È uscito il libro delle Arie Pedanti!
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L'ignoranza è speranza


Nel cosmo immaginario de Il Signore degli anelli, il capolavoro narrativo di John R. R. Tolkien pubblicato tra il 1954 e il 1955, i palantíri sono sfere di cristallo fabbricate dagli Elfi di Valinor «in giorni così lontani che il tempo non può misurarsi in anni» per osservare e comunicare a distanza. Le sfere potevano collegarsi tra di loro (esisteva anche un «server» centrale che le controllava tutte, il palantír custodito nella Cupola di Stelle, a Osgiliath) e persino mostrare eventi lontani nello spazio e nel tempo, da cui il loro appellativo di «Pietre Veggenti». Dei molti esemplari realizzati e poi perduti o distrutti nel corso dei secoli, all’epoca in cui si svolgono i fatti narrati ne risultavano attivi soltanto tre, rispettivamente al servizio di Sauron, lo spirito malvagio che minaccia i popoli liberi della Terra di Mezzo, lo stregone Saruman e l’umano Denethor, sovrintendente del regno di Gondor. Tra gli oggetti magici che appaiono nel racconto, i palantíri occupano un ruolo preminente nello sviluppo narrativo. È proprio dopo avere scrutato in una di queste pietre che il saggio Saruman si allea con l’Oscuro Signore e il valente Denethor rinuncia a combattere contro le truppe del male, finendo suicida.

Il palantír è anche letteralmente una televisione. In Quenya, la lingua elfica immaginaria di cui Tolkien ha composto una grammatica e un vocabolario, palan significa «lontano» (come il greco τῆλε) e tír «guardare» (come il latino vīsĭo). Per la sua versatilità può anche apparentarsi con le più moderne webcam, i videotelefoni e le altre applicazioni della rete internet che permettono appunto di «vedere lontano e trasmettersi i pensieri» da distanze inaccessibili ai sensi. Le sue stesse presunte proprietà divinatorie anticipano l’ambizione di prevedere gli eventi raccogliendo e analizzando in tempi rapidi enormi quantità di dati messi a disposizione dalle reti informatiche. Non è fortuito che la più importante società multinazionale oggi specializzata nell’elaborazione di scenari, «intelligenza artificiale» e big data porti il nome del manufatto elfico: Palantir Technologies. L'azienda, sviluppatasi anche grazie a un cospicuo finanziamento della CIA, si è guadagnata una certa notorietà per i suoi contributi al «predictive policing», l'inquietante frontiera di prevedere e reprimere i crimini prima che essi avvengano.

Le tre sfere disegnano un triangolo ideale al cui vertice si colloca Sauron, l’angelo caduto ingannatore e crudele impadronitosi della Pietra un tempo custodita a Minas Ithil, la fortezza numenoreana espugnata anni prima dai suoi demoniaci cavalieri. Sauron diventa il padrone assoluto ma occulto del «network» dei palantíri, di cui sfrutta la seduzione per manipolare le sue vittime ignare. I modi di questa manipolazione sono raffigurati dai due vertici inferiori del triangolo, Saruman e Denethor, che per ragioni diverse si lasciano irretire dalle visioni trasmesse dalle sfere fino a diventarne schiavi, nella tragica illusione di ricavarne sapienza e potere.

***

Il primo dei due era stato il capo degli stregoni, una sorta di casta sacerdotale amica dei popoli liberi e dedita alla magia bianca. Inizialmente saggio e di animo puro, era entrato in possesso della Sfera di Orthanc e vi aveva guardato sempre più spesso per accrescere il suo sapere. Questa sete disordinata di informazioni lo portò infine a collegarsi con Sauron in persona, che lo ammaliò rendendolo ambizioso e malvagio. La sfera, spiega Gandalf,

si dimostrò, senz'alcun dubbio, assai utile a Saruman; eppure evidentemente non gli bastava per renderlo soddisfatto. Guardò sempre più lontano verso ignoti paesi, finché posò lo sguardo su Barad-dûr [la fortezza di Sauron]. Ed allora fu reso succube! […] È facile immaginare con quanta rapidità l'occhio scrutatore di Saruman venne intrappolato e ipnotizzato, e come sia stato facile da allora persuaderlo da lontano e minacciarlo quando la persuasione non era sufficiente. Chi soleva mordere era stato morso, il falco dominato dall'aquila, il ragno intrappolato in una rete d'acciaio![1]

Saruman incarna l’intellettuale che stringe patti col male credendosi capace di governarlo de intus e di sfruttarne la forza per realizzare un bene superiore accessibile solo ai sapienti. Una siffatta sapienza, annota Elémire Zolla nella prefazione alla prima edizione italiana, è però una «falsa sapienza di mediatore fra bene e male, fra virtù e vizio». Quando riceve il collega Gandalf per tentare di coinvolgerlo nei suoi progetti, la veste del mago non è più bianca, bensì cangiante come i tanti «arcobaleni» odierni perché, continua Zolla, «se il bianco non è più tale vuol dire che è sparito, non già che sia confuso e infuso nel suo opposto, e chi infrange una cosa per scrutarla (analizzi il candore per scoprirvi altre cose) ha abbandonato la strada della sapienza»: perché la spregiudicatezza di abbracciare ogni mezzo conduce all'indifferentismo morale, e di lì al crimine. Ma ascoltiamo i dettagli di questo programma dalla viva voce dello stregone:

la nostra ora è vicina: il mondo degli Uomini che dobbiamo dominare. Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà, in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono [...] Una nuova Potenza emerge. Inutili sarebbero contro di essa i vecchi alleati e l'antico modo d'agire. [...] Questa è dunque la scelta che si offre a te, a noi: allearci alla Potenza. Sarebbe una cosa saggia, Gandalf, una via verso la speranza. La vittoria è ormai vicina, e grandi saranno le ricompense per coloro che hanno prestato aiuto. Con l'ingrandirsi della Potenza anche i suoi amici fidati s'ingigantiranno; ed i Saggi, come noi, potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo. Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all'alta mèta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare.[2]

Uno dei più fini studiosi di Tolkien ha osservato che in questo sermone

Saruman parla come un politico. Nessun altro personaggio della Terra di Mezzo possiede una tale capacità di ingannare l’ascoltatore mettendo in equilibrio le frasi per nascondere le contraddizioni e nessun altro se ne esce con parole così vuote come «deplorando», «l’alta mèta prefissa» e, peggio di tutto, «vero». Che cos’è il «vero cambiamento»?[3]

Che cosa sono, ci chiederemmo oggi, le «riforme strutturali», le «rivoluzioni», il «nuovo ordine» e le altre formule di palingenesi scodellate ai popoli dagli stregoni dell’economia e della scienza? Che cosa portano sotto l’involucro sgargiante della loro prosopopea? Una vera promessa di sviluppo o le brame onnipotenti di un manipolo esaltato dalla propria presunta superiorità ideale? Anche Saruman è un maestro di retorica. Colui che fu ammaliato dalle visioni ammalia con la voce, con un eloquio così sfrontato, suadente e apparentemente inattaccabile da riuscir quasi a riconquistare la fiducia di coloro che aveva cercato di uccidere. Ma il rancore e la sete di dominio che si celano sotto le sue lusinghe traspaiono nell’intento di mettere gli ascoltatori l’uno contro l’altro suscitando dubbi, competizione e invidie. Come i demagoghi odierni, ottiene la lealtà di tutti facendo sì che nessuno sia leale con l’altro; convince tutti convincendo ciascuno che il proprio prossimo sia d’ostacolo al raggiungimento dell’«alta mèta prefissa».

