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Clarinetto


La fattoria degli animali (1945) di George Orwell è un'amara allegoria della rivoluzione bolscevica e della sua degenerazione nel totalitarismo staliniano, seconda tappa di una triade di denuncia che il «socialista democratico» autore aveva inaugurato con Omaggio alla Catalogna (1938) sulle violenze dei repubblicani spagnoli e avrebbe chiuso pochi anni dopo con l’ultimo capolavoro, 1984. Ciò nondimeno, come è proprio dei classici, fin dal suo apparire il romanzo ha trasceso l'occasione e l’intenzione delle origini per imporsi all’attenzione di molti come una più universale fenomenologia dell’inganno politico moderno, sotto ogni regime.

La trama è nota: gli animali di una fattoria inglese cacciano il loro padrone e si danno una forma di governo autogestito e collettivistico, desiderosi di godere equamente dei frutti delle loro fatiche senza ingrassare l'uomo-capitalista che li sfrutta. Ma i maiali, messisi a capo della rivolta, trasformano progressivamente la nuova società in un'oligarchia persino più oppressiva e classista della precedente, fino a rendersi indistinguibili dagli umani.

Nel descrivere l’inesorabile instaurarsi della tirannide il narratore non si sofferma mai sulle idee e sui caratteri del tiranno, ma lascia piuttosto che i suoi moventi si riconoscano dai frutti: la fame di comando, di ricchezze, di gozzovigliare tra ozi e stravizi a spese dei lavoratori. Né dà molta enfasi al suo apparato repressivo. Con un richiamo alla proverbiale diade evangelica, i porci assoldano i cani per imporre lo scempio della «perla» rivoluzionaria sennonché i secondi, tanto feroci quanto vigliacchi, non sarebbero da soli in grado di sottomettere tutti gli altri animali, tanto che al cavallo Gondrano basterà una zoccolata per respingerli. Più che sul terrore la dittatura porcina si regge invece sul consenso dei governati, che a dispetto di ogni prova contraria si ostinano a credere che i maiali lavorino per il bene della comunità e nel solco dei principi socialisti dell’«animalismo».

I personaggi del racconto si dividono sostanzialmente in tre blocchi. Da un lato, i dominatori con il loro capo Napoleon: dediti senza vergogna allo sfruttamento e ai bagordi, incarnano la strafottenza del potere senza limiti. Dall’altro, il popolo degli animali che con pochissime eccezioni crede negli ideali della rivoluzione e accetta i sacrifici più duri pur di vedere realizzata la società perfetta sotto la guida dei maiali. In mezzo sta il trait d’union della propaganda, il terzo blocco che rende possibile la coesistenza e la reciproca integrazione dei due inconciliabili opposti. Se si escludono un paio di figure marginali – il maiale-poeta Minimus e il corvo-sacerdote Mosè, «spia e delatore» che rimanda le rivendicazioni di giustizia degli animali a un paradiso oltremondano – questa terza funzione narrativa è monopolizzata da un un solo personaggio: il maiale Clarinetto, «un porcellino grasso… con guance assai rotonde, occhi vivi, mosse agili e voce acuta» (il nome originale Squealer rimanda appunto al tipico stridìo emesso dai suini, ma nello slang inglese significa anche «spione»).

Clarinetto è per molti versi la figura più importante del racconto, senza la quale la trama si chiuderebbe dopo poche pagine con una controrivoluzione. Falso oltre ogni immaginazione – sicché, appunto, il suo inganno non può essere scoperto perché le sue vittime sono troppo decenti per immaginarlo – ha il compito di mantenere viva la fiducia degli animali nelle buone intenzioni e nella capacità di governo dei maiali. Un compito di mediazione che lo spinge innanzitutto a calarsi tra i sudditi per captarne le preoccupazioni e comprenderne a fondo i pensieri, sì da fingersi uno di loro. In ciò si distingue sostanzialmente dalle più rozze ma sincere figure di Napoleon e della sua cricca, che deliberano nel segreto delle loro stanze e non si esprimono in pubblico se non con proclami asciutti e diretti da cui, se non fosse per le mistificazioni clarinettiane, emergerebbe senza equivoci la loro indole.

La figura di Clarinetto è perciò democratica piuttosto che dittatoriale: non del popolo ma nel popolo, non opprime con la violenza dall’alto ma con la persuasione e la costruzione di un consenso maggioritario dal basso. Nel rapporto dialettico con i suoi mandanti riflette una settorializzazione tipica dei regimi democratici contemporanei, dove all’accrescersi degli effettivi poteri decisionali corrisponde una diminuzione dell’intensità comunicativa e della partecipazione al dibattito pubblico. Mentre la ruling class vera e propria, di norma nemmeno – o nei rarissimi casi, molto indirettamente – designata nelle urne, decide a porte chiuse e detta i suoi decreti senza commenti, spetta più a valle alla canea del quarto potere – opinionisti, intellettuali, fact checker, politici di seconda e terza fascia – scendere nell’agone dei talk show, delle interviste, delle piazze e dei social network per far trangugiare al popolo l’amaro di quei decreti affogandoli in una melassa verbale di spiegazioni, contesto e «ragionamenti».

Le imprese del maiale Clarinetto mettono in luce non solo l’esistenza di questo circo apologetico, ma anche i suoi strumenti. Dovendo trasfigurare i privilegi in uguaglianza, il tradimento in fedeltà e l’incompetenza in saggezza, la stella polare del suo apostolato non può che essere l’inversione, di cui si presenta fin dall’inizio come un maestro: «dicevano di [lui] che avrebbe saputo trasformare il bianco in nero». La sua principale attività consiste nel sostituire la realtà con una fantasia di segno opposto: ogni volta che gli animali assistono sbigottiti a una delle tante malefatte dei maiali, Clarinetto è lì per spiegar loro che non hanno capito oppure ricordano male, sono vittime delle dicerie diffuse da un avversario, sono prevenuti o male informati, ignorano le circostanze. Pochi anni prima della stesura del romanzo andava in scena nei teatri di Londra il dramma Gas Light (1938) di Patrick Hamilton, poi adattato per il cinema nel 1940 e, in una nuova versione, nel 1944. Benché il titolo di questa fortunatissima opera sarebbe stato utilizzato solo molti anni dopo per designare un tipo di relazione tossica in cui la parte abusante mette sistematicamente in dubbio le percezioni della vittima fino a renderla succube, non è implausibile che Orwell vi si sia almeno in parte ispirato. Clarinetto sarebbe un gaslighter da manuale: sottomette gli altri convincendoli a diffidare di sé stessi, della loro capacità di conoscere, comprendere e ricordare. Anticipando l’imperativo formulato in 1984 – «il Partito vi diceva che non dovevate credere né ai vostri occhi né alle vostre orecchie» – i suoi soggetti si svuotano riducendosi a marionette senza un’esperienza propria e perciò senza pensiero né volontà, pronte a credere a tutto. Per chi si è lasciato così annichilire, come il cavallo Gondrano, l’inevitabile capolinea è un affidamento fideistico dove non c’è più nulla da capire perché, in ogni caso, «Napoleon ha sempre ragione».

