(questo articolo è disponibile anche in versione spagnola)
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L'idea che si debba togliere ai ricchi per dare ai poveri era già in voga nella foresta di Sherwood del secolo decimoterzo. Il suo leggendario inquilino, Robin Hood, incarna nella fantasia dei popoli il riscatto dalle ingiustizie e dall'ingordigia dei potenti. Robin Hood e l'epigono Zorro sono i beniamini degli oppressi, anche se in fondo hanno tutte le carte in regola per non dispiacere nemmeno agli oppressori. Perché la giustizia di questi eroi buoni non aspira a cambiare le leggi (sono infatti dei fuorilegge) né il sistema economico e sociale che produce i soprusi. Non sono dei rivoluzionari, anzi. Nelle rispettive vulgate appartengono entrambi alle stesse élites contro le quali combattono, suggerendo così che la classe dominante ha in sé gli anticorpi per disciplinare i suoi eccessi grazie alla generosità dei suoi esponenti e alla pratica trickle down dell'elemosina. Una leggenda bipartisan, quella del signor Hood, tanto bella quanto paternalistica e conservatrice: anestetizza le coscienze politiche dei dominati promettendo loro una vittoria tutta letteraria e, così facendo, preserva i dominatori da ben più concrete rivendicazioni e rivolte.
Come ogni mito, anche quello di Robin Hood è senza tempo. Ai giorni nostri non rivive soltanto nei supereroi di fumetti e cartoni animati ma anche in soggetti in carne ed ossa che sognano di trasformare le gesta dell'eroe britannico in un programma di riforma politica.
Esattamente come i giustizieri delle fiabe, questi messaggi accendono nelle masse l'illusione demagogica di una via al riscatto economico tanto seducente quanto irreale, assorbendone funzionalmente l'impegno politico nella celebrazione di una bella fiaba - alias gatekeeping.
La patrimoniale sulle grandi ricchezze è la versione moderna e istituzionale dell'arco di Robin. A sinistra quasi tutti la chiedono: politici, sindacalisti ed economisti à la carte come Thomas Piketty. Ma ce la chiedono anche - ohibò! - i banchieri della Bundesbank e gli strozzini del Fondo Monetario Internazionale. Strano, vero? Mica tanto.
Procediamo con la consueta pedanteria.
- Nel perseguire l'equità sociale togliendo a chi ha di più invece di dare a chi ha di meno si ripropone un'etica del livellamento verso il basso già vista e sperimentata nel lavoro (togliere diritti e salari ai lavoratori tutelati per portarli al livello dei precari), nel mercato (competere con i paesi che praticano lo schiavismo de facto) e nella glorificazione del migrante intraprendente e frugale da cui dovremmo prendere esempio. È un gioco al ribasso dove vince solo chi non partecipa.
- La patrimoniale è un'arma di distruzione di massa del residuo benessere legale. Il compagno Rocher vorrebbe fissare la soglia di applicazione alla cifra tonda del milione, ma una volta introdotta la logica del prelievo nulla vieta di rivedere l'importo a ogni nuova legge di stabilità - come è ormai prassi con qualunque parametro fiscale. Necessariamente al ribasso, perché nel frattempo i patrimoni aggredibili da cui attingere gettito si saranno assottigliati per effetto dei prelievi precedenti.
- La tassa di Robin Hood nasce dall'invidia e produce conflitto sociale. Va ricordato ai compagni (?) che la la lotta di classe si fa tra lavoratori e capitalisti, non tra lavoratori poveri e lavoratori benestanti. Il parametro della ricchezza non distingue il risparmio dei cittadini dal capitale finanziario, anzi colpisce inevitabilemente il primo in quanto la liquidità degli speculatori è volatile, poco tracciabile e transnazionale quando non estera tout court, quindi non assoggettabile alle leggi nazionali.
- La patrimoniale rappresenta una strisciante variazione del divide et impera. Nell'aggredire i più benestanti tra gli aggredibili (cioè i più ricchi tra i poveri, dato che i veri ricchi hanno i patrimoni al sicuro) si riveste di una patina di giustizia sociale che impedisce alle classi aggredite di solidarizzare contro l'esproprio. Se un'IMU da salasso - che è una patrimoniale - colpisce i proprietari di seconde case, i più poveri fanno spallucce: "Io manco ci ho la prima". Se il bail in - che è una patrimoniale per salvare gli Stati dai salvataggi bancari - colpisce i risparmi sopra i 100 mila euro, i più poveri si consolano: "Io ci ho il conto in rosso". Finché toccherà proprio a loro, gli ultimi: indirettamente (ad es. con un bail in a carico dei loro datori di lavoro) o direttamente (vedi Danimarca).
- Nel nostro ordinamento il patrimonio, come i consumi, è un'indice induttivo di capacità contributiva in quanto presuppone un reddito sufficiente a mantenerlo. Ma se tassare direttamente i consumi è regressivo (v. l'IVA su questo blog e nell'analisi costituzionale di Marco Mori), tassare direttamente i patrimoni è regressivo al quadrato perché la ricchezza non investita (ad esempio la casa non affittata o il deposito bancario a condizioni standard) è un costo, cioè un reddito negativo.