Per mostrare quanto sia ingannevole l’ambizione dello stregone, Tolkien ricorre a un’immagine più efficace di molti commenti. La fortezza in cui si è installato e che avrebbe dovuto essere il fulcro e il modello dell’Eden promessogli dalla Pietra, nella realtà assomiglia piuttosto a un inferno squallido e raffazzonato:

Una dimora inespugnabile e meravigliosa, quell'Isengard, che per tanto tempo era stata così bella! Ivi avevano vissuto grandi signori, i custodi di Gondor a occidente, e grandi saggi avevano da lì osservato le stelle. Ma lentamente Saruman l'aveva trasformata secondo i suoi nuovi scopi, credendo pazzamente di migliorarla; poiché tutte le arti e le sottili astuzie per le quali aveva rinnegato l'antica saggezza, e che s'illudeva d'aver inventato da solo, venivano da Mordor: ciò ch'egli faceva non era nulla, era semplicemente una piccola copia, un modello infantile o una lusinga di cortigiano, di quella immensa fortezza, prigione, armeria, fornace chiamata Barad-dûr, la Torre Oscura, il cui enorme potere non temeva rivali si beffava delle lusinghe e faceva ogni cosa con comodo, calma e sicura com'era col suo orgoglio e la sua forza smisurata.[4]

La lezione è chiara: chi presume di trarre un bene dall’iniquità alleandosi tatticamente con i suoi autori è destinato a riprodurre quella stessa iniquità in brutta copia, in modo altrettanto tossico ma senza la schiettezza e l’eroismo dell’originale.

Alcuni critici hanno anche messo in evidenza il carattere industriale dell’abbruttimento di Isengard. Dove un tempo sorgevano giardini ora domina una distesa arida da cui salgono i miasmi delle fucine e dei laboratori, per alimentare i quali Saruman si è messo a disboscare forsennatamente le selve circostanti. Queste devastazioni suscitano lo sdegno degli Ent, i misteriosi uomini-albero di Fangorn che incarnano il volto più indomito e ancestrale del mondo naturale. Risvegliatisi dal loro lungo vegetare, marceranno uniti contro lo stregone fino a sconfiggerlo.

Le numerose e pur condivisibili letture ecologisticiche di questa nemesi, di una natura destinata a rivoltarsi contro l’avidità e gli aborti del demiurgo moderno, mancano però spesso di denunciare proprio nella bulimia tecno-scientifica lo strumento principe di questo e di altri deliri di «guarire il mondo» con i soli saperi del mondo. Se i potenti manufatti degli elfi riflettono un rapporto spirituale con il creato, un «enchantment» rispettoso del suo mistero, nei marchingegni maleodoranti dello stregone-tecnocrate si legge invece la rabbia di chi, inaridito lo spirito, persegue un progresso tutto materiale e vede perciò nelle leggi imponderabili e irriducibili alla ragione degli uomini un ostacolo odioso da liquidare.[5] Vi si indovina la silhouette del progressista che per migliorare il mondo lo sfregia, per servirlo lo domina, per esaltarlo lo schifa. L’ultima frontiera di questa soteriologia dispotica e violenta è quella preconizzata dall’Huxley del Mondo nuovo e poi sdoganata nel dibattito e nella pratica dei nostri giorni: la manipolazione della vita, l’espugnazione del mistero aborrito. Transumanista ante litteram, Saruman apprende da Sauron anche l’arte mostruosa di incrociare gli orchi con gli esseri umani per ottenere una razza più resistente e crudele: gli Uruk-hai. La promessa della salvezza tecnica di elevare la vita con le macchine reclama la macchinizzazione della vita, il suo azzeramento ontologico.

Ma i fantasmi di gloria eccitati dai cristalli corrotti del palantír si realizzano all’inverso, nella caduta continua dell’uomo svuotato di sé. Dopo avere perso la sua dimora-fabbrica e le sue truppe, Saruman perderà anche i poteri e finirà prima mendico e poi a capo di una masnada di ladri. Come tutti i traditori rimarrà senza amici e alla fine troverà la morte per mano del suo ultimo compagno, quel viscido Grima che lo aveva servito per anni e che perciò lo odiava più di qualsiasi nemico, per essere stato più a lungo ingannato.

***

Diverso, ma non meno tragico, è il destino del sovrano Denethor. Anch’egli possedeva un palantír («il più strettamente legato a quello posseduto da Sauron») e vi aveva scrutato sovente, ma «era troppo grande per essere assoggettato al volere dell'Oscuro Potere». Inoltre non nutriva la sterminata ambizione di Saruman, avendo come solo desiderio quello di restituire alla pace e alla prosperità il regno affidatogli: «che ogni cosa tornasse a essere com'era durante tutta la mia vita». Per fare di lui un inconsapevole complice del suo trionfo, Sauron dovette perciò adottare una strategia diversa che oggi definiremmo della «falsa sineddoche», sulla scorta di una felice analisi di Vladimiro Giacchè.[6] Chi ricorre a questo artificio, così frequente e centrale nell’odierna comunicazione di massa, riporta al pubblico solo alcuni selezionati dettagli di un evento che, per quanto in sé veri, creano una percezione falsa o persino inversa dell’intero tacendo altre e più significative parti dell’informazione. Così anche Denethor nella sfera

vide soltanto le cose che [Sauron] gli permise di vedere… Le Pietre Veggenti non mentono, e nemmeno il Signore di Barad-dûr può costringerle a mentire. Può forse scegliere ciò che vuole mostrare alle menti più deboli, o far loro fraintendere il significato di quel che vedono. Tuttavia non si può mettere in dubbio che quando Denethor vide che grandi forze venivano preparate e persino radunate per entrare in guerra contro di lui, non vide altro che il vero.[7]

Il Signore di Gondor, convinto di spiare e anticipare le mosse del nemico, non si avvide che era proprio quest’ultimo a selezionare le sue visioni in modo da esaltare la forza e il numero delle truppe di Mordor e da nasconderne le difficoltà. Giorno dopo giorno nell’anziano sovrano si andò così rinforzando la convinzione della futilità di combattere: «la visione dell'enorme potenza di Mordor che gli veniva ripetutamente mostrata alimentò nel suo cuore la disperazione, a tal punto da sconvolgergli la mente».[8]

Tolkien descrive gli effetti psicologici di questa tele-manipolazione con un binomio: «orgoglio e disperazione». La disperazione di vincere così indotta da una propaganda occulta non produce umiltà e remissione, bensì un aristocratico sprezzo degli sforzi altrui, un orgoglioso rinchiudersi nella presunzione di saperne di più. Denethor paga «cara tale scienza, invecchiando prima del tempo». Dei vecchi egli possiede non solo il pessimismo, ma anche la scontrosa superbia: inacidito, sarcastico e diffidente, nel mezzo di una battaglia decisiva si ritira nella sala del trono e da lì insulta Gandalf che lo sprona a prendere il comando chiamandolo «Grigio Stolto» e insinuandone la malafede. Ormai in preda a un cinismo dissacrante, definisce il re venturo a cui la sua stirpe dovrà riconsegnare lo scettro come «l'ultimo di una cenciosa dinastia».[9]

Tra le tante armi della guerra psicologica, la demoralizzazione patita da Denethor è forse la più sottile e distruttiva perché colpisce in special modo gli incorruttibili e gli intelligenti. All’inizio li attira nel suo gorgo facendo leva sulla loro fame di conoscenza: qui suona il canto della sirena dei giornali e delle news che si compulsano a ogni ora del giorno e della notte sullo schermo dei telefonini – incarnazioni definitive e fedeli del palantír tolkeniano in scala globale. Il «cittadino informato» si trova così ostaggio dell’informatore, la cui azione corrosiva si esercita non tanto in modo diretto, dando cioè solo spazio e supporto ai trionfi dell’antagonista, ma più ancora lasciando che nei suoi contenitori si diffondano senza filtri indignazione, denunce e testimonianze di sofferenza. Questi messaggi di sconfitta, sebbene quasi sempre autentici e sinceri, si moltiplicano però oltre la normale percezione e sopportazione e magnificano specularmente le vittorie della parte nemica, se non altro per il fatto di ricalcarne il dettato tematico.