Al nostro personaggio calzerebbe ugualmente bene la qualifica di gatekeeper nella sua accezione più recente. Egli infatti mantiene (keep) gli animali nel recinto (gate) della fedeltà ai padroni accreditandosi come loro complice e guida. Forte della sua abilità dialettica e della conoscenza dei bisogni del popolo, si intitola il discorso rivoluzionario e ne utilizza il repertorio ideologico, lessicale ed emotivo per guadagnare autorità e ri-narrare il tradimento dei maiali in chiave contraria. Questa seconda operazione merita di essere analizzata meglio nel suo articolato catalogo di τόποι, stili e argomenti per l’attualità che ancora oggi riveste.

Il nemico invisibile

La creazione di un nemico serve a mantenere alta la tensione e quindi la fragilità psicologica dei soggetti, ad affidarli a chi dice di proteggerli, a giustificare i propri fallimenti e ad attribuire i propri misfatti a un terzo contro cui scagliare le vittime. Il primo nemico immortalato nel romanzo è il fattore Jones al quale, una volta sconfitto, occorrerà affiancare uno spauracchio altrettanto funzionale. Per quanto certamente ostili, gli altri fattori del circondario non soddisfano però il criterio perché i maiali incominceranno presto a stringerci affari e alleanze: perché insomma sono reali, non creati. Ciò di cui i dominatori hanno bisogno è invece un ur-nemico ideale, un ente maligno sempre spendibile al bisogno.

Il ruolo toccherà al maiale Palla di Neve, prima veterano e ideologo della rivoluzione e poi avversario del più spregiudicato Napoleone, che con un colpo di stato gli scatenerà contro i suoi cani. L’incerto destino di Palla di Neve – non si sa se fuggito o ucciso – darà a Clarinetto l’occasione di ricondurre tutti i problemi che affliggono la fattoria ai suoi interventi nell’ombra, da solo o in combutta con gli esseri umani. Il vecchio rivoluzionario si spiritualizza e diventa un Babau sempre presente perché assente e lontano, come certe minacce esaltate dai telegiornali: «sembrava loro che Palla di Neve fosse una specie di potenza invisibile che riempiva tutta l'aria attorno e li minacciava di ogni genere di pericoli». La costruzione di questo nuovo e definitivo nemico segue le tappe serrate di una damnatio memoriae dove la figura storica dell’eroe è progressivamente ridimensionata, poi calunniata, infine consegnata all’astrazione del male senza tempo: «Palla di Neve era fin dall’inizio in lega con Jones. È stato sempre l'agente segreto di Jones». Per la classe dominante, l’avere messo un ex amico ai vertici dell’inimicizia presenta, da un lato, il vantaggio di proiettare altrove il proprio stesso tradimento, dall’altro di seminare il sospetto tra i subordinati, dividerne le forze e implicare che nessuno, per quanto ben meritante e fedele, possa sentirsi al sicuro.

Il falso dilemma

Individuati i poli antagonisti secondo criteri simbolici del tutto avulsi dalla realtà, si creano le condizioni di un sotterfugio che ha fatto specialmente fortuna nel bipolarismo democratico, di agitare cioè lo spauracchio dell'oppositore come unica e necessaria alternativa allo stato vigente. È perfettamente chiaro ai lettori che nella fattoria «liberata» i maiali hanno replicato e anzi esasperato le condizioni di sfruttamento della gestione precedente, pur sotto un’opposta bandiera. Ciò nondimeno Clarinetto riesce sempre a tappare la bocca degli animali insinuando che i loro dubbi tradirebbero il desiderio di ritornare sotto il vecchio padrone. Quest’ultimo, ormai lontano e sconfitto, risorge come nemico invisibile:

«Sapete che accadrebbe se i maiali dovessero venir meno al loro dovere? Jones ritornerebbe! Sì, Jones ritornerebbe! Certo, compagni… non c'è nessuno fra voi che voglia il ritorno di Jones!». Ora, se vi era una cosa di cui gli animali fossero sicuri, era che essi non volevano il ritorno di Jones. Posta la questione in questa luce, più nulla restava loro da dire.

Su questa base «negativa» poggia il richiamo alla disciplina di partito:

«Disciplina, compagni, disciplina ferrea! Questa è oggi la parola d'ordine. Un passo falso, e i nostri nemici ci sopraffaranno. Certo, compagni, voi non volete il ritorno di Jones!». Ancora una volta a questo argomento nulla si poteva opporre. Gli animali non volevano certamente il ritorno di Jones.

Il trionfo invisibile

Alla mitizzazione del peggio fa eco la finzione del meglio. Nelle società moderne la rappresentazione prevale e guadagna inesorabilmente terreno sull’azione, il relato sull’esperito, il lontano sul prossimo, la res picta sulla res extensa, sì che privazioni, inganni e soprusi si risolvono non nella storia, ma nell’allestimento di una catarsi retorica e consolatoria. Come un affamato che si sazia leggendo il menu, così il cittadino della «società dello spettacolo», si riscatta con i lieti fine di Hollywood, partecipa commentando i commenti delle cronache parlamentari, dirime le controversie del mondo sfogliando i giornali e lo salva firmando appelli, vergando crocette e divulgando gli «stati» di Facebook. Se, come scriveva Walter Lippmann, nella gestione del potere il pubblico è un «fantasma» (The Phantom Public, 1925), anche l’informazione e la propaganda diventano fantasmatici e mettono in scena un copione di fatti, soluzioni e problemi non già per dare conto del vero, ma tutt’al contrario per mascherarlo dietro una trama avvincente che incanti il pubblico e lo metta, «al suo posto» affinché chi comanda possa «vivere libero dal gregge confuso che strepita e scalpita» (ibid.).

