordine prettamente ideale. Secondo una tesi classica, una popolazione largamente istruita sarebbe più consapevole dei determinanti tecnici e culturali che influenzano la propria esistenza e riuscirebbe così a operare scelte migliori per sé e per la collettività. La complementarietà di democrazia e istruzione è iscritta nelle civiltà costituzionali: affinché il popolo eserciti una sovranità effettiva occorre che possegga gli strumenti necessari per acquisire e interpretare le informazioni che riguardano il governo dello Stato. Ciò varrebbe anche quando la sovranità gli è negata, perché le nozioni e il metodo appresi negli anni scolastici lo proteggerebbero dalle mistificazioni del potere. L'istruzione dovrebbe dunque essere imposta a tutti per il bene di tutti, indipendentemente dai suoi vantaggi materiali diretti.
Per quanto splendidi a parole, anche questi argomenti scricchiolano nei fatti. Si potrebbe obiettare che 1) a differenza di quella elitaria del passato, l'odierna istruzione superiore di massa fornisce prevalentemente contenuti tecnici mentre quella di base, inclusi i licei, offre una propedeutica blanda e dispersiva. La scuola moderna non produce dotti né tantomeno saggi, né potrebbe mai farlo dovendosi serialmente rivolgere a moltitudini eterogenee, sicché gli istruiti dei tempi nostri imparano poco di tutto nelle scuole preparatorie e tutto di poco nelle università. I più istruiti sono tecnici di alto livello, conoscono il come ma non il cosa, ed è perciò del tutto fuorviante il paragone con la vastità, la profondità e la completezza degli antichi cursus studiorum e la consapevolezza di sé e del mondo che vi si acquisiva. In quanto alla democrazia, 2) la diffusione dell'istruzione a tutti i livelli è stata perseguita con successo anche da Paesi non democratici come la Cina, le monarchie del Golfo, l'Unione Sovietica e le nazioni a est della cortina di ferro, senza che ciò ne abbia intaccato i regimi, mentre 3) nel mondo «libero» proprio la stagione dell'alfabetizzazione universale e della democratizzazione dell'accademia ha visto vette di propaganda, di menzogna pubblica e di impoverimento dialettico mai sperimentate prima.
Gli imparati dell'Occidente hanno creduto senza batter ciglio alle provette irachene, alle fosse di Tripoli, alle ciarle scientistiche, ai predicozzi dei ragionieri e insomma a ogni favola scodellatagli dai giornali. Né si può proprio dire che la maggiore istruzione abbia vivacizzato lo scambio culturale e moltiplicato gli apporti al sapere. «Negazionista» e «revisionista» sono solo alcuni degli epiteti con cui si tappa la bocca di chi osa applicare l’osannato «metodo critico» alle nozioni gradite ai potenti. Mai tanto quanto nell'epoca in cui tutti vanno a scuola si elargiscono accuse di ignoranza e di analfabetismo «funzionale» (non potendo più invocare quello stricto sensu) e l'ingiunzione di credere fideisticamente agli esperti, cioè a chi ha studiato di più. Sennonché anche il primato culturale di questi ultimi è funzione dei giochi di forza e vale solo se è asservito all'opinione «giusta». Chi la pensa diversamente, fosse anche un premio Nobel, precipita nello stesso girone degli incompetenti e riceve sberleffi, richiami, radiazioni, sanzioni. Questa è la condizione della civiltà più scolarizzata di sempre, questi i suoi frutti di libertà, pluralità, indipendenza di giudizio.
Più in generale, 4) se davvero gli apparati di potere considerassero l'istruzione delle masse una pericolosa incubatrice di consapevolezza e di critica che limita il loro arbitrio, perché vorrebbero promuoverla fino a renderla obbligatoria? Non sarebbe più logico che la vietassero, o almeno che non la incoraggiassero? E se davvero la scuola desse agli umili gli strumenti per insidiare i privilegi di ricchi e potenti, perché questi ultimi non la boicottano? Summa quaestio, si capisce, che il lettore non mancherà di applicare anche al giornalismo, alla libertà di parola, al mercato, al processo elettorale...