Il soggetto «denethoriato» si trova così progressivamente svuotato di ogni prospettiva e per non ripetere stancamente ciò che reputa inutile o disfunzionale distoglie il suo senso critico dall’obiettivo per razionalizzare la presunta disfatta. Penosamente illuso di possedere tutti i pezzi del puzzle (ma in realtà solo quelli che il Sauron di turno gli ha messo nel piatto), si rivolge dunque contro i compagni di lotta addebitando loro ignoranza, insipienza, vanità, doppi fini, fino a concludere che in fin dei conti «se lo meritano». Troppo integro per darsi al nemico, si presume troppo scaltro e informato per sostenere gli amici. Dalla cima della sua alta torre lancia allora indistinti sarcasmi[10] non avvedendosi o non curandosi del fatto che, come avverte Gandalf, «simili decisioni non potranno che rendere certa la vittoria del Nemico». E in effetti, l’elegante terzismo con cui spera di sfuggire a nuove delusioni non può che tradursi, nell’equilibrio di forze dato, in una cooperazione piena con l’aggressore: precisamente come era nei piani iniziali. A necessaria conclusione della sua parabola nichilistica Denethor si toglierà la vita immolandosi sull’altare dei padri e tenterà anche di trascinare con sé nel rogo il valoroso figlio Faramir, a dimostrazione di quanto il suo recedere lo abbia invece reso disciplinatamente complice e servo di una sola parte: quella sbagliata.

***

Nelle vicende dei palantíri elfici, Tolkien incardina una riflessione di rara finezza sui risvolti occulti della «società dell’informazione». Al di là della (non sempre) ovvia constatazione che le informazioni che ci dovrebbero rendere critici, consapevoli e indipendenti provengono quasi sempre da fornitori che rispondono proprio a coloro da cui vorremmo emanciparci, le questioni sollevate toccano più in profondità il rapporto tra scientia, sapientia e potentia. Le Pietre Veggenti trasmettono dati grezzi, disordinati e spesso corrotti dalla malizia di chi le manovra. Il loro utilizzo, si ripete spesso nel romanzo, deve perciò riservarsi soltanto a coloro che posseggono la necessaria disciplina interiore per non farsi ammaliare dai loro bagliori. Questa distinzione tra la nozione (scientia) e la capacità innanzitutto morale di vagliarla e metabolizzarla (sapientia) si è perduta pressoché del tutto nella civiltà partorita dall’ammucchiata enciclopedica degli illuministi e approdata alla bulimia babelica della rete internet, delle statistiche e dei mass media a ciclo continuo. Oggi viviamo sommersi dalle «notizie» e dai «dati» con la duplice illusione 1) che da questa mole disgregata e volatile di «materia prima» possa strutturarsi per accumulo un pensiero e 2) che si tratti davvero di «materia prima» e non invece di residui masticaticci, ridondanti e selezionati a monte da altri. Mancando il tempo e la capacità di elaborazione per strutturare una tale inondazione di detriti cognitivi spesso in contraddizione reciproca o anche del tutto privi di senso, ci aggrappiamo necessariamente alla boa di un’autorità che ne certifichi la bontà e la «retta» interpretazione. La sognata emancipazione si risolve così in un attaccamento fideistico e puerile alla mammella dell’«esperto» di turno, nella delega del pensiero e del libero arbitrio.

Con i palantíri telefonici distribuiti in ogni tasca e perennemente connessi a sterminati database si è realizzata la più mastodontica accumulazione di saperi della storia umana. Quale miglior comprensione della realtà ne è venuta? Quale saggezza, quale pace tra i popoli, quale felicità o libertà? Quali vantaggi cognitivi e mnemonici, trattandosi di pròtesi esterne? Se il banchetto delle informazioni si è arricchito, le bocche si sono rimpicciolite, gli stomaci atrofizzati.

Ancora più fallace è l’idea che da questa visione aumentata derivi un maggior potere sulla propria vita individuale e sociale. Se il potere, lo ripetiamo, è casomai di chi produce l’informazione e non di chi la ingolla dalla mangiatoia mediatica, i due casi narrati suggeriscono che piuttosto muta e si distorce l’idea di potere, che la scissione tra il campo fisico e il campo immaginato sterilizza nella mente il possibile esaltandolo (Saruman) o mortificandolo (Denethor) oltre la realtà. Lo stregone e il reggente tradiscono gli altri perché tradiscono innanzitutto sé stessi. Nell’anteporre le visioni lontane alla cosa esperita dimenticano la propria storia e la propria missione, diventano anch’essi liquidi come le chimere proiettate dai cristalli, manipolabili dal nemico e assenti da sé.

Oggi è ordinario vivere protèsi nelle rappresentazioni al di là del dominio sensibile, realizzando anche alla lettera la metafora platonica della caverna. Credendosi lanciato alla conquista dei segreti del mondo, l’homo connexus si lascia piuttosto invadere e saturare dalle ombre ambigue del mondo uscendone stravolto nelle emozioni e negli intenti. La sua mente sempre estroversa dimentica l’introspezione e la prossimità: dialoga ininterrottamente con persone distanti chilometri togliendo tempo e attenzioni a chi lo circonda; si indigna per ciò che si dice o si pensa in altri continenti mentre pensa e dice le cose più indegne; desidera vite e luoghi «perfetti» che gli fanno apparire squallidi i propri; segue in tempo reale i dibattiti nelle aule del potere e li chiosa nelle «piazze» virtuali provando l’ebbrezza di parteciparvi davvero o, quando poi scopre di esserne solo uno spettatore inascoltato, una rabbia altrettanto intossicante. I suoi problemi sono di norma lontani: il governo, i «complottisti», i magnati d’oltreoceano, la sinistra e la destra, l’«italiano medio» (sì, crede che esista davvero, ché avendo annacquato nell’etere l’individualità propria non può riconoscerla negli altri).

Ancorché falsa in partenza, quest’ultima profezia finisce comunque per autoavverarsi perché la telespezione, riproducendosi identica in ogni suo nodo, fa apparire universale ciò che è particolare e reale ciò che è in effige. Una cosa esiste se tutti credono che esista. Sicché il telespettatore è telecomandato: pensa ciò che gli si comanda e lo avvera pensandolo, e di quell’esistere ha conferma specchiandosi nel pensiero degli altri. Crede alle cose lontane del ministro, dello scienziato e del tele-giornale più che alle percezioni proprie e vicine, che per voler essere consapevole e lungi-mirante si affretta a derubricare ad aneddoti, eccezioni, colpi di fortuna o sfortuna. Ciò che poteva liquidarsi con una scrollata di spalle diventa così prima pagina e metro di condotta dei popoli. Sta dunque qui anche la premessa tecnica delle costruzioni «globali», il segreto per imporre le stesse cose ovunque e a chiunque: nell’universalità di un pensiero che superi le varietà delle identità vissute collocandosene al di sopra e al di fuori. Appunto, lontano.