Clarinetto padroneggia tutte le arti di questa magia. Agli animali sconvolti dalla decisione di Napoleon di abolire il canto rivoluzionario "Animali d’Inghilterra" – evidentemente per dare un segnale di normalizzazione agli altri fattori e accreditarsi come affidabile capitalista con cui entrare in affari – spiega che

non ce n’è più bisogno, compagni… In Animali d’Inghilterra noi esprimiamo la nostra speranza di una società migliore in giorni futuri. Ma questa società è ora stabilita. Evidentemente questo canto non ha più ragione di essere.

Nessuno se ne era accorto, ma il paradiso è già qui. Non vissuto, ma dichiarato, e perciò «vero».

Le fonti invisibili

Gli animali sono tenuti naturalmente all’oscuro delle trame dei maiali. Come spesso accade, il popolo è sovrano nella dimensione fantasmatica, cioè a patto che non partecipi al processo decisionale. Il «compagno Napoleon,» spiega Clarinetto, «sarebbe fin troppo felice di lasciarvi prendere da voi stessi le decisioni. Ma potrebbe accadere che prendeste decisioni errate, e che avverrebbe allora?». Questa esclusione dal dibattito «interno» del potere offre al dibattito «esterno» della propaganda l’occasione di volgere a proprio vantaggio l’ignoranza dei governati collocandovi fatti e antefatti di pura invenzione che riconcilino, secondo una logica ex post, le inerzie, i voltafaccia e i soprusi dei governanti con le loro promesse. Nella costruzione dell’antieroe Palla di Neve sarà dunque determinante la scoperta di «documenti segreti» che svelerebbero i suoi antichi intrallazzi con Jones. Sulla base di queste fonti indimostrate Clarinetto mette in discussione l’evidenza di ciò che gli animali hanno visto con i loro occhi ricostruendo al contrario le imprese belliche dell’ex compagno.

In un altro episodio i maiali vendono l’ormai anziano e ferito Gondrano a una macelleria equina in cambio di una cassa di whisky, facendogli però credere che il furgone venuto a prelevarlo sia un’ambulanza diretta all’ospedale. Gli animali scoprono l’inganno grazie all’asino Beniamino che legge loro l’insegna sulla fiancata dell’autocarro e si indignano, sennonché il solito Clarinetto riuscirà a placarli giocando la carta dell’antefatto invisibile: in realtà il furgone del macellaio sarebbe stato acquistato pochi giorni prima dal veterinario, il quale non avrebbe avuto il tempo di riverniciarlo. Questa arrampicata sugli specchi è a suo dire una «spiegazione davvero molto semplice» mentre la constatazione logica e diretta degli animali va respinta come una «diceria sciocca e maliziosa».

Come l’informazione occulta trasforma le glorie evidenti di Palla di Neve in uno spregevole ma raffinato complotto, così essa riqualifica gli errori evidenti dei maiali in una strategia altrettanto raffinata e segreta. Quando, dopo averlo avversato e deriso in ogni modo, Napoleon decide infine di costruire il mulino a vento progettato da Palla di Neve riconoscendone suo malgrado il valore, Clarinetto rivelerà agli animali che quell’opposizione altro non era che un’astutissima manovra del capo per screditare il primo promotore dell’opera. Ben orgoglioso della sua trovata, commenta che

questo è ciò che si chiama tattica. E ripeté molte volte: «Tattica, compagni, tattica!» saltellando qua e là e dimenando la coda con un'allegra risata.

Naturalmente queste tattiche saranno svelate – cioè inventate – solo a cose ormai fatte, ma in altri casi basta alludere alla loro presunta esistenza per paralizzare l’iniziativa popolare. Ad esempio, quando gli animali decidono di prendere le armi contro il fattore Frederick, Clarinetto intima loro di non fare mosse avventate e di «confidare nella strategia del compagno Napoleon» (la quale si rivelerà poi consistere nel vendere una partita di legname al nemico ricevendone in cambio banconote false e un’aggressione militare).

I dati

Non fa stupore che Clarinetto sia anche un virtuoso dei numeri. Se agli animali sembra che «le ore di lavoro fossero aumentate e il nutrimento diminuito rispetto ai tempi di Jones», lui li raduna ogni domenica mattina per recitar loro

una lista di cifre che provava come la produzione di ogni genere di cibarie fosse cresciuta del 200 per cento, del 300 per cento o del 500 per cento a seconda dei casi… dimostrava loro minutamente che avevano più avena, più fieno, più rape che non ai tempi di Jones, che lavoravano un minor numero di ore, che bevevano acqua di miglior qualità, che vivevano più a lungo, che c'era un'assai minore mortalità infantile, che avevano più paglia per il loro letto e soffrivano meno per le pulci.

Qui la foucaultiana qualità «governamentale» della statistica si rivela non tanto nel suo ovvio valore informativo a latere principis (va da sé che i maiali conoscano i veri numeri), quanto piuttosto nell'essere operatrice in se ipsa di manipolazione e soggezione. Che sia vero, falso o accuratamente scelto e calcolato secondo uno scopo, il dato statistico è comunque «dato» nel suo impenetrabile involucro di verità, smisuratamente troppo vasto per essere ricostruito e asseverato. Diventa allora magico: irrintracciabile la realtà sottostante, si fa esso stesso realtà spacciandosi per il suo specchio, resta nominalmente descrittivo ma nei fatti è normativo e poietico. La statistica finge di dire quanto per dire che cosa e nei suoi bollettini disegna mondi, imperativi e destini verosimili come quelli virtuali del calcolatore, che sono appunto lunghe sequenze di numeri incasellate da chi scrive – cioè decide – il programma. Questa ambiguità è troppo ghiotta perché non ci si tuffi il potere. Gli animali sono più infelici, ma con le sue «lunghe colonne di cifre» Clarinetto «invariabilmente dimostrava che le cose andavano sempre meglio». Non potendo opporre altre cifre devono quindi essere felici, lo sono. E se oggi i dati guidano le decisioni, decide chi pubblica i dati: le agenzie di rating, gli osservatori «indipendenti», i relatori degli indici, i custodi del metodo e dei database. Il mondo segue, siccome un corpo la sua propria ombra.

