Il mio articolo Della magica poiesi è stato pubblicato nel volume Nel Regno della Quantità, ed. Il Leone Verde, Torino (2024).
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The musicians know what is good


Mi sono talvolta trovato nella scomoda posizione di dover giustificare il mio mestiere di jazzista. Se mai si trattasse di una colpa, dichiaro a mia discolpa di essere un assai mediocre jazzista. Al conservatorio non ho studiato jazz e nemmeno lo strumento con cui lo suono. Ma mi piace. Ho incominciato a suonare jazz e continuo a suonarlo perché mi dà da vivere e mi piace. E mi piace perché trovo che abbia senso.

Capire il jazz e il suo perché è complicato da una serie di considerazioni che con la musica hanno poco a che fare. C'è chi lo evita perché è l'espressione di una civiltà culturalmente povera che si è imposta con le armi e coi soldi. Chi perché è diventato la bandiera di una certa radical-sciccheria che lo ascolta per darsi un tono da connoisseur. Chi perché disturbato dalle biografie di certi suoi astri. Chi perché rigetta la modernità in ogni sua forma. Chi per motivi razziali. A questi critici si potrebbe suggerire di concentrarsi piuttosto sui caratteri estetici della musica, ma sarebbe ingenuo e scorretto. Tutte le espressioni sono forgiate, motivate e influenzate dal contesto, e nel caso del jazz questo è tanto più vero in quanto si è sviluppato nel secolo e nella nazione che più di tutti hanno visto trionfare il mercato e la propaganda. È indubbio che la ricerca del profitto abbia orientato le scelte degli artisti e i gusti del pubblico. È indubbio che il jazz sia stato un ambasciatore dell'impero a stelle e strisce. Ma non è stato così fin dall'inizio. Non è nato nella testa di un discografico, né sui tavoli della CIA.

Come recitano i manuali, il jazz esordisce all'inizio del secolo scorso in un luogo preciso: la città di New Orleans in Louisiana, già colonia francese divenuta prospera come porto fluviale nel corso dell'Ottocento e poi decaduta con lo sviluppo della rete ferroviaria nazionale. A New Orleans era presente una nutrita comunità di afroamericani legati alla coltivazione del cotone ma anche creoli, irlandesi, tedeschi, italiani, ebrei, russi, polacchi, cinesi. Pur nella sua decadenza, la città continuò a celebrare i vecchi fasti specialmente con la musica degli ensemble che accompagnavano festività religiose e civili, rappresentazioni teatrali, serate danzanti, viaggi fluviali. Per un insieme di cause politiche e socio-economiche, questa esplosione musicale fu più che altrove segnata dal ruolo della comunità nera, qui particolarmente coesa e dunque capace di mantenere vivi ritmi, forme, stili di esecuzione e strumenti delle terre di origine.

Da questi due ingredienti, l'apporto esotico e la funzione sociale, nascono quasi tutte le innovazioni musicali della storia e il jazz non fa eccezione. Il primo dei due è per così dire il combustibile che ha periodicamente spinto le tradizioni ormai spompe fuori dall'empasse della ripetizione. Anche la musica, come altri linguaggi, si evolve secondo i canoni dell'interferenza linguistica, accogliendo cioè elementi di usi e tradizioni diverse sul proprio sostrato. Così Bach integrava l'arte italiana del concerto grosso nel suo contrappunto; così Scarlatti jr. rinnovava la letteratura clavicembalistica infondendovi i ritmi e gli stili che aveva udito in Spagna, a loro volta assorbiti dall'incontro con la civiltà araba; così Chopin innestava nelle forme classiche le atmofere e i ritmi della nativa Polonia; così i maestri russi portavano nuova linfa alla sinfonia europea. Nel caso di New Orleans l'elemento africano, che negli stessi anni suscitava anche l'interesse dei compositori classici, era già stato «addomesticato» dalla lunga permanenza in America e si innestava su un sostrato a sua volta ibridato – mancandone uno strettamente autoctono – dagli apporti popolari caraibici ed europei. Tra questi ultimi non sempre si sottolinea il contributo degli italiani e in special modo dei siciliani, forti di un'impareggiata diffusione della pratica musicale tra le classi popolari. Trascorso più di un secolo, ancora oggi restano il gruppo regionale forse più rappresentato tra i jazzisti nostrani.

Il secondo ingrediente, la funzione sociale, offre al musicista l'ispirazione, l'occasione e la committenza. Nel vincolarlo al gradimento di un pubblico lo salva da sé e lo costringe a coltivare i suoi talenti e la sua ricerca nel più vasto quadro di un'espressione collettiva che abbraccia le arti, le aspirazioni, la quotidianità e i miti del tempo. L'arte che non rifiuta il confronto col pubblico lo arricchisce e si arricchisce senza tradirlo, immortala le espressioni migliori di una civiltà diventandone un documento vivo.

