Ieri sera ho finalmente avuto anch'io l'occasione di vedere Quo vado di Checco Zalone. Il film mi era già stato minuziosamente raccontato dal solito Vincenzo e ne avevo letto le recensioni impietose di alcuni amici (ad esempio qui), secondo i quali si tratterebbe di un esercizio di autorazzismo e di incitazione all'odio di classe verso i lavoratori del settore pubblico. Ma Vincenzo, pur da insegnante statale e con moglie impiegata in Provincia, aveva invece trovato la pellicola gradevole e per nulla offensiva verso la sua categoria. Decisi allora di sospendere il giudizio in attesa di prenderne personalmente visione, cioè fino ad oggi.
La storia è quella di un funzionario provinciale del sud Italia che, per evitare un licenziamento con buono uscita causa spending review, accetta di farsi trasferire nelle sedi più disagiate e lontane e di svolgere mansioni anche pericolose, nella ferrea volontà di non abbandonare i vantaggi di un "posto fisso" sacralizzato e assurto a missione di vita. Nel corso delle tante prove a cui è sadicamente sottoposto da una dirigente ministeriale pronta a tutto pur di fargli rassegnare le dimissioni, il protagonista trova l'amore e, per amore, decide alla fine di rinunciare alla sua battaglia - che nel frattempo aveva comunque vinto riprendendo possesso del suo vecchio ufficio - e di stabilirsi in Africa con la sua nuova famiglia.
La vicenda, paradossale come ha da essere un racconto didascalico ad absurdum, è quella di un romanzo di formazione in cui il protagonista diventa adulto affrontando le peripezie dell'intreccio fino ad approdare a una vita più consapevole e ricca. Per questo più che l'autorazzismo - che derubricherei a collaterale autoironia, anche considerando i precedenti dell'autore - ciò che mi è sembrato sostanziare il messaggio del film è una ben più angosciante promozione della precarietà e dello sradicamento come condizioni non solo inevitabili, ma anche desiderabili in quanto vie alla crescita interiore, sociale ed affettiva.
All'inizio del film il non più giovane Checco è un bamboccione di 38 anni viziato ed egoista che vive con i genitori, coltiva una storia d'amore senza amore, si reca in ufficio poco prima di mezzogiorno per svolgere un lavoro presumibilmente poco qualificato e difende con le unghie il piccolo mondo dorato garantitogli dal "posto fisso" in Provincia. Vive così, senza pensieri né progetti, avendo come massimo problema una quaglia cucinata male dalla fidanzata o non frollata a dovere dal cacciatore che gliela dona per ingraziarsi il rilascio di una concessione. L'irrompere dell'antagonista, l'efficientissima e arrivista dottoressa Sironi (si noti il cognome lombardo), che lo spedisce in mezzo mondo per indurlo a dimettersi, porta il provinciale Checco a confrontarsi per la prima volta con la complessità e i problemi di realtà a lui sconosciute: la persecuzione dei No TAV, le gabbie degli immigrati a Lampedusa, il surriscaldamento e l'inquinamento dei poli, l'ordinata ma sofferente civiltà scandinava, la piaga della 'ndrangheta, la miseria del continente africano.
Per quanto sempre ostinatamente aggrappato al "posto fisso", Checco si adatta velocemente a ogni nuova esperienza e ne trae occasione per abbracciare culture e valori diversi dai suoi, come quando, nella breve estate norvegese di Bergen, si identifica comicamente con la cultura locale imparandone la lingua e le usanze e schifando, da buon italiano all'estero, tutto ciò che è italiano. In questo percorso di sprovincializzazione a tappe forzate è affiancato da Valeria (pessimamente interpretata da Eleonora Giovanardi), una scienziata di cui si è innamorato e che rappresenta il personaggio più emblematico e disumano della storia.