La scienza

Come in un fugace cameo, ma significativamente in apertura della sua lunga serie di inganni, Clarinetto cala anche l’asso dialettico più celebrato dei nostri tempi: la scienza. Al primo sopruso dei maiali che requisiscono per sé tutta la frutta e il latte prodotti nella fattoria, l’imbonitore porcino esordirà spiegando che i suoi consimili non lo fanno «per spirito d'egoismo o di privilegio» bensì spinti dalla necessità di mantenersi in salute per far fronte alle dure prove del comando: «e ciò è provato dalla Scienza, compagni». Questo uso maiuscolato del termine non differisce in nulla dalla falsa delega del dato statistico: la nozione «scientifica» è un avatar della volontà normativa-attiva dei maiali che per non incorrere nella censura morale deve spersonalizzarsi in un discorso descrittivo-passivo come quello scientifico, ribaltandone il senso. Anche nella fattoria di Orwell, come in tante vicende recenti e reali, la scienza non suggerisce ipotesi esplicative ma detta e persino costringe, con una volitività che tradisce la voce dei suoi ventriloqui.

Il sacrificio invisibile

Nella fattoria post-rivoluzionaria gli animali si sottopongono a privazioni e sacrifici immani per realizzare le ambizioni dei maiali e mantenerli nel privilegio e nel vizio. Ciò nondimeno, ribaltando come di consueto le cose, Clarinetto esalta solo la presunta abnegazione dei governanti: «non pensate, compagni, che la direzione sia un piacere!» A sentir lui, persino le gozzoviglie sarebbero penitenze:

«A molti di noi realmente ripugnano il latte e le mele. Anche a me non piacciono. Il solo scopo nel prendere queste cose è di conservare la nostra salute».

In questa e altre tirate troviamo tutti gli ingredienti classici della comunicazione manipolatoria e dello stile passivo-aggressivo che la caratterizza: il vittimismo per suscitare il senso di colpa nelle (vere) vittime, l’accusa di superficialità e incompetenza («gli altri animali erano troppo ignoranti per capire» il gran lavoro svolto dai maiali) e la proiezione. Mentre attribuisce sistematicamente a qualcuno o a qualcos’altro i torti dei suoi padroni – lo sfruttamento a Jones, il tradimento a Palla di Neve, l’egoismo, l’ingratitudine e la maldicenza agli animali, la menzogna ai numeri, l’ingordigia alla scienza ecc. – li esalta decorandoli con i patimenti e i meriti degli altri.

Il lavoro invisibile

Non si può negare che davvero i maiali lavorino indefessamente, solo che il vero scopo dei loro sforzi – di spremere e deprimere i sudditi per trarre il massimo profitto personale – non può essere divulgato al popolo, et pour cause. Perciò Clarinetto distoglie il discorso dai fini e lo dirotta scaltramente sugli strumenti dell’opera di governo per proporre questi ultimi, quasi fossero una meta in sé, all’ammirazione e alla gratitudine degli animali:

non si stancava mai di spiegare quanto enorme fosse il lavoro di sorveglianza e di organizzazione della fattoria… diceva loro che i maiali dovevano ogni giorno faticare attorno a cose misteriose chiamate «schedari», «relazioni» e «registri». Erano, questi, grandi fogli di carta che dovevano venire completamente coperti di scrittura e quando erano così compilati venivano poi buttati nella fornace.

La ponderosa, frenetica e vana burocrazia della macchina governativa che dai suoi ingranaggi sforna montagne di scartoffie destinate a un oblio quasi istantaneo è il fumo che nasconde la mano di chi ruba l’arrosto, l’augusto diversivo che devia l’attenzione dai frutti e mantiene i cittadini intimoriti e distanti. Così, per l’osservatore engagé che segue le vicende del potere, più che le decisioni appassionano dibattiti, alleanze, procedure, commenti, clausole, pettegolezzi, tatticismi e strategie di palazzo, nell’incrollabile credo che la forma garantisca la sostanza. E a nulla gli vale constatare che quando la seconda è dettata dai forti la forma si adegua, si scansa e si accartoccia in una parodia di se stessa attivando le corsie brevi dell’emergenza, della necessità, delle pressioni internazionali o di qualsiasi altra cosa serva a non spazientire il padrone. E nel prostrarsi stende un velo di decenza procedurale troppo sottile per nascondere l’ombra di chi l’ha sequestrata, ma abbastanza forte per resistere alle obiezioni e ai ricorsi di chi subirà il risultato.


Concludiamo con due note critiche, anzi tre. Nel documentare il divario crescente tra i maiali e gli altri abitanti della fattoria, il narratore si sofferma spesso sulla preparazione culturale dei primi che hanno imparato a leggere, scrivere, fare di conto e persino progettare macchine complesse come il mulino a vento, mentre i secondi sono quasi tutti analfabeti. Il messaggio è chiaro: la mancata scolarizzazione dei lavoratori è una conseguenza e una causa del loro sfruttamento perché li rende inabili al governo e incapaci di decifrare le favole della propaganda.

Questo messaggio non ha però retto alla prova dei tempi. Durante il regime di Stalin, la cui figura ha ispirato il personaggio di Napoleon, l’analfabetismo in Russia fu quasi del tutto debellato, segno evidente che il segretario sovietico non lo considerava funzionale alla dittatura. Ma anche adottando un’accezione più ampia e fuor di metafora, se il problema fosse la carenza di una cultura di base non si spiegherebbero gli sviluppi a noi più vicini. Oggi in molte parti del mondo fioccano diplomi, lauree e specializzazioni, eppure l’industria della manipolazione non ha perso mordente e anzi si è concessa una volgarità di stile e di contenuti che in altri tempi, quando l’istruzione superiore era accessibile a pochissimi, potevano giusto figurare in un romanzo paradossale e satirico. Ora invece Clarinetto è possibile, normale.