***

Esiste una lontananza buona? Gli eroi de Il Signore degli Anelli ricorrono spesso a canti e profezie tramandati da un passato remoto per interpretare il presente e prepararsi a ciò che serba il futuro. È anche questa una lontananza, ma di tipo storico e verticale, che porta il frutto pazientemente distillato nei secoli dalle generazioni e dai testimoni più saggi, contrapponendosi perciò in tutto alla distanza geografica e orizzontale delle epifanie delle Pietre: là c’è meditazione, qui emozione; là struttura, qui giustapposizione; là nitidezza anche formale, qui ambiguità, inganno, confusione. Dall’accostamento dei due approcci scaturisce l’invito a ricercare la sapienza nelle voci antiche di chi ha già vissuto, elaborato e corretto ciò che a noi sembra nuovo, piuttosto che lasciarsi rintronare dai lampi della cosa presente: la sapienza delle religioni e dei miti ma anche quella, pur di rango inferiore, delle filosofie e delle arti. In questi tesori c’è molto, ma non tutto, perciò occorre concedere spazio al mistero, il cui rifiuto porterebbe altrimenti a compulsare febbrilmente i palantíri aderendo a quella sottospecie di gnosi oggi in voga di sorvegliare tutto e tutti per annullare l’azzardo e mettere in scacco la Provvidenza, sì da sognare l’onnipotenza con l’onniscienza materiale.

Altrettanto buona è la lontananza sottesa dal viaggio che vede impegnata la compagnia dell’Anello. Nel viaggio la lontananza si fa esperienza e si incorpora nell’identità del viaggiatore che dei luoghi lontani diventa protagonista o almeno coautore, secondo un modello di scambio ben diverso dalla passività a senso unico di chi osserva dal monitor di un palantír elfico o digitale (o dalle camere di un resort). Perché ciò avvenga serve però un’identità da scambiare, che va coltivata prima di affrontare le tentazioni e i patimenti del cammino. Come le sfere, viaggio e sapere non sono per tutti o quantomeno richiedono un sé a cui tenersi fedeli, una pedagogia che si esercita nei modi raccomandati dai sapienti di tutte le epoche (eccetto la nostra): la virtù nelle cose a sé prossime, il distacco dal rumore del mondo e della sua «attualità». Quale modo peggiore di incominciare la giornata se non ascoltando una rassegna stampa? E quale modo migliore di condursi prima di una battaglia se non ripetendo senza vergogna «non mi interessa, non so»? Se l’avvizzito Denethor grida a Gandalf che «la tua speranza non è che ignoranza» allora non può che essere vero il contrario, che sì, una tale ignoranza è speranza.

  1. J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Libro Terzo, Cap. XI.

  2. ivi, Libro Secondo, Cap. II.

  3. Tom Shippey, The Road to Middle-Earth, Allen & Unwin, 1984.

  4. J.R.R. Tolkien, op. cit., Libro Terzo, Cap. VIII.

  5. Patrick Curry interpreta gli opposti poli di enchanment e magic teorizzati da Tolkien (essendo il secondo «non un’arte, ma una tecnica [il cui] intento è il potere in questo mondo, la dominazione delle cose e delle volontà») applicandoli rispettivamente alle creazioni degli elfi e di Saruman (J.R.R. Tolkien, Tree and Leaf, Unwin Hyman, 1964; P. Curry, "Magic vs. Enchantement", in Journal of Contemporary Religion, 14:3 (1999) 401-412).

  6. V. Giacché, La fabbrica del falso, Imprimatur, 2016.

  7. J.R.R Tolkien, op. cit., Libro Quinto, Cap. IX.

  8. ivi, Libro Quinto, Cap. VIII.

  9. ibid.

  10. Per quanto certo in modo non intenzionale, suona profetica la sprezzante esortazione di Denethor a Gandalf: «Va’ dunque, datti da fare per sanare gli altri!» se si pensa alla sufficienza con cui sono oggi considerati alcuni medici «rei» di cercare un supporto pubblico dopo avere curato o prevenuto condizioni potenzialmente mortali e avere subito sanzioni.


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Commenti

Sasha Afganets

Ho sempre considerato Il Signore degli Anelli molto più che un romanzo fantasy: piuttosto, una guida esoterica al "ben vivere" anche in questi tempi oscuri. Il testo di cui sopra, così denso e approfondito, consente di avventurarsi ancora più in profondità lungo questo arduo percorso... Ve ne sono grato.

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Lata

Gentile Pedante,
La leggo sempre con attenzione. Volevo farle i complimenti per questa analisi, questa superba parabola sui destini umani, ispirata dalla lettura di Tolkien. Non mi dica che nell'archetipo di Denethor, lei non ha pensato, fin nelle fibre più fini e profonde, a un certo senatore che siede negli alti seggi della nostra Repubblica per la seconda volta...

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Gandalf

.....la Coscienza Critica deve essere alimentata da una pratica pura ,esente da manipolazioni che pongono obiettivi egoistici......

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Matter

L'ignoranza è forza!

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Durin

Sam: Prendete la mia. C'è rimasta qualche goccia (di acqua)
Frodo: Non rimarrà niente per il viaggio di ritorno !
Sam: Non credo che ci sarà un viaggio di ritorno, padron Frodo

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Chinacat

Visto l'elevato numero di lettori di Tokien, mi permetto di suggerire una lettura sulla vita di Tolkien; come noto, Tolkien arriva in Francia alla fine di giugno del 1916 e ne riparte a novembre, quindi ha partecipato alla Battaglia della Somme, che inizia a luglio e finisce a novembre. Quel che forse è meno noto, è il fatto che questa lunghissima battaglia ha un posto speciale sia nella Storia Militare in generale ma soprattutto in quella britannica, in quanto si trattò di una carneficina terrificante: circa 20.000 morti il primo giorno della battaglia. Durante questo inferno sulla terra, Tolkien era in trincea e ha visto tutto; ovviamente non esiste un modo per capire realmente cosa significhi vivere un'esperienza simile ma qualcosa che ci va abbastanza vicino è possibile leggerla. Se mai dovessi trovarti sotto un ombrellone (e Dio ti scampi da una crudeltà del genere) e volessi vedere più da vicino cosa ha visto e sentito Tolkien, consiglio questo libro:
Il volto della battaglia (John Keegan)
Giusto per avere un'idea, questa immagine dovrebbe risultare familiare a tutti i lettori di Tokien:
link
Buona lettura
Chinacat

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Paolo Giusti

TILT: il Pedante e i mattonisti sono denethoriani.