Disumano perché pretenziosamente ultraterreno e perfetto, mediatrix ac via salutis nel percorso di redenzione (?) del protagonista. Valeria è infatti la negazione vivente di ogni riferimento antropologico e identitario, idolo caricaturale di una vita fluida senza radici né certezze, che solo l'inganno della fiction può preservare dalla disperazione e dal caos. Al contrario di Checco, la giovane ricercatrice sembra non avere né genitori né patria. Vive con tre figli ai quali parla in inglese, messi al mondo rispettivamente con un africano, un filippino e un norvegese. Quest'ultimo gira nudo per casa davanti ai bambini in attesa di celebrare di lì a poco un matrimonio omosessuale con un uomo di colore. La stessa Valeria, si scopre, ha avuto in passato una storia lesbica e forse addirittura una zoofila. Momentaneamente lavora al CNR di Ny-Ålesund ma in passato ha girato il mondo - e gli uomini - e non ci pensa due volte quando si tratta di lasciare il posto da ricercatrice per seguire l'amato Checco nel cuore della Calabria. Schifando gli inviti alla cautela dei suoi colleghi, qui si scoprirà imprenditrice fondando uno zoo didattico con gli animali selvatici sequestrati ai boss. Quando poi l'iniziativa naufraga per il venir meno dei fondi e dei patrocini - pare immaginarsi su pressioni della 'ndrangheta - eccola di nuovo in pista: impacchetta le sue cose e i suoi apolidi bimbi (che, ça va sans dire, non si erano mai integrati nella xenofoba provincia calabrese) e si trasferisce in Africa.
A questo punto Valeria chiede a Checco di rinunciare al "posto fisso" per seguirla, ponendo un dilemma esistenziale dove, in un incredibile rovesciamento che tradisce il senso politicamente perverso del racconto, la solidità della famiglia è messa in concorrenza con la sicurezza economica e lavorativa dei suoi membri. Checco rifiuta, ma quando scopre che Valeria sta per mettere al mondo la figlia concepita con lui, la raggiunge in Africa dove ancora, per la seconda volta, gli è chiesto di rinunciare alla certezza dell'impiego pubblico per congiungersi con la ritrovata compagna. In una scena finale assurda nella sua apparente catarsi, Checco finirà per firmare le dimissioni tra i sospiri di sollievo della dottoressa Sironi, di Valeria e finanche dei figli adottivi (e immaginiamo anche del pubblico), con un gesto che nell'economia della narrazione vuole essere non solo coraggioso e liberatorio, ma anche suggello di un sofferto percorso di crescita interiore: dall'egoismo all'amore, dalla paura all'intraprendenza, dalla provincia al mondo.
Come ho anticipato, pur riconoscendovi alcune poco gradevoli concessioni ai luoghi comuni dell'antitalianità e del supposto parassitismo statale, trovo che la cifra più inquietante del film di Zalone risieda appunto in questa glorificazione della precarietà in quanto via all'emancipazione da una condizione - quella della "Prima Repubblica" - che si presume viziata da egoismo, chiusura all'altro e gretto attaccamento a privilegi insostenibili e osceni in un mondo che soffre. Al milionario Zalone sfugge comprensibilmente che quelli che lui chiama "privilegi", per quanto li si possa rappresentare grottescamente e pur tra gli abusi che certamente esistono, sono ciò che permettono a milioni di persone di vivere, specialmente in un paese dove la desertificazione di imprese e posti di lavoro galoppa.
Confondere lo stipendio con il "privilegio" e il diritto con il suo eventuale abuso è un caso di falsa sineddoche, dove un dettaglio di costume è assurto a rappresentare il tutto. La certezza di uno stipendio fisso - che è poi la normale contropartita di un lavoro fisso, cioè di una continuità che il lavoratore garantisce al proprio datore - non è soltanto una rete di protezione contro la miseria, ma anche un fattore di sviluppo economico. È ciò che permette di onorare le rate di un mutuo, di acquistare un'automobile e di pagare le bollette e le assicurazioni a chi non dispone di un patrimonio sufficientemente ampio a cui attingere, contribuendo così alla prosperità di quei mercati.