Alla luce di ciò va introdotta l’ipotesi opposta, che cioè l’istruzione di massa non immunizzi gli individui dalla propaganda ma anzi ve li predisponga inculcando una struttura semantica da cui l’imbonitore pubblico attinge i suoi punti di attivazione e una koinè per coinvolgere il maggior numero di persone con il minimo sforzo comunicativo. E che in sé la scuola non diffonda cultura, bensì standard culturali che in carenza di altre risorse incatenano il pensiero in un repertorio convalidato di giudizi e di metodi. In fondo, anche gli animali della fattoria sono politicamente acculturati ed è appunto lì, sulle note della loro comune «istruzione» dottrinale, che Clarinetto imposta più insistentemente il repertorio e il linguaggio dei suoi raggiri.

Il nodo dell’analfabetismo si declina anche nella sottostante fiducia dell’autore nella funzione sociale della parola scritta. Le tormentate vicende dei Sette Comandamenti di volta in volta emendati, riscritti e soppressi per non contraddire i continui voltafaccia dei maiali rimandano in parabola all’importanza dello jus scriptum e più in genere della memoria scritta come salvaguardia dall’arbitrio del più forte:

… ma Clarinetto chiese loro astutamente: «Siete certi di non aver sognato, compagni? Avete qualche documento di quella decisione? E' scritta da qualche parte, forse?». E poiché era certamente vero che nulla del genere era scritto, gli animali furono ben lieti di essersi sbagliati.

Il tema, come si sa, sarà ancora sviluppato nel successivo romanzo 1984 in cui l’autore immagina che gli impiegati del Ministero della Verità lavorino senza sosta per adattare documenti, libri e giornali pubblicati in passato alle volubili posizioni del Partito. La più recente diffusione delle tecniche informatiche di archiviazione e trasmissione dei dati ha però messo parzialmente in crisi la tesi e aperto scenari difficili (ma non impossibili) da prevedere allora. Oggi forse per la prima volta la parola scritta non è un bene scarso da custodire ma una gramigna che si insinua e si riproduce a valanga sugli schermi diffusi in ogni luogo e in ogni tasca. Gli hard disk contengono vaste biblioteche e le reti telematiche consentono di consultare e condividere documenti vecchi e nuovi, cronache, enciclopedie, pubblicazioni scientifiche, commenti, conversazioni.

Da un lato resta sempre preziosa l’intuizione orwelliana di un’infrastruttura «liquida» e centralizzata che si lascia non solo sorvegliare, ma alla bisogna anche adulterare, cancellare e riscrivere da pochi padroni. Il rischio, almeno in Occidente, si è finora concretizzato in pochi episodi di censura online, ma è insito nella rete internet e forse anche nelle intenzioni di qualche suo promotore. Dall’altro lato bisogna però ammettere che la bulimia del segno sta sortendo gli stessi effetti della sua repressione. Se tutto è scritto, nulla è scritto. Nel chiasso documentale della società connessa l’accumulo indiscriminato delle informazioni spinge i fruitori a cercare la verticalità di un metodo che dia loro la bussola del vero e del falso, del buono e del cattivo, dell’utile e del rinunciabile. Si apre così uno spazio nuovo per l’autorità, che ora può imporre il suo canone tendendo il braccio ai naufraghi persi nella diarrea scrittoria e pescando in quei flutti una scorta sempre nuova di nemici – odiatori, disfattisti, propalatori di fake ecc. – da additare ai salvati.

In chiusura, proviamo a forzare la portata della satira orwelliana prendendo spunto da un fulminante commento che T. S. Eliot indirizzò allo scrittore nel 1944:

Dopo tutto, i tuoi maiali sono di gran lunga più intelligenti degli altri animali e quindi anche i meglio qualificati per governare la fattoria. Anzi, senza di essi la “Fattoria degli Animali” non sarebbe neanche esistita. Qualcuno potrebbe dunque obiettare che ciò di cui ci sarebbe bisogno non è più comunismo, ma più maiali dediti al bene comune.

Se in effetti ignorassimo il pensiero dell’autore e il sottotesto storico-ideologico, la denuncia del racconto potrebbe applicarsi tanto al mancato coinvolgimento dei lavoratori nell'esercizio del potere quanto all’indegnità di una classe di governo schiavista, degenerata e bugiarda. Il punto è che gli animali della fattoria non vogliono comandare, ma solo mangiare di più e faticare di meno. Per il socialista Orwell l’unica via praticabile per ottenere queste conquiste è la politicizzazione dei subalterni e la lotta di classe ma, come direbbe Eliot, «qualcuno potrebbe obiettare» che governanti «di gran lunga più intelligenti» devoti al popolo e timorati di Dio realizzerebbero meglio gli stessi obiettivi. Potrebbe persino insinuare che rintronare i più ingenui con parole d'ordine e tecnicismi serva a plagiarli e a distrarli dai loro bisogni: proprio come fa Clarinetto.

Stando alla logica degli eventi, che gli animali diventino scaltri come i maiali o che i maiali diventino decenti come gli animali sono esiti ugualmente plausibili (o implausibili). La stessa ambiguità vale per il tradimento della democrazia denunciato nel romanzo, genitivo oggettivo e soggettivo insieme con cui si parla sì della democrazia tradita ma anche (e tanto) della democrazia traditrice, di come il discorso democratico si presti magnificamente a realizzare e difendere il contrario di ciò che propone. Difficilmente il paffuto propagandista troverebbe armi migliori: sostiene il privilegio parlando di uguaglianza, la penuria di abbondanza, la sconfitta di vittoria, l’abbrutimento di dignità. Sotto questo profilo – così importante e non accidentale per Orwell, che lo riproporrà pari pari nel distopico e castale «socialismo inglese» di 1984 – la figura di Clarinetto diventa ancora più centrale e l'ampio spazio che gli si dedica riflette il messaggio forse più importante dell’opera, il rovello di una delusione politica non solo personale e un interrogativo lasciato ai posteri: storicamente, questo catalogo di inversioni e di abusi è un malanno della democrazia o ne è invece l'essenza? Il «governo del popolo» regge un soggetto o un oggetto? È diventato un dispositivo di potere che soffoca le resistenze impersonandole o lo è stato – ora più, ora meno velatamente – fin dall'inizio?


