Mi sono talvolta trovato nella scomoda posizione di dover giustificare il mio mestiere di jazzista. Se mai si trattasse di una colpa, dichiaro a mia discolpa di essere un assai mediocre jazzista. Al conservatorio non ho studiato jazz e nemmeno lo strumento con cui lo suono. Ma mi piace. Ho incominciato a suonare jazz e continuo a suonarlo perché mi dà da vivere e mi piace. E mi piace perché trovo che abbia senso.
Capire il jazz e il suo perché è complicato da una serie di considerazioni che con la musica hanno poco a che fare. C'è chi lo evita perché è l'espressione di una civiltà culturalmente povera che si è imposta con le armi e coi soldi. Chi perché è diventato la bandiera di una certa radical-sciccheria che lo ascolta per darsi un tono da connoisseur. Chi perché disturbato dalle biografie di certi suoi astri. Chi perché rigetta la modernità in ogni sua forma. Chi per motivi razziali. A questi critici si potrebbe suggerire di concentrarsi piuttosto sui caratteri estetici della musica, ma sarebbe ingenuo e scorretto. Tutte le espressioni sono forgiate, motivate e influenzate dal contesto, e nel caso del jazz questo è tanto più vero in quanto si è sviluppato nel secolo e nella nazione che più di tutti hanno visto trionfare il mercato e la propaganda. È indubbio che la ricerca del profitto abbia orientato le scelte degli artisti e i gusti del pubblico. È indubbio che il jazz sia stato un ambasciatore dell'impero a stelle e strisce. Ma non è stato così fin dall'inizio. Non è nato nella testa di un discografico, né sui tavoli della CIA.
Come recitano i manuali, il jazz esordisce all'inizio del secolo scorso in un luogo preciso: la città di New Orleans in Louisiana, già colonia francese divenuta prospera come porto fluviale nel corso dell'Ottocento e poi decaduta con lo sviluppo della rete ferroviaria nazionale. A New Orleans era presente una nutrita comunità di afroamericani legati alla coltivazione del cotone ma anche creoli, irlandesi, tedeschi, italiani, ebrei, russi, polacchi, cinesi. Pur nella sua decadenza, la città continuò a celebrare i vecchi fasti specialmente con la musica degli ensemble che accompagnavano festività religiose e civili, rappresentazioni teatrali, serate danzanti, viaggi fluviali. Per un insieme di cause politiche e socio-economiche, questa esplosione musicale fu più che altrove segnata dal ruolo della comunità nera, qui particolarmente coesa e dunque capace di mantenere vivi ritmi, forme, stili di esecuzione e strumenti delle terre di origine.
Da questi due ingredienti, l'apporto esotico e la funzione sociale, nascono quasi tutte le innovazioni musicali della storia e il jazz non fa eccezione. Il primo dei due è per così dire il combustibile che ha periodicamente spinto le tradizioni ormai spompe fuori dall'empasse della ripetizione. Anche la musica, come altri linguaggi, si evolve secondo i canoni dell'interferenza linguistica, accogliendo cioè elementi di usi e tradizioni diverse sul proprio sostrato. Così Bach integrava l'arte italiana del concerto grosso nel suo contrappunto; così Scarlatti jr. rinnovava la letteratura clavicembalistica infondendovi i ritmi e gli stili che aveva udito in Spagna, a loro volta assorbiti dall'incontro con la civiltà araba; così Chopin innestava nelle forme classiche le atmofere e i ritmi della nativa Polonia; così i maestri russi portavano nuova linfa alla sinfonia europea. Nel caso di New Orleans l'elemento africano, che negli stessi anni suscitava anche l'interesse dei compositori classici, era già stato «addomesticato» dalla lunga permanenza in America e si innestava su un sostrato a sua volta ibridato – mancandone uno strettamente autoctono – dagli apporti popolari caraibici ed europei. Tra questi ultimi non sempre si sottolinea il contributo degli italiani e in special modo dei siciliani, forti di un'impareggiata diffusione della pratica musicale tra le classi popolari. Trascorso più di un secolo, ancora oggi restano il gruppo regionale forse più rappresentato tra i jazzisti nostrani.
Il secondo ingrediente, la funzione sociale, offre al musicista l'ispirazione, l'occasione e la committenza. Nel vincolarlo al gradimento di un pubblico lo salva da sé e lo costringe a coltivare i suoi talenti e la sua ricerca nel più vasto quadro di un'espressione collettiva che abbraccia le arti, le aspirazioni, la quotidianità e i miti del tempo. L'arte che non rifiuta il confronto col pubblico lo arricchisce e si arricchisce senza tradirlo, immortala le espressioni migliori di una civiltà diventandone un documento vivo.
Quando abbandonai gli studi di composizione classica per dedicarmi all'apprendistato jazzistico non pensavo a queste cose. Del jazz mi avevano colpito la ricchezza delle armonie e dei movimenti ritmici, specialmente del pianoforte, l'incastro delle forme e il suono legnoso e possente del contrabbasso, che allora non suonavo ancora. Un amico trombettista (siciliano, ça va sans dire) mi invitò ad assistere alle prove di un club della mia città dove uno stagionato pianista mi consegnò un volume di spartiti da fotocopiare. Quanto fu grande la mia delusione quando scoprii... che non c'erano le note! In effetti, salvo casi particolari, nel jazz si improvvisa tutto partendo da un tema e da uno schema di accordi. Solo molti mesi dopo mi resi conto che quella novità era in realtà «pascolianamente» antica, trattandosi dello stesso sistema del basso continuo ancora in uso fin quasi a tutto il Settecento, dove il liuto o uno strumento a tastiera improvvisano l'armonizzazione e le risposte al canto partendo da una serie di sigle. Per chi è abituato alla completezza dello spartito è un bel trauma, ma storicamente la nostra cavillosità scrittoria (ed esecutiva) è più un'eccezione che una regola se, come sembra, greci e latini non avevano neppure un sistema di notazione.
