Ora anch'io ho letto Céline. Ho incominciato dal Viaggio al termine della notte evitando volutamente la critica per farmi un'idea vergine dell'opera. Che sì, è un capolavoro. E lo sarebbe stato anche se si fosse chiuso dopo le prime cento pagine. Già con quella spietata e sbracata cronaca del conflitto mondiale l'autore avrebbe sbaragliato tutti i coevi del «genere Grande Guerra», che per consolarsi ci hanno invece voluto condire l'epica, la lirica o il nazional-popolare nel lordume delle armi. Ma ciò che per loro sarebbe stato un traguardo, per lui è solo la linea di partenza.
Il Voyage è un romanzo moderno, intenzionalmente disordinato e asimmetrico, un magma chiassoso di personaggi, avventure, riflessioni, visioni, odori e colori. Ma è anche sorprendentemente classico nella sua architettura segreta. All'inizio ho cercato di immaginarne i modelli, o almeno le reminiscenze. Il più facile è il romanzo picaresco per l'autobiografismo, l'uso della prima persona e le peripezie. C'è il romanzo di formazione «metropolitano» (Dickens, Flaubert) e c'è l'umanità gretta e malevola di Zola. Più indietro, la facilità quasi onirica degli intrecci e il loro gravitare attorno a un pugno ricorrente di «eroi» ha il sapore dell'Ariosto, ma di un Ariosto invertito e anticortese dove le dame sono puttane, le virtù vizi, gli amori invidie e soprusi. Per questo motivo ci ho trovato, più di tutti, il Candide di Voltaire, il cui impianto amaramente comico, avventuroso e dissacrante aveva già dato materia a Il barone di Nicastro del nostro Nievo.
Bardamu è il pronipote evoluto di Candido e di Nicastro. Anche lui, come i suoi avi letterari, attraversa i continenti alla scoperta delle sozzure umane e di loro possiede, se non l'ingenuità, lo stesso candore. Credo sia questo il centro dell'invenzione céliniana, la chiave di un teatro dell'anima in cui l'autore si confronta con se stesso fingendo di affacciarsi candidamente sul mondo. Lo si può osservare nell'orchestrazione dei ruoli. Per quanto realisticamente rappresentati, i personaggi che calcano la scena del romanzo sembrano maschere più che persone o, in certi casi, mere allegorie di un vizio. Fanno eccezione, ma senza rompere la regola, il protagonista Bardamu e il suo misterioso amico Robinson. Il primo è il narratore ampiamente sovrapponibile all'autore e solo incidentalmente protagonista, testimone travolto ma innocente e inagente – candido, appunto – dei casi che riferisce al lettore. Il secondo, sfuggente come uno spettro, offre l'indizio più chiaro dell'operazione che qui ipotizzo: nell'inseguire e precedere inverosimilmente Bardamu come un'ombra, ne è effettivamente l'ombra in senso ctonio, l'alter ego scuro, il «cattivo selvaggio» esistenzialmente e socialmente sconfitto (da qui forse il riferimento ironico al personaggio di Defoe) che il narratore-autore si trascina dentro, fino alla catarsi finale. Giunto «al termine della notte» dopo averne toccato i bassifondi, Bardamu, ora stimato direttore di una clinica psichiatrica, si vede infine liberato dal suo doppio per mano di una gelosa assassina. Nell'esilarante chiusa l'attrito tra i due ormai incomunicabili emisferi tocca il culmine prima di sciogliersi in tragedia: da un lato il Bardamu «diurno» e vitale che, complice la prosperosa infermiera sua amante, ordisce il piano del tutto improbabile di riconciliare Robinson e la sua mancata sposa organizzando una partouze à quatre; dall'altro il suo simmetrico «notturno» giunto prematuramente al termine di un'esistenza arida, scontenta e inutilmente criminale perché finanche incapace di lasciarsi amare. Così Céline uccide il suo demone.