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Giocontra

Da cultore (oso dire, non superficiale) di Tolkien mi sono commosso, leggendo, sia per l'impeccabile rilettura dei personaggi e delle trame dell'opera (e di ciò che non mi pare arbitrario ipotizzare vi vedesse lo stesso Autore), sia per i riflessi sulla situazione presente e concreta.
Certo, lo stesso Tolkien era un "Palantir" e un sapiente e aveva ben presente la dottrina indù delle quattro età (Manwe, in Quenya, si legge Manu, credo non a caso), la quarta delle quali (l'età degli Uomini ormai privi della compagnia dei "Priminati") era sul punto di iniziare con Aragorn e compagni.
Gli spunti su come dovremmo porci noi ora rispetto al corso degli eventi sono innumerevoli nel Signore degli Anelli, e quelli ricordati nel testo sono alquanto importanti, al pari di altre citazioni di Gandalf ("Sono anch'io un Sovrintendente", rivolto proprio a Denethor), dei ragionamenti di Faramir e dell'atteggiamento di Eomer che infine combatte non sperando di vincere ma perché è un guerriero e quello è il suo dovere, e nel momento stesso in cui realizza compiutamente questo pensiero, lo sorprende l'avvento di Aragorn sulle navi.
Grazie, serberò il Suo articolo con grande cura.

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disperato

Egregio Pedante
non ho letto nulla di Tolkien e il presente articolo me lo fa rimpiangere (anche se la trasposizione cinematografica non mi ha entusiasmato...) ma condivido che non sia da ingenui coltivare un moderato ottimismo sul futuro, e per molteplici ragioni.
Una è questa:
"link/status/1546478172690169856?cxt=HHwWgIC-gYvtmPYqAAAA' target='blank'>link
Ritenevo che QAnon e "Trust the Plan" fosse complottismo, ma dopo 18 mesi di Biden appare chiaro che il piano non era vincere nel 2020 ma far "vincere" Biden per assicurarsi 4 anni di presidenza Trump dal 2024 e 8 anni di presidenza Ron DeSantis dal 2028.
Il Partito Democratico e il governo ombra di WEF/Soros/Gates come si libereranno di Joe Biden?
1. "Metodo Kennedy"
2. "Malore improvviso"
3. "Incidente"
4. "Dimissioni per problemi di salute"
5. Saranno costretti a lasciarlo perché sanno che Kamala Harris è pure peggio"
Non so se lei segue link , ma ritengo che abbiate molta affinità sia per modo di pensare che per stile (ed è un complimento ad entrambi).
P.S. non vedo con ottimismo il destino dell'Italia e degli italiani rimasti nel belpaese, ma le sorti del mondo sono altra cosa.
E comunque qualche italiano perbene è rimasto,
uno è Davide Rossi
link

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Chinacat

Davvero notevole, i miei complimenti. Personalmente credo che le "intuizioni" di Tolkien provengano più che altro da quel che ha vissuto sulla Somme nel 1916 ma devo ammettere che la tua interpretazione centra perfettamente il bersaglio. Quella sull'italiano medio è sottile ma micidiale. Ci sono giusto due punti che mi lasciano perplesso. Il primo è questo:
"Dall’accostamento dei due approcci scaturisce l’invito a ricercare la sapienza nelle voci antiche di chi ha già vissuto, elaborato e corretto ciò che a noi sembra nuovo, piuttosto che lasciarsi rintronare dai lampi della cosa presente: la sapienza delle religioni e dei miti ma anche quella, pur di rango inferiore, delle filosofie e delle arti."
Da mangiatore di libri di Storia, non posso che essere d'accordo ma sul fatto che questo tipo di sapienza sia di rango inferiore rispetto a "religione & miti",.. per come la vedo io è esattamente l'opposto. E' proprio utilizzando l'approccio in stile mitologico e religioso che funziona il sistema: il Mito dell'Unione Europea, il Mito dell'Euro, il Mito del Mercato Che Si Aggiusta Da Solo, il Mito dello Spread. Senza un approccio mitologico non potrebbero reggere, perché una qualsiasi analisi razionale li demolirebbe in cinque minuti. La trasformazione del metodo scientifico in "religione" l'abbiamo sotto gli occhi, sia che si tratti di economia, sia che si tratti di medicina: il Santo Euro non si discute allo stesso modo in cui non si discute il Santo Vaccino: ci devi credere PER FEDE. E se non lo fai sei un eretico, come quei medici a cui si fa allusione nella nota 10. Il proliferare di "teorie sballate" è sintomo di questa perdita di razionalità e ce n'è per tutti i gusti: dai Fabiani ai Rockfeller, dagli Illuminati ai trozkisti; Comunisti e Alieni sono un caso parte perché vanno bene per ogni stagione.
Seconda cosa: "Oggi è ordinario vivere protèsi nelle rappresentazioni al di là del dominio sensibile, realizzando anche alla lettera la metafora platonica della caverna. Credendosi lanciato alla conquista dei segreti del mondo, l’homo connexus si lascia piuttosto invadere e saturare dalle ombre ambigue del mondo uscendone stravolto nelle emozioni e negli intenti."
L'intero paragrafo, a dire il vero, è spettacolare. Ma non credo sia legato semplicemente all'homo connexus; a mio avviso è legato all'uomo in quanto tale. Mi spiego con un esempio.
Se io ti portassi in Grecia nella primavera del 415 a.C. per assistere alla riunione dell'Assemblea dove venne decisa la spedizione in Sicilia, troveresti le stesse identiche problematiche. Di cosa parlano i cittadini ateniesi? Di cose delle quali ne sanno poco o niente perché sono troppo lontane per essere conosciute: discutono delle forme di governo che ci sono in Sicilia ("si indigna per ciò che si dice o si pensa in altri continenti mentre pensa e dice le cose più indegne"); delle stupefacenti ricchezze che si possono ottenere e diventare tutti ricchi ("desidera vite e luoghi «perfetti» che gli fanno apparire squallidi i propri"); e come se non bastasse, se ne occupa, o crede di occuparsene, in prima persona, visto che poi è l'Assemblea che deve decidere ("segue in tempo reale i dibattiti nelle aule del potere e li chiosa nelle «piazze» virtuali provando l’ebbrezza di parteciparvi davvero"). Differenze? A mio avviso zero.
A cui va aggiunta la presenza degli "esperti" turno: "La sognata emancipazione si risolve così in un attaccamento fideistico e puerile alla mammella dell’«esperto» di turno." Ad Atene gli esperti si chiamavano oracoli e venivano consultati prima di prendere ogni decisione. Ma quando i primi oracoli/esperti dissero che la spedizione in Sicilia sarebbe finita malissimo... non fecero altro che cambiare oracoli/esperti disposti a dire che sarebbe andato tutto bene. Differenze con il mondo di oggi? Sempre zero. E per la cronaca: la spedizione in Sicilia finì malissimo.
Cordiali saluti
Chinacat