***
Da queste ultime contraddizioni occorre muovere i passi per dipanare il mistero moderno della scuola universale. La spiegazione più semplice è di tipo economico. Le rivoluzioni industriali hanno reso necessaria la formazione di un numero crescente di addetti alla «megamacchina» del processo produttivo: tecnici della chimica, della meccanica, dell'elettronica, dell'edilizia, del diritto, dell'amministrazione, dell'economia, del commercio, della medicina, della psicologia, delle lingue straniere ecc. Il mastodontico sforzo didattico avviato in quegli anni non è dunque indirizzato a produrre l'elevazione intellettuale e civile che i più filantropi ascrivono alla scuola, per quanto il permanere di (sempre più labili) residui umanistici ereditati dal passato abbiano talora alimentato questa ambizione. Ma la spiegazione non basta. L'asservimento della scuola per tutti allo sviluppo produttivo non è infatti che un capitolo, né il primo né l'ultimo, di un asservimento più vasto. Si è anzi visto che l'attuale ipertrofia scolastica non è granché funzionale al bene economico della nazione e integra un aspetto della burocratizzazione, della cattiva occupazione, del declino industriale e della crescente dipendenza dalle produzioni e dalla manodopera importate dall'estero. Eppure si insiste a predicare «più scuola». Perché? Evidentemente agisce un movente ideologico.
Come molte agiografie moderne, anche quella scolastica glorifica l'oggetto senza curarsi dei suoi attributi. Esiste solo «la scuola» e non le scuole, e se casomai queste ultime non corrispondono all'idea platonica di un luogo in cui le masse si elevano e si emancipano, allora non si tratta di «vera scuola». L'onestà vorrebbe invece che si considerassero i fenomeni e non i pensieri sognati, per quanto nobili. Siccome l'insegnamento esiste da millenni in forme sempre diverse, anche la scuola moderna non è la stessa di cento o di vent'anni fa e la si può dunque solo identificare col suo metodo, cioè appunto col fatto di essere obbligatoria per tutti fino a una certa età e desiderabile per tutti a seguire. Nella sua essenza è dunque un'infrastruttura, un vaccinatore di idee. L'attuale modello scolastico si è istituzionalizzato con le ferrovie e si è consolidato con le autostrade, l'elettrificazione e gli acquedotti: è un'opera di cablaggio ideale che al pari della stampa e della televisione fa da controcanto all'innervazione materiale dello Stato centralistico contemporaneo.
È perciò ozioso discettare di contenuti e programmi, i quali non possono che riflettere di tempo in tempo l'agenda e i bisogni del padrone dell'infrastruttura, sia esso lo Stato o chi comanda per suo tramite. Pretendere che l'infusore scolastico accolga temi o visioni invise a chi lo governa sarebbe come chiedere a un imprenditore di produrre per la concorrenza! All'inizio e specialmente nei Paesi giovani come il nostro, le scuole servivano a diffondere la conoscenza della lingua nazionale. Un ruolo che si può dire ancora attuale se si allarga l'accezione della grammatica anche ai giudizi, ai miti buoni e cattivi, a eventi e personaggi storici «imprescindibili», alle competenze «di base», ai comportamenti «virtuosi», alle battaglie «giuste». Nelle aule si imprime fin dall'infanzia una lingua comune di riferimenti che tutti devono padroneggiare. Sono insieme il depositum della tradizione civile e la terra fertile in cui gettare i semi delle idee nuove destinate a farsi identità e coscienza: anche e soprattutto le più estreme, quelle che più difficilmente metterebbero radici nella popolazione adulta. Lì si struttura il campo cognitivo del citoyen che prende a cuore certi temi e ne tralascia altri, sottintende ciò che non si deve discutere, adotta determinati criteri di verità e non altri, si attiva pavlovianamente all'udire certi nomi, certe vicende storiche, certe astrazioni auto-esplicative, nel bene o nel male. Lì si traccia il disegno neurale e si innestano i radicali a cui si legherà il discorso pubblico, che altrimenti scivolerebbe in superficie perché poco comprensibile e alieno. Per leggere un articolo di giornale bisogna certo conoscere l'alfabeto, ma per esserne influenzati occorre che si abbia già in sé un bagaglio di τόποι condiviso con l'autore. Solo così si possono conquistare i lettori con poche righe o anche con un solo slogan, a volte con una sola parola! Si resta perciò esterrefatti all'udire che la scuola offrirebbe un antidoto alla manipolazione, essendone al contrario il fondamento, la propedeutica, il requisito.