Quando abbandonai gli studi di composizione classica per dedicarmi all'apprendistato jazzistico non pensavo a queste cose. Del jazz mi avevano colpito la ricchezza delle armonie e dei movimenti ritmici, specialmente del pianoforte, l'incastro delle forme e il suono legnoso e possente del contrabbasso, che allora non suonavo ancora. Un amico trombettista (siciliano, ça va sans dire) mi invitò ad assistere alle prove di un club della mia città dove uno stagionato pianista mi consegnò un volume di spartiti da fotocopiare. Quanto fu grande la mia delusione quando scoprii... che non c'erano le note! In effetti, salvo casi particolari, nel jazz si improvvisa tutto partendo da un tema e da uno schema di accordi. Solo molti mesi dopo mi resi conto che quella novità era in realtà «pascolianamente» antica, trattandosi dello stesso sistema del basso continuo ancora in uso fin quasi a tutto il Settecento, dove il liuto o uno strumento a tastiera improvvisano l'armonizzazione e le risposte al canto partendo da una serie di sigle. Per chi è abituato alla completezza dello spartito è un bel trauma, ma storicamente la nostra cavillosità scrittoria (ed esecutiva) è più un'eccezione che una regola se, come sembra, greci e latini non avevano neppure un sistema di notazione.

Come tutti gli studenti di composizione, anch'io mi ero presto trovato a dover digerire il boccone ostico della musica contemporanea e atonale. Proprio e non casualmente negli stessi anni in cui il jazz andava alla conquista degli Stati Uniti e del mondo, alcuni protagonisti della musica colta avevano deciso di rompere la gabbia della tonalità per sperimentare nuove relazioni melodiche e armoniche, la più famosa delle quali è la dodecafonia. La spiegazione dei musicologi e del mio maestro, che quel passaggio sarebbe stato l'esito inevitabile e «naturale» di un'evoluzione armonica ormai giunta ai suoi esasperati limiti di sperimentazione, non mi ha convinto né allora né oggi. Pur avendo avuto a disposizione un secolo di tempo e potenti mezzi di diffusione di massa, nessuna delle alternative al sistema tonale si è imposta alla comprensione, né figuriamoci al gradimento, di un pubblico di non specialisti. Le nuove lingue sono nate morte e la «lingua madre» della tonalità ben temperata è rimasta viva: non solo perché appunto non dà segni di declino ma anche perché, come tutti gli organismi vivi, continua a evolversi pur con la lentezza e la circospezione di una natura che «non facit saltus». Già allora ebbi l'impressione che l'equivoco di quel funerale anticipato dovesse spiegarsi con argomenti non estetici, ma sociali. Fu celebrato a porte chiuse tra le mura dei conservatori da parte di artisti per la prima volta convinti di poter coltivare, sopprimere e generare per sintesi i linguaggi musicali con procedimenti e argomenti forse raffinati, forse anche formalmente coerenti, ma del tutto sciolti dalle ancore della tradizione e del pubblico. L'esito «naturale» della musica contemporanea è in realtà dunque una reazione ottenuta in laboratorio, un composto troppo instabile per reggersi nella realtà, un'evoluzione verso paradigmi futuri perseguita rescindendo i vincoli col presente. Senza addentrarci nei motivi storici, sociali e forse anche politici di questo divorzio tra artisti e società – o sul perché la società abbia voluto a dispetto di tutto riconoscersi un'arte così autoreferenziale – osserviamo che proprio le spose ripudiate, pubblico e tradizione, furono invece le levatrici della nuova arte di New Orleans.

Il jazz si trovava nel posto giusto, nel momento giusto e nella condizione giusta per raccogliere il testimone abbandonato dalla musica colta. Era difficile trovare un candidato migliore: tradizionale, ma non retrogrado; inaudito, ma non inaudibile; popolare, ma raffinato. Nel suo DNA filtrava patrimoni disparati e anche ben più antichi dei più antichi modelli europei per ottenere un genere nuovo eppure perfettamente compatibile con i codici linguistici del pubblico occidentale, tanto più ecumenico in quanto espressione di un'identità sfaccettata e plurale. La gavetta nelle piazze, nei locali pubblici e nelle sale da ballo garantiva la fedeltà al pubblico. Le bettole e i tuguri, quando non i bordelli, frequentati dai primi jazzisti suonavano come una risposta iperbolica alle torri d'avorio delle accademie in cui si elaboravano gli incompresi codici aritmici e atonali. Sopra a tutto incise la qualità di questi artisti, enfants prodiges capaci di imporsi per la padronanza virtuosistica degli strumenti, l'invenzione timbrica, il genio compositivo, la ricettività culturale.