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Commenti

Mazdak

Su Stalin.
L'Unione Sovietica ha lottato contro l'analfabetismo in un paese che andava strappato alla miseria e portato al livello di sviluppo delle forze che la volevano schiacciare.
E ci hanno provato, a schiacciarla, nel disinteresse dei reazionari come chi ha scritto questo articolo immondo e dei vigliacchi come Orwell; l'URSS ha pagato con 20 milioni abbondanti di morti. Stalin è un faro della lotta per l'emancipazione dei popoli oppressi.

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Roberto

Ci vorrebbero piú articoli come questo su B&B. Grazie.

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Mario M

La parabola politica e intellettuale di Victor Serge viene spesso accostata a quella di George Orwell. Serge sceglie di diventare romanziere quando constata che nella Russia di Stalin non è più possibile un'azione politica, e il giornalismo e l'indagine storica non gli sembrano adeguati a penetrare l'essenza dell'uomo e della società.
Serge era stato prima anarchico, poi rivoluzionario coi primi bolscevichi, e aveva organizzato l'attività del partito accanto a Lenin e Trotsky, di cui scriverà la biografia in Messico. Riesce quasi per miracolo a sfuggire alle purghe staliniane. Da esule (come tutta la sua vita) offre alla cultura del 900 romanzi di altissimo valore letterario (per un paragone penso a quelli di Leonardo Sciascia). Stranamente però il mondo culturale e politico ha ignorato Serge, o comunque non gli ha riconosciuto un adeguato merito (purtroppo le nuove traduzioni (automatiche?) de Il Caso Tulaev e delle Memorie di un Rivoluzionario, hanno un po' annacquato la sua scrittura)

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Luebete

Ho letto La Fattoria degli Animali molto tempo fa e non la ricordo nei dettagli.
Il dubbio che ho è che apparentemente, il comportamento di Clarinetto e le sue azioni potrebbero essere simili a quelle di un qualcuno che volesse contrastare i maiali.
Cioè, prima gli animali sono orientati ad A, poi arrivano i maiali e con Clarinetto sono orientati a B. Sarebbe possibile "liberare" gli animali orientandoli a C (o ad A) senza fare uso delle stesse tecniche o facendo uso di tecniche che non fossero assimilabili a quelle di Clarinetto?
Faccio un esempio recente: Lascienza è stata utilizzata in un certo modo ultimamente, e talvolta la Scienza è essere usata proprio per contrastare Lascienza. Come contromossa la Scienza è stata accusata di essere Lascienza? Come si risolve?

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Chinacat

Come al solito, eccellente. Profondità ed accuratezza di analisi davvero notevole, ergo i miei complimenti.
Detto questo però, dato che il tema riguarda il mio campo di studio preferito, ovvero i regimi totalitari (ognuno ha le sue fissazioni) ci sono alcuni punti che spero possano integrare la tua analisi.
Il primo riguarda le opere di Orwell. La mia e lo ammetto, stravagante passione per lo studio dei regimi totalitari deriva proprio dalle opere di Orwell eppure lo trovo alquanto "superficiale" nel caso in cui si voglia capire cosa sia un regime "totalitario". Il motivo è presto detto: Orwell non solo non ha mai visto un regime totalitario all'opera ma all'epoca in cui scriveva, lo studio sui regimi totalitari era nella sua infanzia. Intendiamoci, non intendo minimamente svalutare la sua opera, anzi; fosse per me sarebbe un testo obbligatorio nelle scuole. Al tempo stesso però andrebbe visto come un punto di partenza per chi vuole avvicinarsi alla materia e non come un punto di arrivo.
Secondo punto: il totalitarismo. Hai fatto benissimo ad aggiungere "staliniano"; non tutti i regimi totalitari sono identici ed è una giustissima precisazione. Al tempo stesso però hai usato una parola, totalitarismo, che inevitabilmente evoca uno scenario ben preciso: per alcuni la Germania hitleriana e per altri l'Unione Sovietica di Stalin. Invece l'origine della parola in questione non ha nulla a che vedere con queste due nazioni e nemmeno con il modo in cui questi due regimi hanno plasmato le loro società. Eccola qui:
"noi che, con tutto il riguardo dovuto al segretario generale del Ministero dell'Interno, incliniamo ad attribuire importanza anche maggiore alla realtà elettorale di tutte le domeniche, dubitiamo assai che non si debba finire per chiamarlo, con più verità, "sistema totalitario"!
(Giovanni Amendola, Il Mondo, 12 maggio 1923)
Questa è la data di nascita della parola in questione e non ha nulla a che vedere con quello che l'immaginario collettivo collega immediatamente con l'uso della parola. E già questo è abbastanza singolare. Come se non bastasse, e non so per quale motivo, è facile dimenticare che il primo regime totalitario è quello Fascista. Ma quando Amendola scrive è il 1923, quindi ben prima dell'instaurazione del modello di società a cui si collega la parola "totalitario". Ma se il modello totalitario non esiste ancora, a cosa fa riferimento Amendola?
Terzo punto. Quello che manca completamente nell'opera di Orwell, ed è invece il motivo per cui gli storici ancora studiano la faccenda, è forse l'aspetto più importante in assoluto: come , quando e perché si passa da un regime democratico ad un regime totalitario? L'attenzione riservata dagli specialisti al modello Fascista italiano e quello Nazionalsocialista tedesco deriva proprio da questo snodo fondamentale: le dinamiche che portano a questo passaggio. Provo a spiegarmi meglio.
Nella Germania del 1928 non ci sono capitalisti che sfruttano senza pietà gli animali della fattoria, anzi: gli animali sono al governo e legiferano (per chi non lo sapesse, il partito che sostiene la Repubblica di Weimar e allo stesso tempo il più grande partito in Germania è il Partito Socialdemocratico, SPD). C'è un Parlamento (anzi, due: il Reichstag ed il Reichsrat), ci sono i partiti, ci sono i sindacati, ci sono le associazioni di categoria, ci sono dozzine di quotidiani, e siamo ben lontani dal cosiddetto "pensiero unico". A tutti gli effetti, la Germania del 1928 è una "democrazia" sia nella forma che nella sostanza. Quanto al livello di istruzione, a cui giustamente fai riferimento, per l'epoca è il più alto al mondo (2/3 dei vertici delle famigerate SS sono laureati). E non solo sanno leggere e scrivere ma la vita culturale tedesca tra le due guerre è tra le più intellettualmente attive in tutti i campi.
Passare da questo stato di cose alla Germania di Hitler & Co. è il rebus ed è proprio qui che il nostro George non ci aiuta affatto.
Chinacat
PS
"storicamente, questo catalogo di inversioni e di abusi è un malanno della democrazia o ne è invece l'essenza?"
Questo catalogo di di inversioni e abusi è l'assenza della democrazia. Se l'etichetta sulla bottiglia dice "vino" e quando bevi ti accorgi che è "acqua" tu non dici che oggi il vino ha uno strano sapore, giusto? :) E lo stesso vale per la "democrazia".