Un collaterale di questa operazione è la mediocrità. Giacché l'omologazione degli intelletti non è né un rischio né un difetto, ma il primum movens dell'universalismo scolastico, i contenuti e i ritmi dell'insegnamento debbono assestarsi su un livello accessibile a tutti: cioè minimo. Il proposito astrattamente nobile di non lasciare indietro alcuno si traduce nel bisogno di tirare indietro qualcuno, cioè i pochi davvero vocati allo studio. Un prezzo accettabile se la priorità è appunto quella di comprimere tutti nello stesso stampo di cittadinanza (si è anche arrivati a vedervi una qualche forma di solidarietà e di addestramento sociale), drammatico se si vuole coltivare il massimo di ciascuno per il bene di tutti. Per quanto ci si sforzi al contrario, dove vige una siffatta istruzione non può esserci educazione: non si possono ex ducere le predisposizioni irripetibili e insieme imporre ripetitivamente un ordine (instruere) predisposto nel cosa e nel come. Si chiarisce forse così una correlazione paradossale dell'ultimo secolo, durante il quale al crescere degli istruiti e del grado di istruzione si è accompagnato un deterioramento continuo delle produzioni culturali. È difficile non distinguere il marchio del nozionificio erga omnes nell'impoverimento delle arti, nella musealizzazione della ricerca filosofica, nello stato penoso degli «intellettuali» prevedibili e disciplinati che rimasticano da decenni le stesse cantilene.
Quanto scritto vale per la scuola dell'obbligo e per i successivi corsi superiori, sennonché nei secondi lo stereotipo didattico deve adattarsi ai percorsi vocazionali senza soffocarli del tutto e mantenere un equilibrio non sempre facile tra efficacia professionale e requisiti di adesione ideale (vedi i dibattiti recenti sul ruolo del personale sanitario). La dilagante istruzione accademica ha specialmente alimentato il fenomeno inedito della semicultura, ancora poco e male analizzato ma di massima centralità per il buon funzionamento della macchina propagandistica. Il semicolto è un individuo che frequenta o ha frequentato un corso di studi universitari (uno qualsiasi) e in ragione di ciò si presume titolare di una capacità superiore di comprendere la realtà (tutta) e di distinguervi il vero dal falso. Questa curiosa credenza è con tutta probabilità figlia di un'appropriazione semantica, si indovina in essa l'eco del prestigio intellettuale di cui godevano gli eruditi delle accademie antiche, sennonché in queste ultime si esercitavano effettivamente le arti retoriche, filosofiche, teologiche ecc. utili per bene interpretare fatti e proposizioni, mentre gli atenei moderni sono scuole di specializzazione in cui si impartiscono le basi di una professione. Dove un tempo si speculava sulle conoscenze, oggi le si acquisisce e le si applica in un'ottica professionalizzante che non risparmia neanche i curricula umanistici.
In questo equivoco tollerato e invero incoraggiato dalla società il semicolto sguazza e troneggia tra gli indottrinati. Egli è, tra tutti, la preda più facile da condizionare. In generale perché la sua presunzione di sapere lo mette al riparo dal dubbio collocandolo socraticamente ai vertici dell’ignoranza e della creduloneria; in senso tecnico perché, avendo egli confuso il linguaggio della conoscenza con la conoscenza stessa, gli si può vendere qualsiasi «verità» agghindandola coi ninnoli dell’accademia: numeri, calcoli, tavole, istogrammi, reminiscenze da manuale, cognomi venerabili, acronimi anglotecnici, riviste reputate ecc. Siffatte presentazioni strizzano l’occhio al semicolto e lo chiamano in causa offrendogli la gloria di tradurre il messaggio agli illetterati. Che stia casomai traducendo un falso è un problema che non può sfiorarlo, giacché l’unica prova ontologica che gli sta a cuore è quella del proprio creduto primato culturale: certificato dall’istituzione con un pezzo di carta e una corona d’alloro, destinato a riconfermarsi nella rincorsa del verbo istituzionale, non avendo altre basi. Il semicolto non si limita dunque a credere, ma è un diffusore attivo della propaganda che rilancia con una motivazione e uno zelo ignoti ai meno istruiti.