Un indizio della denegata concorrenza tra la musica «alta» e il primo jazz, nonché delle pretese del musicista colto novecentesco di prevalere sul pubblico, emerge da una notizia riportata dal musicologo Ted Gioia, secondo il quale alla fine del XIX sec. la American Federation of Musicians avrebbe intimato ai suoi membri di non praticare il genere ragtime (uno degli antenati più prossimi del jazz) perché «i musicisti sanno ciò che è buono e, se le persone non lo sanno, glielo dobbiamo insegnare». Oggi sappiamo come è finita, e perché. Al di là dei suoi aspetti più coloriti e marchettari, il jazz ha effettivamente ripreso il filo abbandonato della sperimentazione ritmica e armonica del tardo Ottocento introducendo nuove combinazioni, nuove forme e nuove funzioni accordali. Più che confezionare linguaggi inediti, ha continuato a rinnovarsi contaminandosi con altri codici consolidati: i ritmi del Centro e Sud America, il bel canto italiano, la musette e la tradizione gitana francofona, lo sterminato patrimonio del continente africano, la stessa musica classica. Indubbiamente moderno per nascita e postmoderno nel carattere, è stato anche antimoderno sotto certi aspetti: perché si è a lungo contrapposto al solipsismo novecentesco, per il suo vivificarsi nelle tradizioni, per avere rimesso al centro la pratica fertile e antica dell'improvvisazione.

Qualcuno ha osservato che negli ultimi decenni il jazz è diventato un non-genere che raccoglie tutto ciò che non è abbastanza popolare, né abbastanza colto. Il che è forse vero, ma non fa in fondo che confermare il suo ruolo di supplenza nell'abbandonata e vasta terra di mezzo tra esoterismo e dozzinalità, il suo rispondere a una domanda inevasa di musica originale, accessibile e di qualità. È altrettanto vero che in questo sviluppo amorfo e disordinato alcuni protagonisti del jazz più intellettuale hanno cercato di darsi un'identità ricalcando la fuga della musica classica contemporanea dalla prova del pubblico e dal vincolo tonale. A mio avviso e per quanto ho scritto, questi esperimenti tradiscono non solo l'uditorio ma, proprio per questo, anche il senso di fare del jazz.


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Commenti

Mario M

Non ho frequentato scuole di musica, le mie prime esperienze musicali da esecutore sono stati il canto in chiesa da ragazzo e qualche marcetta con la tromba nella banda del collegio. Verso la maggiore età cominciai ad appassionarmi di musica classica, da Bach fino a Stravinsky. Cercai quindi di ascoltare la musica che veniva considerata la continuazione di quella tradizione, quella dodecafonica o atonale, ma non riuscivo ad emozionarmi, pensavo a causa della mia scarsa cultura musicale.
Verso la metà degli anni 80 arrivò la rivelazione: Philip Glass. Fu Mozart a portarmi da lui: mi trovavo a Londra quando decisi di andare a vedere un balletto di Balanchine su musiche di Mozart al Covent Garden, ma nel programma c'era anche Glass Pieces su coreografia di Jerome Robbins; pensai che sarebbe stata quella musica modernista che avrei sopportato. Invece dopo aver visto il balletto e ascoltato Philip Glass mi dimenticai di Mozart, e di tutti gli altri.

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↪ Il Pedante

Gentile Lettore, Glass e Mozart giocano in campionati molto diversi, credo che si possa amare l'uno senza dimenticare l'altro. Personalmente ritengo che i minimalisti (non solo in campo musicale) siano esemplari tipici del postmodernismo, della destrutturazione cioè di elementi classici ripresentati fuori contesto affinché assumano un'autonomia estetica. È una pratica che tende all'atomismo, al gesto puro e quindi al rigetto della tessitura formale dell'opera. Per questo motivo mi sembra un'arte più affine alla pubblicità, un'espressione in cui vince lo slogan sul discorso, la suggestione sull'illustrazione, il manifesto di una cultura che non sa costruire e si limita a glorificare il detrito. Detto tutto ciò, tra costoro salverei Arvo Pärt, che pur iscrivendosi in questa corrente mi sembra utilizzare la musica per esplorare e liberare certi percorsi della psiche.