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↪ Il Pedante

Gentile Chinacat, La ringrazio delle parole gentili e degli ottimi spunti. In quanto al primo rilievo, da lettore di questo blog sa che la secolarizzazione del sacro è un tema che mi è caro e su cui ho insistito spesso, secondo alcuni persino troppo. Al Suo catalogo di esempi potrei aggiungere quello che avevo abbozzato in un articolo di pochi mesi fa (Non vendo niente, grazie):
"Non perciò il sacro, ancorché dichiarato defunto, cessa di chiamarci a sé. Lo fa clandestinamente, si camuffa nel vocabolario profano e dal buio della coscienza partorisce i frutti deformi della bigotteria laica, la più fanatica di tutti i culti. La fede nella scienza e nel mercato, l’astinenza dai propri diritti per il «bene comune», i tabù dei regimi sconfitti e di selezionate discriminazioni sociali, i sacrilegi del «negazionismo» e del «revisionismo» placano il bisogno di religione degli uomini e mettono fuori gioco l’eterno".
Non posso però, se non altro per un fatto etimologico, considerare religione ciò che non «religit», che non leghi cioè a un ente trascendente. Gli antichi avevano una parola semplice e dimenticata per intendere ciò: idolatria, che stringi stringi riassume tutta l'avventura filosofica cosiddetta moderna, di voler laicizzare il sacro e di ritrovarsi a sacralizzare le cose laiche. Scrivevo in un altro articolo (L'invasione degli ultratabù) che
"ben lontano dall'essere desacralizzata, la nostra è una società desantificata che nel rinunciare al santo ha trascinato il sacro nel fango della storia. Attaccando il divino nella speranza di guadagnarne una liberazione dagli «schemi», dagli «errori» e, appunto, dai tabù del passato, lo ha frantumato in tante schegge semidivine disseminando il sacro in ogni forma e in ogni dove. Da questo schianto è sorto un politeismo i cui feticci non portano più le insegne della divinità ma ne preservano l'inattaccabilità e il dogmatismo".
Venendo al secondo punto, La ringrazio dell'esempio storico che porta, sicuramente pertinente. Del resto, il mito della caverna fu raccontato da Platone sicché è vero, abbiamo a che fare con una costante antropologica. Ciò tuttavia non mi stupisce né trovo che costituisca un'obiezione a quanto ho scritto. Ripartendo dal fatto che l'epoca moderna non ha assolutamente nulla di moderno, cioè di nuovo, l'homo connexus non è altro che l'esito sinora più tragico di un'alienazione che è sempre esistita (in fondo, nemmeno quando Tolkien scriveva esisteva internet). Ora questa alienazione è diventata una pretesa di metamorfosi dell'uomo (che in realtà delega alla macchina ciò che non può essere e, nei casi psichiatricamente più severi, immagina di ibridarsi con essa) ma anche un'istituzione, una visione della società che si specchia nel ciarpame del «governo digitale». Ovviamente non c'è alcuna novità, se non quantitativa, e Lei ha fatto assai bene a ricordarlo e a dimostrarlo.

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↪ Chinacat

Gentile @Il Pedante, sulla "secolarizzazione del sacro" mi permetto di farti leggere un breve testo:
"Sotto il governo fascista, le piazze d'Italia, furono trasformate in un unico scenario dove milioni di persone celebravano la consacrazione dei simboli, le apparizioni del duce. Popolo e paese furono avvolti in una fitta rete di simboli, che abbracciava l'urbanistica e il paesaggio. Proponiamo un viaggio tra i miti, i riti e i monumenti di un movimento che ebbe l'ambizione di infondere nelle coscienze di milioni di italiani e
italiane, la fede nei dogmi di una nuova religione laica che sacralizzava lo Stato, assegnandoli una primaria funzione pedagogica con lo scopo di trasformare la mentalità, il carattere e il costume degli italiani per generare "un uomo nuovo", credente e praticante nel culto del fascismo. (...)
L'ideologia fascista, come teologia politica dello stato, fu facilmente cristallizzata nei comandamenti di un "credo" che così gli consentì di non esporsi a rischi di conflitti nazionali. L'unica interpretazione vera era la pratica quotidiana della fede, vissuta come dedizione religiosa e totale alla volontà dello Stato, infatti i fascisti definivano il partito come "un Ordine religioso e militare: religioso perché ha la sua fede propria, ed
è militare perché obbedendo al suo imperativo interiore difende la sua fede ed incontra il sacrificio per essa". Il fascismo mirava a realizzare un'organizzazione simile alla Chiesa cattolica, eletta a modello per la creazione dello stato totalitario."
(Emilio Gentile, introduzione a "Il culto del Littorio - La sacralizzazione della politica nell'Italia fascista" Laterza, 2001)
Come vedi, direi che osserviamo lo stesso fenomeno da angolazioni diverse e questo libro del prof. Gentile è una vera e propria pietra miliare in tema di sacralizzazione della politica. Alla luce di uno studio come questo, la situazione attuale è un film già visto, con il loden al posto della camicia nera e lo "spread" al posto del manganello. Però, a mio avviso, ci sono due problemi.
Il primo è che per poter fare tutto questo serve l'instaurazione di un regime "totalitario", distruggendo ogni forma di democrazia e di eventuale dissenso. Il secondo è capire qual'è l'ideologia dominante su cui poggiare l'intera struttura, perché un'ideologia di base è una conditio sine qua non. E quest'ultima di chiama Capitalismo. Le parole d'ordine del nuovo totalitarismo provengono tutte dal vocabolario capitalista: libero mercato, libera circolazione delle merci, produttivismo, consumismo, competizione a qualsiasi livello, etc. etc.; e sono passate da essere semplici "opinioni" facilmente confutabili a Verbo Assoluto, oggetto, come dici giustamente, di pura idolatria.
Tenendo ben presente una cosa però: la "scienza" che il Capitalismo osanna, non ha nulla a che vedere con il metodo scientifico, così come la vendita delle indulgenze non ha nulla a che vedere con la trascendenza religiosa; il timore reverenziale e quasi magico con cui si attende il responso della BCE, è nient'altro che la forma laica dello scioglimento del sangue di San Gennaro.
Chinacat
PS
Da agnostico illuminista non credo che esista una forma di bigottismo più fanatica delle altre; quello laico e quello religioso se la giocano alla pari: a volta vince uno, a volta vince l'altro.

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↪ a perfect world

Gentile @Chinacat,
riguardo la constatazione "Il secondo è capire qual'è l'ideologia dominante su cui poggiare l'intera struttura, perché un'ideologia di base è una conditio sine qua non. E quest'ultima di chiama Capitalismo." sembrerebbe che tale ideologia non sia più controllabile dal suo clero, per vari motivi quali l'inedita potenza tecnologica nonché l'altrettanto inedita moderna globalizzazione.
Cordiali saluti

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↪ Chinacat

Gentile @a perfect world, "sembrerebbe che tale ideologia (il Capitalismo) non sia più controllabile dal suo clero".
La prima osservazione è questa: non tutto è controllabile e prevedibile e non lo fu nemmeno nei principali modelli totalitari che possiamo studiare. Un tasso di imprevedibilità è da mettere sempre in preventivo e quindi che si osservino dei fenomeni di reazione all'imposizione del nuovo ordine è perfettamente normale. Così come è perfettamente normale il verificarsi di quello che io chiamo l'Effetto Topolino (dal film Fantasia) ovvero che ogni tanto le scope inizino a fare di testa loro e ogni tanto succede davvero. Ma il Capitalismo è in grado di affrontare questi intoppi molto meglio di quanto siano riusciti a fare gli altri regimi totalitari, per tutta una serie di motivazioni che non elenco per non tediare.
La seconda osservazione è che purtroppo, quanto a risultati, il clero in questione non può che ritenersi più che soddisfatto. Osservando lo stato delle cose dalla loro prospettiva, è un successo clamoroso. Ci pensi bene: la più grande distruzione dei diritti sociali ed economici di tutta la storia umana... e non è ancora finita. Il più grande spostamento di ricchezza dai ceti medio-bassi al ceto alto che si sia mai visto (ci sono 2 splendidi libri dell'economista Joseph Stiglitz in merito, "Freefall" e "The Price of Inequality"). E per finire, una capacità di manipolazione delle masse su scala planetaria, anch'essa mai vista prima nella storia. Il Capitalismo, nella sua forma totalitaria, sta stravincendo alla grande; amara constatazione, se vogliamo, ma sarebbe sciocco far finta di non vederlo.
Ma detto questo: il Capitalismo, come gli altri totalitarismi, è per sua stessa natura del tutto "autodistruttivo"; come e quando collasserà è un punto interrogativo, così come lo è la forma che assumerà questo collasso. L'unico precedente storico a nostra disposizione, la Grande Depressione, il momento in cui il Capitalismo andò davvero vicino all'autodistruzione, offre degli spunti di analisi ma ci sono delle variabili nel caso odierno che complicano le previsioni: un conto è il non aver mai avuto il Welfare State con tutti i suoi benefici e un conto è toglierlo a chi ha usufruito di quei benefici.
"Since the so-called recovery began after the Great Recession of 2008-2009 – in other words, since the U.S. economy returned to growth – 95% of the gains in income have gone to the top 1%"
(The Price of Inequality: How Today’s Divided Society Endangers our Future - lo si può scaricare gratuitamente dal sito della Columbia University)
Chinacat