***
È difficile immaginare oggi un mondo senza la scuola per tutti. Per quanto di recentissima introduzione, essa ha già plasmato in profondità l’immaginario, l’identità e i rapporti produttivi e sociali. L’istruzione seriale riflette e prepara la serialità dell’industria, dei regolamenti, dei valori e dei gusti in scala nazionale e globale. Se è dunque poco serio esercitarsi in scenari (contro)riformistici, si possono però almeno nominare i problemi di questo esperimento sociale e tentarne un bilancio. Non per contestarne gli scopi desiderati, ma i risultati. È indubbio che l’eccezione umana della civiltà poggi sulle conoscenze acquisite e che queste debbano trasmettersi per potersi conservare e sviluppare oltre l’orizzonte mortale. Ed è perciò vitale che il processo di trasmissione dei saperi sia efficace, diffuso e mirato a realizzare le vocazioni di ciascuno nell’interesse proprio e della collettività. La questione è se l’attuale sistema scolastico soddisfi al massimo questi requisiti o se non sia piuttosto un compromesso viziato da meno confessabili istanze. In un dibattito possibile ci chiederemmo:
1) in quanto al modo, se davvero gettare indiscriminatamente tutti per almeno un decennio nello stesso carro bestiame formativo sia il modo migliore di sviluppare le forze e le vocazioni di cui la società ha bisogno. Fino a meno di due secoli fa l’istruzione collettiva era un’eccezione, non la norma. La si praticava ad esempio nei monasteri a beneficio dei fanciulli avviati alla carriera religiosa o di quelli intellettualmente dotati ma privi di mezzi, negli studia e nelle università. La relazione formativa di eccellenza era piuttosto quella tra maestro (didàskalos) e discepolo (mathetés) che permetteva da un lato di adattare i ritmi e la direzione dell’insegnamento all’allievo, dall’altro di trasmettere anche la personalità del docente, esempio di un ethos del sapere che è parte viva del retaggio culturale. Quasi tutti i grandi nomi che occupano i programmi scolastici, da Dante a Leopardi, da Aristotele a Pascal, si formarono in questo modo senza mai mettere piede nei corrispettivi delle nostre scuole. Le professioni non strettamente intellettuali si insegnavano invece sul campo con gli apprendistati: espedienti di sfruttamento lavorativo per l’ottusa visione monoscolastica attuale, percorsi formativi anche culturalmente ricchi (e pagati) per i nostri antenati. Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci e il Borromini, per citarne tre tra i moltissimi, coltivarono il loro genio partendo dalle botteghe senza mai fare un solo giorno di scuola (il terzo a nove anni era già in cantiere), mentre a noi non basterebbero mille anni sui banchi per eguagliare un’unghia di ciò che hanno realizzato. Il Filarete diventò ingegnere fondendo il bronzo nel laboratorio del Ghiberti; il Brunelleschi lavorando alle dipendenze di un orafo; Antonio Vivaldi, Domenico Scarlatti, Armand-Louis Couperin e molti altri composero musica divina studiando coi rispettivi padri; gli Amati, Antonio Stradivari e Guarnieri del Gesù impararono in falegnameria ciò che i migliori scienziati di oggi faticano a decifrare. Questi e altri esempi, dai più clamorosi ai più ordinari, testimoniano l’esistenza di sistemi non scolastici di trasmissione e di accrescimento di saperi anche complessi e raffinati, in certi casi eccelsi. Insomma, a inclinazioni diverse corrispondevano in passato percorsi diversi, uno dei quali era appunto la scuola come la conosciamo oggi: utile per certe carriere ma non per altre, adatta a certe persone ma non ad altre. L’avere rinunciato a integrare queste lezioni nella pedagogia moderna, con i risultati e i problemi descritti, invita a domandarsi,