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↪ Mario M

Gentile @Il Pedante,
"minimalismo" forse non è il termine adatto per questo tipo di musica, architettura, pittura ecc; sarebbe stato più corretto riferirsi al termine "essenziale", in ogni caso quello stile caratterizza la musica di Philip Glass fino a metà degli anni '70, fino ad Einstein on the Beach (tra l'altro per quest'opera lui dice che si è ispirato alla musica di Lennie Tristano); poi quella particolare grammatica musicale col tempo si evolve per dare origine a monumenti musicali sempre più ricchi e raffinati. Spesso chiedono a Glass come definire la sua musica, perché lui è spesso infastidito quando gli citano il termine minimale - risponde che si può parlare di musica con strutture ripetitive. Va detto che la ripetizione è presente anche in molte composizioni classiche (mi è capitato di sostenere nelle discussioni, come provocazione - ma neanche tanto - che certe volte è più ripetitivo Beethoven di Glass) ma in un modo diverso: la ripetizione nelle sonate classiche arriva dopo la variazione, in Glass la ripetizione è in funzione della variazione. Nella musica classica si ha la sensazione di ascoltare una storia, si è portati a memorizzare e anticipare gli eventi musicali; la musica di Glass invece invita l'ascoltatore quasi ad ammirare un paesaggio sonoro, con vari elementi che si trasformano. Contrariamente a quello che sostenevano i suoi detrattori, secondo cui la sua musica non sarebbe approdata a nulla, invece è riuscita ad accostarsi e a reinterpretare vari generi musicali, perfino il jazz-rock come si può ascoltare in questo video che ho realizzato per descrivere uno scempio urbano a Torino, link ; nella musica di Glass si ritrova anche il bel canto, come in quest'altro video che ho realizzato per esaltare la figura di grandi italiani in una piccola Italia, link . Non mi sembra che la musica di Glass nasca da una destrutturazione della musica classica, anche perché quelle che lui considera le sue prime composizioni sono fortemente influenzate dall'incontro con Ravi Shankar, chiamato da lui per trascrivere le sue musiche al sitar in una notazione eseguibile da musicisti e strumenti classici. Racconta che fu proprio la difficoltà nella trascrizione che gli fece capire la natura della musica indiana, per certi versi opposta a quella che aveva fino ad allora studiato e praticato (aveva già pubblicato una settantina di lavori nello stile classico, che ora disconosce come suo linguaggio, ma non può ritirarli dal mercato. Tra l'altro mi è capitato di ascoltare alcuni di questi pezzi "rinnegati" su radio3). Quindi la musica che lui ritiene rispecchiare il proprio linguaggio all'inizio può essere considerata anticlassica, che guarda a oriente, alla cultura indiana che aveva sviluppato una propria estetica, come il jazz.
Va detto che da giovanissimo, nei primi anni '50 a Chicago, Glass si recava spesso nei locali dove si eseguiva musica jazz, quindi potette ascoltare dal vivo i maggiori esponenti di questo genere. Tra l'altro in varie occasioni aveva espresso il desiderio di collaborare con Ornette Coleman. (Anche io, pur non essendo un appassionato del jazz, con il coro canterò fra qualche mese la Mass in Blue di Will Todd, e prima con un altro coro avevo cantato la Messa di Steve Dobrogosz)
Philip Glass si distingue anche per la scelta dei soggetti delle sue opere, oggi particolarmente attuali, come Satyagraha sulla disubbidienza civile di Gandhi; il tema delle guerre è l’oggetto di molte altre opere come the CIVIL warS (commissionata dall’Opera di Roma), The Fog of War, Appomattox, Hydrogen Jukebox, Waiting for the Barbarian, In the Penal Colony (anche cantata dal mio maestro di coro). Altri temi ricorrenti nelle sue opere sono la scienza, la società, la storia, l’ambiente; anche il transumanesimo è stato affrontato in anticipo con le colonne sonore per due film: Naqoyqatsi (quasi un concerto per un languido violoncello) e Visitors (quasi una sinfonia tardo romantica con sonorità bruckneriane). Notevole è la sua capacità di orchestratore e colorista, nel creare atmosfere specifiche per le tematiche affrontate, pur rimanendo inconfondibile nello stile: ecco che abbiamo una musica lontana, misteriosa, arcaica per Akhnaten; giocosa, magica, fiabesca per Le Streghe di Venezia (commissionata dalla Scala); psichedelica e straniante per 1000 Airplanes on the Roof; sensuale e spaventevole per La Belle et la Bête. Il suo virtuosismo compositivo si manifesta anche nella capacità di far dialogare con l’orchestra alcuni strumenti affatto particolari come il didgeridoo, il flauto nativo americano, la kora, la pipa; penso sia anche unico, nel panorama musicale, il suo concerto per due timpanisti. Anche lui ha composto un Requiem affatto particolare, dove si distinguono melodie penetranti e dolcissime, di spirito handeliano, accompagnate da cori gioiosi e possenti.
Cordiali saluti, Mario Marchitti