In quanto al cosmopolitismo del self-made man a cui Zalone ammicca nel suo film, è una cosa per ricchi contrabbandata ai poveri. Se per il ricco il mondo è un bazar di opportunità dove investire e intraprendere, per il povero è un territorio sconosciuto dove elemosinare la sopravvivenza che gli è negata in patria, in balìa di chi ne sa sfruttare i talenti e in concorrenza con le popolazioni locali. È vieppiù triste che una retorica così nauseabonda sia espressa dal pugliese Zalone, il cui successo deve avergli fatto dimenticare l'epopea dei tanti meridionali costretti a lasciare quelle terre bellissime per impiegarsi nelle miniere e nelle fabbriche di altri paesi, contribuendo loro malgrado all'abbandono e al declino dei luoghi di origine. Una storia vera e quindi ben diversa dalla fiabesca intraprendenza dei suoi due protagonisti, che ci si vorrebbe far credere baciati dal successo perché ottimisti, incoscienti e sempre pronti a imbarcarsi verso nuove avventure.
Non contento di avere insultato la dignità di un lavoro garantito secondo Costituzione, Zalone sembra poi prendersela con la famiglia e la comunità locale, che nel film diventano luoghi simbolo di un tradizionalismo soffocante e senza sbocchi. A queste prigioni immaginarie si contrappone la figura di Valeria, eroina promiscua senza radici né identità, maschera liquida che abita ovunque nel mondo e quindi in nessun luogo. Anche in questo caso si dimentica - o si vuole dimenticare - l'importanza dei legami famigliari e sociali non solo in quanto presidi di solidarietà, ma anche come luoghi di identificazione e cultura.
Ma forse il messaggio più ripugnante del film è anche quello apparentemente più positivo. Come ultimo atto della vicenda narrata, ma primo della sua nuova vita, l'ex impiegato Checco devolve una grossa parte della sua liquidazione per l'acquisto di farmaci da inviare a un disastrato ospedale africano. Il gesto dovrebbe segnare il passaggio da una "vita misera spesa a difendere i [propri] privilegi" (nelle parole messe in bocca allo sciamano che raccoglie la confessione di Checco) a una ritrovata generosità e attenzione all'altro che finisce per contagiare persino la gelida Sironi. Il che suggerisce, in modo niente affatto velato, che nella difesa del "privilegio" l'essere umano si chiude a riccio escludendo dal suo orizzonte non solo gli affetti (Valeria) ma anche la sofferenza di chi non ne è partecipe. Il messaggio che ne risulta è rivoltante per quanto antico: che cioè privandoci della tranquillità economica ci scopriremmo più vicini a chi soffre, e pertanto più generosi.
Il film di Checco Zalone non mi ha fatto ridere né sorridere perché - fosse anche per un semplice caso di conformismo intellettuale - cavalca senza scrupoli le retoriche di distruzione della residua dignità economica, lavorativa e persino culturale della nostra classe media. Nel predicare la precarietà come opportunità e lo sradicamento come maturità il film brandisce un miraggio a cui fin troppe persone stanno già abboccando, consegnando i propri diritti in cambio di una promessa evanescente come lo è appunto una favola cinematografica. All'assunto - falso - che le tutele del lavoro dipendente avrebbero prodotto la recessione economica presente ("ed i debiti (pubblici) s’ammucchiavano come i conigli tanto poi eran cazzi dei nostri figli" canta l'economista di Capurso), Zalone aggiunge l'assunto - ancora più falso - che le stesse tutele ci renderebbero moralmente peggiori. E che pertanto dobbiamo disfarcene. A tutto vantaggio - ma questo Checco non lo canta - di chi otterrà lo stesso prodotto con minor costo e ci ricollocherà come merci laddove ve ne fosse bisogno nel mondo.
Personalmente spero che Checco Zalone e i suoi autori siano abbastanza ricchi da non essere stati pagati per produrre un'opera di così subdola propaganda delle politiche di precarizzazione e impoverimento in atto. Spero, e credo, sia solo uno dei tanti casi recenti di ordinaria stupidità, anche da parte di chi guardandolo ha riso invece di riconoscervi la propria disgrazia.
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