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Crtica

"Lei [l'Inghilterra] sta conducendo una guerra spietata, non contro governi ed eserciti ostili, ma contro le popolazioni ..." (Cit. - Considerazioni di un impolitico)
Poi - più o meno - si sa quali giri frequentava il tizio con i baffeti e per chi lavorava (part time). Detto questo i suoi lavori distopici sonno dei capolavori profetici e seppur molti pensano che mirava ad altro erano la critica coperta della "democrazia" e del "socialismo inglese" (che era ed e il socialismo al contrario ... il socialismo dei ricchi (a punto!)).
P.S.: Un ottimo testo. Grazie.

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ws

Vorrei ricordare che Orwell era un fabiano e i fabiani avevano (e hanno) un programma politico ben sintetizzato dalla nota qui citata di Elliot. In sostanza il fabianesimo afferma che le elites ( i "maiali") traggono il diritto dei loro privilegi dal gestire "la fattoria " che invece andrebbe in maloria se lasciata a l' arbitrio degli altri "animali ".
"E' infatti questa ( secondo loro) la sintesi del conflitto sociale : "capitalismo" per i "maiali ",meritevoli (per definizione), e "socialismo" per gli altri "animali" che appunto "non avranno niente e ( altrettanto per definizione ) saranno " felici".

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↪ Il Pedante

Gentile lettore, sul fatto che Orwell fosse un fabiano, cioè membro attivo di questa controversa associazione, ci sono molti dubbi e in ogni caso nessuna prova documentale. Sappiamo che sua madre era simpatizzante e amica di alcuni fabiani e lui stesso tenne una lectio presso la sede londinese, che però analizzava appunto i rischi per la democrazia nelle società moderne: tanto sotto il capitalismo quanto sotto il socialismo. Sappiamo anche che fu molto irritato dal fatto che lo speech fu pubblicato con modifiche non autorizzate. In ogni caso, le idee dell'autore (a mio avviso piuttosto confuse e incomparabilmente meno profonde della sua narrativa) sono espresse in una messe di saggi, articoli e carteggi pubblici e privati. Possiamo anche supporre che abbia sempre mentito, ma mi sembra un po' tirata.

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Fabio

Squealer, però, non riesce a persuadere con la sola forza dei suoi argomenti: è sempre accompagnato dal coro delle pecore, che ripetono slogan e fanno leva sul bisogno di inclusione sociale per far accettare la manipolazione.

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↪ Il Pedante

È vero. Ma le pecore rappresentano la parte più manipolabile dell'opinione pubblica, non mi sembra che l'autore alluda al fatto che gli altri animali desiderino conformarsi alle pecore.

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↪ Er patata

Gentile @Il Pedante, se posso permettermi, credo che le pecore rappresentino quella parte di popolazione priva di senso critico che fonda la propria autostima nel farsi megafono del potere, dal quale è più o meno consciamente affascinata ed alla cui fonte di processi logici si abbevera, essendo incapace di produrne di propri. Tali persone rappresentano la prima crepa nel muro e, siccome sono tante (un gregge), rappresentano una forte attrattiva per altri che sono alla ricerca di omologazione ed inclusione sociale per compensare le proprie insicurezze.

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↪ Lettorecurioso

Gentile @Il Pedante,
grazie per questa riflessione su un testo così importante.
Durante la lettura ho più volte ripensato alla Repubblica di Platone, in particolare alla nozione di Ingiustizia Perfetta presentata da Trasimaco. Ho un ricordo vago e confuso delle risposte di Socrate, ma ricordo di non avervi trovato conforto quando le lessi la prima volta. È difficile non riconoscere nelle descrizioni del sofista un'assoluta aderenza con la realtà del potere. L'interesse del tiranno non è quello di fare il bene dei governati, quanto quello di sfruttarne le energie per il proprio vantaggio nel modo più efficiente (oggi i mezzi non mancano).
Certo, per fare questo deve sempre fare appello al senso di giustizia, usarne la spinta per poi dirigerla verso i propri interessi. Si fa il male in nome del bene, pervertendo il giusto ordine, inseguendo luci ingannatrici. E tuttavia, se per fare il male ci si appella al bene, significa anche che v'è una naturale tendenza nell'essere umano alla ricerca del vero e del bello. È compito nostro prenderci cura di questa tendenza.
Grazie

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↪ Lettorecurioso

Gentile @Er patata,
La quantità che mette a tacere ogni qualità

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↪ Il Pedante

Gentile @Lettorecurioso, La ringrazio del commento e in particolare dell'ultimo prezioso spunto. Amo ripetere che il male non può trionfare ma solo prevalere «nel frattempo»: quando ancora le persone non hanno compreso, ancora non hanno conosciuto le conseguenze delle sue seduzioni, ancora non hanno smascherato le bugie di chi lo opera ecc. Quel «frattempo» però si rinnova sempre perché non si vive abbastanza per capire tutto né si riflette abbastanza su ciò che hanno vissuto e capito coloro che ci hanno preceduto. È doveroso e possibile «prenderci cura di questa tendenza» coltivandola in sé stessi e negli altri. Non solo nella prassi, ma anche e soprattutto per non perdere, facendosi accecare dalla contingenza, la speranza.
(N.B. l'ultima, un po' patetica, intervista televisiva di Orwell dove cita a memoria la profezia malefica di 1984 testimonia che l'autore fu sopraffatto dalle sue visioni e perse di vista questa verità)

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↪ Il Pedante

Gentile @er patata, La ringrazio di questa Sua lettura. Effettivamente potrei essere condizionato dalla mia istintiva indifferenza verso questo gruppo «animale». Nel leggere il romanzo mi sono trovato a considerare le pecore alla stregua di un coro greco che dà voce alla massa indistinta ma non ha in sé un ruolo efficiente.