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↪ Chinacat

Gentile @a perfect world, seconda osservazione: " l'altrettanto inedita moderna globalizzazione."
Onestamente cosa ci sia di così inedito e moderno, non riesco a vederlo; fermo restando che prima bisognerebbe sapere che cosa sia intende esattamente con "globalizzazione".
Le due principali espressioni di questo fenomeno sono lo spostamento dei capitali e lo spostamento della manodopera ed in entrambi i casi posso fare un elenco molto lungo di come entrambi i fenomeni sono presenti nella storia umana praticamente da sempre e mi astengo dal farlo per non tediarla. Ma giusto per fare un esempio: se Lei pensa che lo spostamento di capitali sia inedito e moderno (oggi c'è la tecnologia per farli) è lontano dal vero. Nel 1500 c'è una tizia, Grazia Nasi, che si occupa di finanza e che sposta capitali tra Venezia, Anversa, Ferrara, Grenada e Istanbul... e con la tecnologia del 1500. E come lo fa questa tizia lo fanno tanti altri, anche in epoche antecedenti: la ricchezza si è sempre spostata.
Lo spostamento di manodopera? Quello c'è più o meno dal mondo Antico e gli esempi abbondano: nelle campagne del Lazio durante la Roma Imperiale ci sono lavoratori che provengono sia dalla Gallia che dall'Egitto. Nel mondo moderno cambia solo la scala ma non il principio: i primi africani arrivano nel continente americano nel 1649 mentre nel 1875 ci sono siciliani e campani che lavorano la terra in Louisiana e Tennessee, per non parlare dei cinesi in California; per anni la Chinatown di San Francisco fu l'enclave cinese più grande al di fuori della Cina.
Gli scambi commerciali e relative tensioni internazionali sono indice della moderna globalizzazione? Considerando che la Guerra del Peloponneso inizia proprio per motivi di scambi commerciali, pare proprio di no. Nei secoli successivi, ancora una volta, cambia la scala del fenomeno ma non la sua essenza: la "guerra dell'oppio" del 1839 è un capolavoro di globalizzazione a cannonate.
Morale: è assai probabile che un qualunque altro elemento di ciò che va sotto il nome di "globalizzazione" sia già avvenuto in passato e per come la vedo io, la stessa parola "globalizzazione" è semplicemente uno spauracchio per mascherare gli stessi identici fenomeni... tanto non se li ricorda nessuno.
Chinacat

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↪ Stefano Longagnani

Gentile @Chinacat, lei ha un profilo Twitter? Se sì mi mandi cortesemente un messaggio privato.
Cordialmente
Stefano Longagnani
P.s. grazie ad entrambi di esistere e operare nel mondo.

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↪ Chinacat

Gentile @Stefano Longagnani, sfortunatamente ma anche no, non uso Twitter o altri "social media"... visto che non possiedo nemmeno un i phone sarebbe del tutto inutile :)
Chinacat

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Alessandro

Una meraviglia, grazi di cuore

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Ismael

Per un tolkieniano, specie se "forte" di meditazioni di lungo corso, è facile (e tanto, tanto autoindulgente), riconoscersi in Faramir, in Frodo, in Sam...magari addirittura con Gandalf o con Aragorn.
Invece la dura realtà è che dobbiamo chiederci: quanto c'è in me di Gollum? Di Saruman? Di Grima? Di Denethor? Soprattutto di quest'ultimo, per quanto amaramente mi riguarda. Da soli non possiamo darci né la grazia né il discernimento, purtroppo (o per fortuna), e la salvezza arriva - forse chissà - in forza di una cooperazione con un "al di fuori" che presuppone abnegazione e speranza. Pazienza se vorrà dire morire ignoranti: del resto, poco o tanto, non lo siamo tutti?

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Rick Deckard

Caro Pedante, come sempre un semplice grazie di questi lampi di luce che squarciano le tenebre di tempi davvero tristi.

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2249

Bei tempi comunque quelli in cui due sole persone al mondo erano soggette all'influenza mediatica... chissà se invece nella combriccola dell'anello ognuno avesse avuto il proprio palantirino... il nano se ne sarebbe uscito con "Ehi (anzi: Hey) ragazzi, ***la mia idea*** è che per combattere sauron dovremmo usare la bloc-cèin", quello con le orecchie a punta "D'accordo, combattiamolo pure, ma ricordiamoci che ci sta pure questo maleficio emerso indipendentemente dalla sua volontà, e dopotutto è per il bene di tutti che lui ricatta i riottosi affinché compiano il rito che il suo stesso libro degli incantesimi definisce salvifico", dopodiché un gremlin che passava di là "Ragazzi ma siete fuori, è ovvio per tutti che il nemico non è sauron, ma *qualsiasi altro individuo, da Putron al presidente della congrega bibliotecaria locale*", al che il mago o chi per lui si sarebbe giustamente rotto il cazzo e si sarebbe denethorizzato pure lui, con gli altri che magari lo avrebbero accusato di essere "Troppo rigido, dopotutto si tratta SOLO di transumanesimo, mica di moneta comune" (sic, qui già fuor di monata), e magari "Poco collaborativo, dopotutto il nostro obbiettivo è distruggere mordor, poi se qualcuno vuol farlo con le armi uscite dalle sue fucine ancora meglio no, perché impedirglielo?", ecc ecc ecc sempre bene o male su questa linea.
Alla fine il discrimine è fra chi riconosce e combatte l'hybris (e se uno manco sa cosa sia, di solito lo fa meglio) e non giustifica in alcun modo il male, né scende a patti con esso, e fra chi invece appunto crede di essere più furbo dei furbi e che i fini giustifichino i mezzi eccetera, e in fin dei conti cambiando discorso (e spiacendomi per questo intervento che poco aggiunge e molto toglie) ben vengano - mi si passi - i palantir, se consentono di tenersi in contatto con quei pochi che saprebbero usarli senza farsi da essi deviare (fermo restando che lasciarli spenti, cioè per l'appunto restare nell'ignoranza dell'onnivociante litania padronale - che tanto poi sempre quella è -, resta comunque il miglior modo).

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L

Mi è venuto in mente questa frase leggendo la parte finale dello scritto (sempre grazie per questo blog):
"Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo."
Nicolás Gómez Dávila

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↪ Il Pedante

Perfetto.

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Alex

Uno scritto veramente notevole. La Franca andrebbe, giustamente, fiera di Lei.

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↪ Il Pedante

Ohibò. Lei è un mio concittadino? Un ex compagno di classe?