Ho il sospetto che questo intento catartico, più evidente nella diade simbolica delle due figure centrali (o meglio dell'unico, difratto protagonista), percorra in modo coperto quasi tutta la costellazione dei personaggi. Che cioè non solo nel saturnino Robinson, ma anche nel despota in divisa, nei burocrati sanitari, negli ufficiali crassi e sciovinisti, nei coloni sadici, nel pornografo, nel pappone onanista, nei piccoli borghesi ipocriti e degenerati, nell'accademico parassita, nel primario in fuga dai propri doveri e in altri esemplari incrociati lungo il viaggio l'autore proietti i suoi fantasmi e le sue tentazioni per allontanarli imprigionandoli nell'inchiostro. E che possa così liberarsene ritagliando al sé narrante un ruolo di osservatore fuori campo: non fisicamente, ma moralmente al sicuro.
Quello di Bardamu è un candore per sottrazione. Non insegue la virtù del barone nieviano né – figuriamoci – il mondo perfetto di Pangloss, ma cerca più semplicemente il bene evitando il male. Che è un male innanzitutto fisico: le bombe, il carcere, le aggressioni, la fame, le malattie. Così la sua etica scaturisce da una soteriologia carnale che lo porta a disprezzare gli ingannatori e i violenti – siano essi persone, sistemi o moti interiori – che minacciano l'integrità dei corpi e a dedicarsi professionalmente alla cura degli infermi. Il suo codice morale è il corpo: bene e male sono prima sperimentati nella carne e dopo, eventualmente, sublimati nel giudizio. Poco incline agli ideali, di cui anzi diffida, non ha pretese spirituali e dunque il suo voyage sta agli antipodi della fuga mundi, è un'immersione senza filtri nel ventre marcio del mondo per lavarselo di dosso e tentare una salvezza necessariamente labile e individuale. L'ospedale ereditato dal dottor Baryton, con il suo lindo bosco cintato in cui vagano armenti di folli ben paganti, sarà il suo «jardin» voltairiano.
Bardamu ammira l'agio dei ricchi ma in fondo aspira a una vita modesta e tranquilla, senza l'assillo dei pasti e orazianamente impreziosita da qualche piacere. Il suo momento forse migliore è quello in cui, ingaggiato da una compagnia di varietà per una parte muta, è pagato per circondarsi di giovani ballerine semisvestite. Il corpo femminile è il baricentro indiscusso dell'idea céliniana di salute e benessere, così presente che persino nelle forme sfatte dalle emorragie e dagli aborti di una viziosa agonizzante il neodottore parigino riesce a cogliere la luce di una bellezza che salva. Il corpo fresco di Lola lo preserva dalla follia e gli fa sognare l'America, disegnando nella sua mente una sorta di geografia genitale. La sua salvatrice a Detroit, nonché l'unico personaggio incondizionatamente positivo di tutto il romanzo, è una prostituta che si concede a ritmi frenetici. La sua penultima amante, l'occitana Madelon, lo salverà dal suo «gemello» sinistro crivellandolo sui sedili di un taxi.
Sono molte le pagine dedicate alle amanti di Bardamu, ma in questi amori non c'è nulla di idealizzato, nessuna traccia di amor cortese, nessuna aspettativa di elevazione. Ostinatamente fedele alla carne, Céline dipinge queste eroine come redentrici inconsapevoli e quasi sempre indegne del loro ruolo, anzi propugnatrici e vittime delle storture dei tempi. Mentre Molly è piuttosto una madre e di Sophie non conosciamo il carattere, collocandosi ormai questa al di là della «notte» (il nome può suggerire un traguardo «sapienziale»), nel mezzo troviamo Madelon accecata dall'orgoglio, la violinista Musyne corrotta dalla vanagloria e specialmente Lola, la prima e più iconica di tutta la serie, che si trastulla in un patriottismo infantile e ignora stolidamente quanto sia crudele e insensata la guerra, avendo come suprema preoccupazione quella di non ingrassare. La sua insipienza va al di là del bene e del male, sicché Bardamu non la giudica e anzi la asseconda per godere dell'unico – e per lui più vero – conforto che gli può offrire: l'amplesso. Qualche anno dopo sarà ancora salvato da lei a New York, dove la ritroverà in un giro equivoco di ricche mezzane, ossessionata dalla propria sterilità. La relazione con Lola dà lo spunto alla frase più fulminante del romanzo, l'aforisma che ne racchiude il manifesto: «Je croyais à son corps, je ne croyais pas à son esprit».