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↪ Mario M

Gentile @Il Pedante,
aggiungo un altro commento trascrivendo le note scritte da Philip Glass sull'album Music in Twelve Parts, composto nei primi anni '70, un compendio della sua radicale grammatica musicale:
"The music is placed outside the usual time scale, substituting a non-narrrative and extended time sense in its place. It may happen that some listeners, missing the usual time structure (or landmarks) by which they are used to orient themselves may experience some initial difficulties in actually perceiving the music. However, when it becames apparent that nothing 'happens' in the usual sense, but that, instead, the gradual accretion of musical material can and does serve as the basis of the listener's attention, then he can perhaps discover another mode of listening - one in which neither memory nor anticipation (the usual psycological devices of programatic music, whether Baroque, Classical, Romantic or Modernistic) have a place in sustaining the texture, quality or reality of the musical experience. It is hoped that one would then be able to perceive the music as 'presence', freed of dramatic structure, a pure medium of sound."

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Remo

Mi fa piacere che, leggendo le parole su certa musica contemporanea, nonché le risposte ai commenti, ritrovo le mie considerazioni sulle musica di musicisti a me ostici, come per es. Cage.
Ci avrei aggiunto anche certo Jazz che ancora non riesco a capire, ma visto il suo successo, credo che sia un problema mio.
Grazie per le riflessioni interessantissime.

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Giovanni Coltreno

Ho un po' l'impressione però che il jazz oggi sia stato codificato e trasformato in una formuletta. C'è poi il problema della perdita di senso dell'espressione artistica all'interno di questo presente digitale. É l'impero del non senso, in cui trovi ogni forma possibile e immaginabile e dietro non c'è assolutamente nulla. Un gigantesco sformato

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johnny crosta

Ottimo contributo, applausi.

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2249

Essendo del tutto digiuno di musica - anche se in effetti cantavo come basso in un coro locale (folclore) -, chiedo: potrebbe fare qualche esempio concreto di musica tonale e atonale? La musica che invade quotidianamente le nostre radio (rock, pop, leggera), ad esempio, a quale di queste appartiene? In particolare mi interesserebbe riuscire a inquadrare "nomi e cognomi" di queste alternative al sistema tonale che pur avendo avuto "un secolo di tempo e potenti mezzi di diffusione di massa" non sono comunque riuscite ad imporsi.
Ringrazio e saluto

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↪ Sassia

Gentile @2249,
Il Pedante potrebbe riferirsi a compositori come Berio e Cage (che personalmente evito perché mi fanno entrare in uno stato di ansia, cosa che sinceramente non cerco nell'ascolto della musica).

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↪ 2249

Gentile @Sassia, capisco. Da completo incolto in materia, a me sembrano note a caso gettate a manciate su un foglio. O, peggio ancora, tracciate "con compasso e doppio decimetro". Ne ho ascoltati 23 secondi in totale, ma sinceramente non mi sembran cose che possan piacere all'orecchio umano. Anzi, sembra quasi sian state concepite con l'intento precisamente opposto. In tema dodecafonia ho dato invece un orecchio a "Schonberg: premonizioni op 16" ed è già più ascoltabile, se non altro perché è spiccicata all'accompagnamento sonoro dei cartoni animati della mia infanzia (quelli belli, tipo Tom e Jerry).
Resta il fatto che, mancando io di riferimenti pratici, frasi come (da wiki): "La musica tonale è, in senso lato, ogni tipo di musica organizzata attorno a un suono centrale, o "tonica". In senso più stretto, si chiama "tonale" la musica che stabilisce un rapporto di gerarchia tra la tonica e tutti gli altri suoni di una scala diatonica maggiore o minore." (Che vuol dire ad es. "musica organizzata attorno a un suono centrale" o "che stabilisce un rapporto di gerarchia tra la tonica e gli altri suoni"? Boh), resteranno per me per sempre oscure. Va ben.
Per il resto è la solita storia che si ripete in ogni campo dei "professionisti rinchiusi nelle loro stanzette" (cito a memoria una frase di Keynes) che partoriscono castelli tanto geometricamente ineccepibili quanto tristemente scollegati dalla realtà tangibile.
Il che non sarebbe neanche tutto 'sto problema, se poi non si perseguitasse l'umanità nel folle tentativo di "riformare" (quando non addirittura "ricreare") la realtà ad immagine di questi canoni e credenze del tutto... beh, immaginari.
Ringrazio e saluto.

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