Come tutti gli studenti di composizione, anch'io mi ero presto trovato a dover digerire il boccone ostico della musica contemporanea e atonale. Proprio e non casualmente negli stessi anni in cui il jazz andava alla conquista degli Stati Uniti e del mondo, alcuni protagonisti della musica colta avevano deciso di rompere la gabbia della tonalità per sperimentare nuove relazioni melodiche e armoniche, la più famosa delle quali è la dodecafonia. La spiegazione dei musicologi e del mio maestro, che quel passaggio sarebbe stato l'esito inevitabile e «naturale» di un'evoluzione armonica ormai giunta ai suoi esasperati limiti di sperimentazione, non mi ha convinto né allora né oggi. Pur avendo avuto a disposizione un secolo di tempo e potenti mezzi di diffusione di massa, nessuna delle alternative al sistema tonale si è imposta alla comprensione, né figuriamoci al gradimento, di un pubblico di non specialisti. Le nuove lingue sono nate morte e la «lingua madre» della tonalità ben temperata è rimasta viva: non solo perché appunto non dà segni di declino ma anche perché, come tutti gli organismi vivi, continua a evolversi pur con la lentezza e la circospezione di una natura che «non facit saltus». Già allora ebbi l'impressione che l'equivoco di quel funerale anticipato dovesse spiegarsi con argomenti non estetici, ma sociali. Fu celebrato a porte chiuse tra le mura dei conservatori da parte di artisti per la prima volta convinti di poter coltivare, sopprimere e generare per sintesi i linguaggi musicali con procedimenti e argomenti forse raffinati, forse anche formalmente coerenti, ma del tutto sciolti dalle ancore della tradizione e del pubblico. L'esito «naturale» della musica contemporanea è in realtà dunque una reazione ottenuta in laboratorio, un composto troppo instabile per reggersi nella realtà, un'evoluzione verso paradigmi futuri perseguita rescindendo i vincoli col presente. Senza addentrarci nei motivi storici, sociali e forse anche politici di questo divorzio tra artisti e società – o sul perché la società abbia voluto a dispetto di tutto riconoscersi un'arte così autoreferenziale – osserviamo che proprio le spose ripudiate, pubblico e tradizione, furono invece le levatrici della nuova arte di New Orleans.
Il jazz si trovava nel posto giusto, nel momento giusto e nella condizione giusta per raccogliere il testimone abbandonato dalla musica colta. Era difficile trovare un candidato migliore: tradizionale, ma non retrogrado; inaudito, ma non inaudibile; popolare, ma raffinato. Nel suo DNA filtrava patrimoni disparati e anche ben più antichi dei più antichi modelli europei per ottenere un genere nuovo eppure perfettamente compatibile con i codici linguistici del pubblico occidentale, tanto più ecumenico in quanto espressione di un'identità sfaccettata e plurale. La gavetta nelle piazze, nei locali pubblici e nelle sale da ballo garantiva la fedeltà al pubblico. Le bettole e i tuguri, quando non i bordelli, frequentati dai primi jazzisti suonavano come una risposta iperbolica alle torri d'avorio delle accademie in cui si elaboravano gli incompresi codici aritmici e atonali. Sopra a tutto incise la qualità di questi artisti, enfants prodiges capaci di imporsi per la padronanza virtuosistica degli strumenti, l'invenzione timbrica, il genio compositivo, la ricettività culturale.
Un indizio della denegata concorrenza tra la musica «alta» e il primo jazz, nonché delle pretese del musicista colto novecentesco di prevalere sul pubblico, emerge da una notizia riportata dal musicologo Ted Gioia, secondo il quale alla fine del XIX sec. la American Federation of Musicians avrebbe intimato ai suoi membri di non praticare il genere ragtime (uno degli antenati più prossimi del jazz) perché «i musicisti sanno ciò che è buono e, se le persone non lo sanno, glielo dobbiamo insegnare». Oggi sappiamo come è finita, e perché. Al di là dei suoi aspetti più coloriti e marchettari, il jazz ha effettivamente ripreso il filo abbandonato della sperimentazione ritmica e armonica del tardo Ottocento introducendo nuove combinazioni, nuove forme e nuove funzioni accordali. Più che confezionare linguaggi inediti, ha continuato a rinnovarsi contaminandosi con altri codici consolidati: i ritmi del Centro e Sud America, il bel canto italiano, la musette e la tradizione gitana francofona, lo sterminato patrimonio del continente africano, la stessa musica classica. Indubbiamente moderno per nascita e postmoderno nel carattere, è stato anche antimoderno sotto certi aspetti: perché si è a lungo contrapposto al solipsismo novecentesco, per il suo vivificarsi nelle tradizioni, per avere rimesso al centro la pratica fertile e antica dell'improvvisazione.
Qualcuno ha osservato che negli ultimi decenni il jazz è diventato un non-genere che raccoglie tutto ciò che non è abbastanza popolare, né abbastanza colto. Il che è forse vero, ma non fa in fondo che confermare il suo ruolo di supplenza nell'abbandonata e vasta terra di mezzo tra esoterismo e dozzinalità, il suo rispondere a una domanda inevasa di musica originale, accessibile e di qualità. È altrettanto vero che in questo sviluppo amorfo e disordinato alcuni protagonisti del jazz più intellettuale hanno cercato di darsi un'identità ricalcando la fuga della musica classica contemporanea dalla prova del pubblico e dal vincolo tonale. A mio avviso e per quanto ho scritto, questi esperimenti tradiscono non solo l'uditorio ma, proprio per questo, anche il senso di fare del jazz.
Lascia un commento