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↪ Alex

Gentile @Il Pedante, concittadino sì (lo scoprii ad un Goofy facendomi autografare il suo libro: abitiamo a tre km scarsi di distanza) allievo della Franca sì ( lo scoprii quando la Franca passò, grazie al suo appassionato ricordo su Twitter), un compagno di classe direi proprio di no visto che quest'anno, per me, cade il 45mo anniversario della maturità. Anche se credo che pure a Lei sia toccato l'imprinting della prima ora di lezione con la Franca, in terza, porta della classe aperta, un insolito silenzio claustrale, studenti con salivazione azzerata ingobbiti sulle frasette di Latino affibbiate da tradurre, così, "per passare il tempo"...

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Fëdor Mikhajlovič

Semplicemente stupendo.
Mi riconosco molto in questo scritto. Sono anche stato rimproverato dal mio direttore spirituale proprio in questi termini. Mi ha proprio portato l'esempio di Denethor e del suo palantir.
La prassi della prossimità di S. Giovanni Battista, da Lei brevemente enunciata in un recente incontro online, e qui parzialmente ripresa nei suoi suggerimenti, penso possa essere la via giusta per recuperare una dimensione integralmente umana, ora annacquata nella virtualità sociale manipolata che spinge tutti a credere nel famoso "Uno vale uno".
Nella mia vita reale, purtroppo anche nella mia stessa famiglia e nella cerchia di amici più stretta, i gravi problemi che denuncio non sono ascoltati, fino ad essere stato considerato pazzo (salvo il fatto che poi la storia mi ha finora dato ragione).
Avanti così, l'amore è come mordere un sasso. Occorre, in silenzio contemplativo, staccarsi dalla rete e dedicarsi a coloro che Dio mi ha posto accanto. Ovviamente cosciente che, alla lunga, camminando con gli storpi, il potere potrà aver ragione anche di me, fagocitandomi.

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↪ Il Pedante

Attenzione, però: la fagocitazione è assimilazione. Lei invece allude al martirio che è tutto all'opposto e non è peraltro certo.

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S_Killed

Trasposizione meravigliosa di una realtà schifosa e puzzolente, nella quale viviamo.
Molti di noi stolidi ed ignari.
Io per fortuna ho sempre aborrito collettivismi del pensiero e laicamente diffido per DNA
di tutti gli ALTI IDEALI.
Troppo individualista a sufficienza per sprezzare gli inviti al banchetto.
Troppo duro e combattivo per sottomettermi volontariamente.
Così vivo piccole e grandi battaglie quotidiane con rabbia e mai frustrazione.
Spero in una dura ITALEXIT.
Ove non accada sogno una Sarajevo generale : un campanile mi attende.
Voi altri quando vi sveglierete?

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↪ Apete

Gentile @S_Killed, potrei coadiuvarti nella direzione si tiro?

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ZioKlint

Meraviglioso.
Non c'è altro che io possa dire.

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Fabio

Bellissimo pezzo. Grazie!

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buondiavolo

Manca Aragorn: Il re che ha sacro diritto sui Palantir,e giusto a malapena la forza per usarli e sottrarli all'influenza di Sauron-
Usiamo la rete sapendo che c'è chi ci controlla. Riusciamo a comunicare tra possessori del mezzo.
L?ignoranza non è mai forza. Sapere di non sapere e di avere un limite invalicabile tra essere e sapere .
Denethor e Sariman sbagliarono perchè si tennero la conoscenza per loro stessi ,per orgoglio e senso del potere.

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Castrese

... «la tua speranza non è che ignoranza» ...
Qui ci voleva un richiamo all'origine del peccato dell'uomo, Eccellenza.
Ē infatti l'aver mangiato dall'albero della Conoscenza ad averci negato da allora i frutti dell'albero della Vita (offertici di nuovo, ma in condizioni mondane ormai terribili, da Cristo).
Il pezzo ē un capolavoro.
Tuttavia, tra gli archetipi delle vittime illustri (tralasciando ovvero quelle piū numerose, l'umano bestiame), dopo l'Esaltato (Saruman) e il Mortificato nella Disperazione (Denethor), manca l'Illuso (anche perchē, a memoria, mi pare che manchi anche nell'epopea di Tolkien): l'uomo di valore spinto alla battaglia con le armi e gli obiettivi forniti dal nemico all'interno dello stesso paradigma su cui l'avversario fonda tutta la sua potenza. Uno scenario in cui l'unica vittoria possibile ē entrare a far parte della struttura che quel paradigma guarda a mano armata, una struttura deprivata di ruoli che ne conferiscano il controllo.
Spero di essere riuscito a spiegare a cosa mi riferisco.
Una analisi al riguardo andrebbe affrontata.

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↪ Il Pedante

Gentile amico, il Suo encomio mi è particolarmente caro. Il richiamo, davvero centratissimo e archetipale, ce lo avevo nella penna, mi ha letto nelle intenzioni. Sulla stessa linea mi piace anche integrare una riflessione suggeritami da un nostro amico comune che è anche tolkeniano di antica data. I due personaggi esemplificano in effetti il peccato di voler *conoscere il male*: il primo per carpirne e sfruttarne i segreti, il secondo per sorvegliarne le mosse. Così facendo ne restano però invischiati e corrotti: il male va invece evitato, fuggito, rigettato in anticipo per non inquinare la dialettica fondamentale, escatologica e in ultima istanza misteriosa tra buio e luce. In questo monito vedo molte analogie con situazioni odierne sia di vita quotidiana, sia di impostazione intellettuale, ad es. le pretese indagini eziologiche dello psicologismo per «capire il disagio, le radici profonde (?)» ecc. Cose non sempre implausibili, ma che distraggono dalla chiamata morale e assegnano una forza irrealistica alla ragion pura.
Penso infine che Saruman sia proprio un illuso, che come ogni illuso si crede furrrrbo: combatte «con le armi e gli obiettivi forniti dal nemico», poco importa se chiamandosene fuori sulla base di ciarle intellettualoidi che convincono solo lui (Gandalf gli risponderà in sostanza: che noia!). Di norma evito, per le riserve sopra espresse, di tracciare il confine tra buona e cattiva fede. Tuttavia penso di comprendere ciò che Ella intende. Effettivamente, l'illuso contemporaneo, memetico e bovino che crede nel «mondo giusto» e si appiattisce su ogni sua declinazione pubblicitaria non appare nella saga tokeniana. E il motivo è semplice: trattandosi appunto di una saga di eroi - positivi o negativi - non può curarsi di quell'«umano bestiame» che sicuramente esisteva (penso ad esempio ai popoli non liberi arruolati con la menzogna da Sauron e Saruman) ma il cui malinteso protagonismo si impone piuttosto nel nostro paradigma «democratico» amplificato e distorto dall'orizzontalità dei social.

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↪ Castrese

Di norma evito, per le riserve sopra espresse, di tracciare il confine tra buona e cattiva fede.
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I frutti, Eccellenza, i frutti che essi portano ... che non sono noti solo a noi, ma pure a loro.
Grazie per la stima, che mi conforta in questi tempi d'infamia.

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Cosimo

Un parallelo magistrale.

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Michele

Beh. Iniziare la giornata in Barbagia (in "viaggio" e "lontano" quindi) e sentirmi, un poco, Gandalf... Esistono momenti e sensazioni peggiori. Grazie, anche per le parole ascoltate l'altra sera.

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Stefano

Davvero molto ben scritto.
Con grande semplicità la ringrazio !

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