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↪ Chinacat

Gentile @Il Pedante, chiedo scusa per l'intromissione ma il concetto di "pecore" è di gran lunga antecedente all'opera di Orwell. Qualcuno era arrivato a questa conclusione nel 1932
"La massa per me non è altro che un gregge di pecore, finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che essa possa governarsi da sé. "
(Benito Mussolini - Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini, prima pubblicazione 1932)
In questi colloqui, Mussolini spiega efficacemente come la critica verso la "democrazia" sia uno dei fondamenti dell'ideologia fascista. Per essere più chiari ancora:
"„Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno.“
(Benito Mussolini, La dottrina del Fascismo, 1936)
Non è certo il primo a criticare la democrazia ed asserire che è una follia, a cominciare da coloro che la democrazia l'hanno inventata (e che Mussolini conosceva benissimo) e quindi, seguendo questo percorso, è evidente che le pecore non posso autogovernarsi. Non sto affermando che coloro che ragionano in termini di "pecore" siano dei fascisti ma faccio semplicemente notare che inconsapevolmente condividono uno dei capisaldi dell'ideologia fascista. Può non piacere ma è proprio così.
Il problema, a mio avviso, non è tanto costituito dalle pecore ma dal fatto che è possibile trasformare "chiunque" in una pecora, dove questo "chiunque" indica persone appartenenti a qualsiasi classe sociale e quale che sia il loro livello di istruzione. Ed è esattamente quello che fanno i regimi totalitari: trasformano le persone nell'animale di cui hanno bisogno, siano pecore o cani o anche peggio. Mi spiego con un esempio molto semplice tratto da questo splendido libro:
Ordinary Men: Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland di Christopher Browning
Questa unità ha massacrato migliaia di persone in Polonia nel 1942 ma da chi era composta? Fanatici nazisti cresciuti nel Terzo Reich e indottrinati sin da ragazzi? Niente affatto, erano tutte persone di mezza età, provenivano dalla piccola-media borghesia, tutti con un discreto livello di istruzione e ciliegina sulla torta, erano tutti o protestanti o cattolici.
Il regime ha preso queste persone e le ha trasformate in quello di cui aveva bisogno perché è proprio questo che è in grado di fare un regime totalitario. E se oggi il numero di pecore sembra essere la maggioranza è semplicemente per il fatto che il "nuovo" totalitarismo, per funzionare e reggere, ha bisogno di molte pecore.
Certo, possiamo anche prendercela con le pecore e deriderle ma significa, a mio avviso, non aver capito molto sia degli esseri umani sia del modello di società in cui gli esseri umani vivono.
Chinacat

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Sio

Eliot in effetti ha precisamente centrato il punto (ma dai?): nella storia dell'uomo infatti hanno sempre governato le minoranze, alcune dedite al bene (parlo ovviamente di frutti e mezzi per conseguirli, non di intenzioni) dei governati e altre meno, e la democrazia non è altro che uno dei tanti modi per "vestire" questo fatto.
Perciò sì, ciò di cui necessita l'umanità sono proprio "più maiali dediti al bene comune", ed in effetti è proprio qui che risiede l'effetto più importante e distruttivo dell'opera dei "clarinetti" di ogni epoca: dato che tutti noi siamo "practical pigs who believe ourselves quite exempt ecc ecc", nel senso che non ci inventiamo niente ma ci basiamo invariabilmente e il più delle volte inconsapevolmente su ciò che è stato formulato da altri prima di noi, ecco appunto che oltre alle ricadute immediate la loro azione di propaganda andrà anche a "instradare" i "modi di pensiero" di chi arriverà dopo, andando poi, se non contrastata per tempo, a diventare parte dello zoccolo duro su cui si regge il mondo, che non può mai essere "pensato" diversamente da com'è, se non con minime varianti o rielaborazioni, e l'"agire per il bene comune" diventerà (dato che a questo proposito stiamo procedendo in questo senso) perciò ancora più ciò che lo stiamo vedendo diventare oggi: opprimere e uccidere persone con la scusa di salvarle da un qualche pericolo incombente sempre nuovo e sempre identico.
Intendiamoci, ci sarà sempre qualcuno che nonostante tutti questi sforzi sarà in grado di trovare il bandolo della matassa (altrimenti non saremmo qui a parlarne), ma fino a quale profondità? E a che pro, dato che il restante 99% invece non riuscirà nemmeno a grattarne la superficie? Tutto ciò che si otterrà sarà solo andare a costituire nel breve termine sempre nuovi e reali "palle di neve", aiutando con ciò il sistema a reggersi in piedi, e nel lungo (che sotto certi aspetti è già qui) i difensori di un assetto sociale già profondamente "maligno" e "alterato" ma che verrà allora percepito come "buono" e "puro".
Chi controlla le parole controlla veramente il mondo, e chi le controlla è chi è riuscito a imporre le proprie, perché è riuscito a parlare più forte e in maniera più convincente.
E oggi questo divario è ampio quanto mai lo è stato, oltre che in costante aumento.

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↪ Il Pedante

Gentile lettore, La ringrazio del denso commento, che condivido. Sottolineo due spunti. Innanzitutto la funzionalità del «fattore Palla di Neve». Non ho dubbi che se il cavallo Gondrano si fosse liberato dalla prigionia del carro bestiame dopo essere rinsavito in extremis, sarebbe diventato il nuovo Palla di Neve e ne avrebbe fedelmente ricalcato la parabola: prima eroe popolare funzionale al riverginamento del sistema, poi scartato come nemico e traditore una volta divenuto troppo ingombrante (quindi doppiamente funzionale). Inoltre, fermo restando l'intento maieutico della mia lettura, è vera la conclusione che Lei sottintende, che la «soluzione» non è nel sistema perché prima di tutto non può essere sistemica, qualsiasi ne sia il verso o la bandiera, ma interroga invece il rapporto (il «patto non scritto») dell'individuo con se stesso, con gli altri e - aggiungo io - prima ancora con la legge divina, l'unica che non si può riscrivere sul muro di un granaio.

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SonoIo

Pedante per favore riduci la giustezza, è difficoltoso leggere righe lunghe.
E grazie.
J

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Graziano

Magistrale.

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