- Il tweet succitato dà la misura del carattere sgangherato e surreale dei patrimonialisti, laddove in barba alle basi della ragioneria vorrebbero finanziare un flusso (il reddito minimo) con uno stock (la ricchezza). La confusione mentale obnubila dunque il fatto che il benessere economico non è un bene cumulabile e trasmissibile ma va creato e mantenuto nel tempo. Chi si candida a governare da sinistra non dovrebbe darsi alla voga padronale delle mance ma creare le condizioni affinché tutti vivano dignitosamente del proprio lavoro. Ah già, il lavoro. A che serve il lavoro quando si possono togliere soldi dai forzieri dei ricchi e bonificarli agli indigenti? Lavoreranno i soldi per noi!
- Ma al netto di tutto, l'utile patrimoniale che alberga nelle menti dei sinistri è semplicemente irrealizzabile. Nella storia non si è mai dato che i ricchi cedano i propri averi senza guerre e rivoluzioni, ma anche in quei casi il frutto dell'esproprio finisce di norma nelle casse di altri ricchi. Si capisce allora perché nei templi della finanza si fregano le mani: a loro non tocca, tanto più in Paesi che per sopravvivere hanno scelto di dipendere dai loro prestiti e dove lo spread conta più della mortalità infantile. Le regole le fa chi tiene la borsa, sicché mentre il sig. Ikea paga lo 0,002% di tasse e Mark Zuckerberg imbosca le plusvalenze fingendosi filantropo, nella tonnara della patrimoniale finiranno i pesci piccoli (cioè medi) e i proventi andranno a ingrassare i crediti dei nostri padroni. Con le regole attuali, Robin Hood ruba ai ricchi per dare ai più ricchi. Tra gli applausi dei centri sociali.
L'aspetto più mortificante di questa battaglia è che non solo non mette in discussione la politica economica che produce l'indigenza, ma anzi la glorifica e la cristallizza accettandone la dialettica come inevitabile e "naturale". Nel presentare la diseguaglianza come un problema di distribuzione del denaro - e non dei mezzi di produzione, come insegnava un maestro barbuto che citano sempre ma non leggono mai - i nostri giustizieri concedono supinamente alla moneta i falsi attributi che la retorica del capitalismo finanziario ha elaborato per farne uno strumento di dominio dei popoli, e cioè il suo valore intrinseco e la sua scarsità.
Ma i quattrini, cioè il capitale, non hanno valore in sé. Quelli di Giovanni Senzaterra almeno erano d'argento, mentre oggi sono fiches virtuali, astrazioni numeriche per scambiare i beni prodotti dal lavoro. E la loro scarsità è istituzionalmente perseguita da una banca centrale che non deve servire i popoli ma preservare il valore dei crediti e dei capitali dei suoi investitori privati - cioè altre banche - dall'inflazione. Poi chi sta sotto si scanni pure per un tozzo di euro, chè la concorrenza fa tanto bene ai poveri (mentre loro, i banchieri, non hanno mai partecipato a una gara d'appalto per gestire la moneta degli Stati).
Chi crede il contrario, che il capitale sia stato creato l'ottavo giorno della Genesi per liberarci dal bisogno, alimenta un feticismo del soldo che sta consegnando il governo del mondo a un manipolo di ludopatici improduttivi. E farlo credere ai lavoratori e agli affamati equivale a fargli idolatrare lo strumento che li affama. Per farne cosa, poi? Per comprare le merci dei ricchi momentaneamente espropriati e ricominciare da capo? Geniale.
I milionari - che allora si chiamavano miliardari - c'erano anche negli anni in cui in Italia la possibilità di condurre una vita decente era alla portata dei più. E nei programmi politici non si parlava di estorcere loro l'elemosina. Si percorreva la via più dignitosa dell'investimento pubblico, dell'impiego dipendente e dell'economia mista, incoraggiati e tutelati dalle leggi e dalla Costituzione, grazie a cui i lavoratori si garantivano un'indipendenza economica e un benessere che, nel bilancio sociale, accorciavano le distanze tra le classi senza espropriare nessuno.
Era un sistema ovviamente perfettibile, ma da cui forse vale la pena ripartire recuperandone l'insegnamento: che cioè gli oscenamente ricchi non sono tali perché il denaro - quasi sua sponte e per dispetto ai poveri - si è concentrato nelle loro casse, ma perché le politiche di oggi concedono loro un vantaggio esplicito e ingiustificato. E non sono così potenti in quanto ricchi, ma perché le stesse politiche impiccano i governi e la vita di milioni di individui ai loro capitali.
Ma le politiche le fanno gli uomini, non la signora TINA. Il ruolo e la proprietà del denaro si possono ridefinire per non doverlo adorare e centellinare quasi fosse il sangue di Cristo. E la ricchezza della collettività può essere ricollocata nel lavoro di chi può contribuire al suo sviluppo reale e delle aziende che ancora sopravvivono in condizioni quasi incompatibili con la vita economica. Forse non è ancora troppo tardi, ma è già chiaro che non si potrà contare su coloro che, già nemici del capitale in tempi mitologicamente remoti, oggi lo inseguono come l'asino insegue la carota. Al grido della sinistra duepuntozero: Accattoni di tutto il mondo, unitevi!
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