È comprensibile che in questo messaggio si voglia leggere una sconfitta materialistica, un nichilismo disperatamente godereccio à l'apres-moi-le-déluge. Ma sarebbe un errore. Nel racconto in prima persona ci sono sì crudezza e disinvoltura, ma anche una tensione morale che indirizza la rabbia del narratore contro chi fa il male e, più ancora, contro ciò che lo fa apparire nobile o necessario. Bardamu è cinico coi cinici, violento coi violenti. Non partecipa ai delitti di cui è testimone, né li giustifica. Come medico si prodiga per aiutare amici e sconosciuti anche gratuitamente, anche andando oltre le proprie forze e i propri doveri, come quando tenta di salvare a tutti i costi l'orfano Bébert dal tifo
addominale.
Per quanto tragicomico e sicuramente antieroico, il racconto ricalca l'archetipo letterario del viaggio iniziatico e di purificazione, come si dichiara senza equivoci nel titolo: di un viaggio che si propone di giungere «au bout», all'estremità di una notte esistenziale e morale per emergere in qualche forma di luce. Se il piglio rocambolesco e libertino suggerisce i modelli sette-ottocenteschi citati, la natura del percorso narrato rimanda però ad antecedenti più venerabili, ad esempio alla prima cantica dantesca, in cui anche il poeta fiorentino muove i passi dall'oscurità per «riveder le stelle» attraversando un lungo catalogo di crimini, violenze e dolori. Bardamu, come Dante e altri viaggiatori inferi, non è un Candido che deve smarrirsi per destreggiarsi in un mondo ostile, ma piuttosto un'anima smarrita che si ritrova nella coscienza ablutoria del male: «C'est
peut-être ça qu'on cherche à travers la vie, rien que cela, le plus
grand chagrin possible pour devenir soi-même avant de mourir».
La novità introdotta da Céline su questo impianto tradizionale, ciò che lo rende moderno tra i classici, è il rifiuto di ogni codice preconcetto – religioso, culturale, consuetudinario, politico, civile ecc. – e il tentativo di accedere senza mediazioni alla radice più profonda del male, al «numero primo» su cui si innesta il senso morale. Questa ricerca, si è visto, lo porta ad ancorarsi alla nudità biologica, con l'ovvia ma fraintesa conseguenza di fuggire ogni tentazione ideale. Ecco la meta, il candore a cui le fatiche e le brutture sperimentate in corpore temprano il protagonista: il meticoloso rifiuto delle idee, che con la loro prosopopea e la loro promessa di senso giustificano l'aggressione dei corpi. Così è la guerra, un letamaio di ferocia senza onore servito ai popoli sul piatto d'oro dell'amor patrio; così il buon governo democratico («... quand les grands de ce monde se mettent à vous aimer, c'est qu'ils vont vous tourner en saucissons de bataille»); così il civismo che dignifica la delazione e la soppressione di chi non si immola al sovrano; così la supremazia razziale che prepara il saccheggio; così il miraggio dell'ascesa sociale, «l’espoir de devenir puissants et riches» che disciplina più del bastone («Qu’on ne vienne plus nous vanter l’Égypte et les Tyrans tartares ! ... Ils ne savaient pas, ces primitifs, l’appeler "Monsieur" l’esclave, et le faire voter de temps à autre, ni lui payer le journal, ni surtout l’emmener à la guerre, pour lui faire passer ses passions»); così la produttività che reclama l'alienazione industriale. E ancora: la rispettabilità borghese nelle cui pieghe fermentano odi e perversioni; il culto del gruzzolo a cui si sacrificano i consanguinei; la religiosità di un don Protiste che prefigura il tormento eterno per gli altri.
In questo senso, sì, Céline è nichilista, perché riduce ad nihilum la crosta dell'«esprit», il carcere delle ideazioni comuni che induce alla rovina di sé e del prossimo. Ma non lo è perché nel suo deserto cerca gli irriducibili «corps» per chinarsi sulle ferite e sui bisogni, sulla bellezza e sull'irriproducibilità. Più che un progetto – ché se lo fosse sarebbe esso stesso un'idea – la sua è una protesta liberatoria che seduce non solo i testimoni dei due massacri mondiali, ma anche i posteri incatenati dai miti e dagli imperativi della macchina narrante. A questa umanità paralizzata il dottor Destouche offre lo scandalo liberatorio di guardarsi, senza veli né insegne, allo specchio.
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