2) in quanto allo scopo, quanto l’odierna standardizzazione delle strategie formative risponda anche a un bisogno politico di formare, riformare e consolidare la polis con-formando i suoi membri. Gli obblighi scolastici e l’ordinamento oggi in vigore nascono in seno alla Rivoluzione francese col dichiarato scopo di far sì che i giovani «traités tous également, nourris également, vêtus également, enseignés également» formassero quasi eugeneticamente «une race renouvelée… séparée du contact impur des préjugés de notre espèce vieillie». L’istruzione obbligatoria primaria doveva precisamente imprimere lo stampo dello Stato («un moule républicain»): solo infatti «dans l'institution [scolaire] publique... la totalité de l'existence de l'enfant nous appartient; la matière... ne sort jamais du moule; aucun objet extérieur ne vient déformer la modification que vous lui donnez» (L. M. Le Peletier, Plan d'éducation nationale présenté à la Convention nationale par Maximilien Robespierre, 1793, corsivo mio). Per quanto mai più espressa così brutalmente, l’impostazione giacobina è sopravvissuta nei fatti perché forse inscindibile dalla forma-scuola in cui ha preso corpo. Oggi, è vero, vige la democrazia (come nella Francia del 1793...) e cambiano forse i contenuti non codificati della «morale républicaine», ma non il rischio di essere «dénoncé par la surveillance, et puni selon la gravité du délit» per il docente che se ne allontana (Décret Bouquier, sect. II, art. 2, 1793). Sicché chi sogna una scuola «diversa» chiede nel migliore dei casi una cosa impraticabile, nel peggiore di imporre con gli stessi mezzi la propria dottrina. Ma la fortuna di questo sistema non si spiegherebbe se non considerassimo anche,
3) in quanto al senso, la mitografia popolare che si è costruita attorno alla scuola per tutti e in particolare la convinzione che essa sia la via regia dell’emancipazione dei deboli. Senza ripetere qui le fallacie concettuali e fattuali di una simile credenza, il suo peccato originale si riassume nell’avere accettato l’idea terribilmente classista che l’istruzione sia un privilegio e dunque nella conclusione, impossibile per logica e definizione, che con la sua universalità il privilegio si sarebbe esteso a chiunque. Risultato: nel reclamare l’orpello di ricchi e potenti invece di metterne in discussione il simbolo e fondare la dignità e la gratificazione delle persone su cose più serie, le masse si sono lasciate sagomare e stipare fin dall’infanzia nelle mangiatoie ideali del Robespierre di turno e, per buona misura, hanno anche preteso di farcisi rinchiudere a doppia mandata. Nell’inseguire l’idolo di una cultura abborracciata si sono fatte soggetti e complici di una massificazione culturale che vomita conformismo e luoghi comuni. Nel confondere le nozioni ready-made con la fatica del conoscere si sono lasciate intortare ogni giorno dalle cattedre dei notiziari. E nell’insistere che tutti dovessero riscattarsi con gli studi hanno gettato alle ortiche patrimoni plurisecolari di abilità maturati nelle famiglie e nei territori. La promessa del «salto di classe» con cui la scuola ha sedotto le generazioni si fonda precisamente sull'etica liberale dell’individuo-monade che non deve essere immeritatamente «premiato» o «punito» dal suo retaggio, quando in realtà sarebbe del tutto funzionale che i saperi si conservassero, si comunicassero e si accrescessero innanzitutto nella viva quotidianità della casa paterna e dell'ambiente, quando è possibile. In quanto poi all’emancipazione, c’è davvero da interrogarsi sull’indipendenza dei milioni che hanno studiato mezza vita per compilare fogli di Excel, applicare procedure e partecipare a riunioni, che non sanno più produrre alcunché e campano (sempre peggio) appesi ai baracconi delle burocrazie pubbliche e private, alla mercé di chi può staccarne la spina.
In conclusione, non si può né giudicare né, qualora lo si potesse, riformare la scuola di oggi senza riconoscere la sua profonda integrazione con le aspirazioni declamate, sognate o inconfessate del modello di civiltà di cui è lo specchio (non l'anticorpo). Considerandola così, in termini contingenti e non totemici o ancora peggio salvifici, si riuscirebbe a leggere nelle sue crepe le crepe di quel modello e immaginare almeno una narrazione diversa. Dopo tanti anni, forse è possibile farlo.
Lascia un commento