Nel cosmo immaginario de Il Signore degli anelli, il capolavoro narrativo di John R. R. Tolkien pubblicato tra il 1954 e il 1955, i palantíri sono sfere di cristallo fabbricate dagli Elfi di Valinor «in giorni così lontani che il tempo non può misurarsi in anni» per osservare e comunicare a distanza. Le sfere potevano collegarsi tra di loro (esisteva anche un «server» centrale che le controllava tutte, il palantír custodito nella Cupola di Stelle, a Osgiliath) e persino mostrare eventi lontani nello spazio e nel tempo, da cui il loro appellativo di «Pietre Veggenti». Dei molti esemplari realizzati e poi perduti o distrutti nel corso dei secoli, all’epoca in cui si svolgono i fatti narrati ne risultavano attivi soltanto tre, rispettivamente al servizio di Sauron, lo spirito malvagio che minaccia i popoli liberi della Terra di Mezzo, lo stregone Saruman e l’umano Denethor, sovrintendente del regno di Gondor. Tra gli oggetti magici che appaiono nel racconto, i palantíri occupano un ruolo preminente nello sviluppo narrativo. È proprio dopo avere scrutato in una di queste pietre che il saggio Saruman si allea con l’Oscuro Signore e il valente Denethor rinuncia a combattere contro le truppe del male, finendo suicida.
Il palantír è anche letteralmente una televisione. In Quenya, la lingua elfica immaginaria di cui Tolkien ha composto una grammatica e un vocabolario, palan significa «lontano» (come il greco τῆλε) e tír «guardare» (come il latino vīsĭo). Per la sua versatilità può anche apparentarsi con le più moderne webcam, i videotelefoni e le altre applicazioni della rete internet che permettono appunto di «vedere lontano e trasmettersi i pensieri» da distanze inaccessibili ai sensi. Le sue stesse presunte proprietà divinatorie anticipano l’ambizione di prevedere gli eventi raccogliendo e analizzando in tempi rapidi enormi quantità di dati messi a disposizione dalle reti informatiche. Non è fortuito che la più importante società multinazionale oggi specializzata nell’elaborazione di scenari, «intelligenza artificiale» e big data porti il nome del manufatto elfico: Palantir Technologies. L'azienda, sviluppatasi anche grazie a un cospicuo finanziamento della CIA, si è guadagnata una certa notorietà per i suoi contributi al «predictive policing», l'inquietante frontiera di prevedere e reprimere i crimini prima che essi avvengano.
Le tre sfere disegnano un triangolo ideale al cui vertice si colloca Sauron, l’angelo caduto ingannatore e crudele impadronitosi della Pietra un tempo custodita a Minas Ithil, la fortezza numenoreana espugnata anni prima dai suoi demoniaci cavalieri. Sauron diventa il padrone assoluto ma occulto del «network» dei palantíri, di cui sfrutta la seduzione per manipolare le sue vittime ignare. I modi di questa manipolazione sono raffigurati dai due vertici inferiori del triangolo, Saruman e Denethor, che per ragioni diverse si lasciano irretire dalle visioni trasmesse dalle sfere fino a diventarne schiavi, nella tragica illusione di ricavarne sapienza e potere.
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Il primo dei due era stato il capo degli stregoni, una sorta di casta sacerdotale amica dei popoli liberi e dedita alla magia bianca. Inizialmente saggio e di animo puro, era entrato in possesso della Sfera di Orthanc e vi aveva guardato sempre più spesso per accrescere il suo sapere. Questa sete disordinata di informazioni lo portò infine a collegarsi con Sauron in persona, che lo ammaliò rendendolo ambizioso e malvagio. La sfera, spiega Gandalf,
si dimostrò, senz'alcun dubbio, assai utile a Saruman; eppure evidentemente non gli bastava per renderlo soddisfatto. Guardò sempre più lontano verso ignoti paesi, finché posò lo sguardo su Barad-dûr [la fortezza di Sauron]. Ed allora fu reso succube! […] È facile immaginare con quanta rapidità l'occhio scrutatore di Saruman venne intrappolato e ipnotizzato, e come sia stato facile da allora persuaderlo da lontano e minacciarlo quando la persuasione non era sufficiente. Chi soleva mordere era stato morso, il falco dominato dall'aquila, il ragno intrappolato in una rete d'acciaio![1]
Saruman incarna l’intellettuale che stringe patti col male credendosi capace di governarlo de intus e di sfruttarne la forza per realizzare un bene superiore accessibile solo ai sapienti. Una siffatta sapienza, annota Elémire Zolla nella prefazione alla prima edizione italiana, è però una «falsa sapienza di mediatore fra bene e male, fra virtù e vizio». Quando riceve il collega Gandalf per tentare di coinvolgerlo nei suoi progetti, la veste del mago non è più bianca, bensì cangiante come i tanti «arcobaleni» odierni perché, continua Zolla, «se il bianco non è più tale vuol dire che è sparito, non già che sia confuso e infuso nel suo opposto, e chi infrange una cosa per scrutarla (analizzi il candore per scoprirvi altre cose) ha abbandonato la strada della sapienza»: perché la spregiudicatezza di abbracciare ogni mezzo conduce all'indifferentismo morale, e di lì al crimine. Ma ascoltiamo i dettagli di questo programma dalla viva voce dello stregone:
la nostra ora è vicina: il mondo degli Uomini che dobbiamo dominare. Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà, in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono [...] Una nuova Potenza emerge. Inutili sarebbero contro di essa i vecchi alleati e l'antico modo d'agire. [...] Questa è dunque la scelta che si offre a te, a noi: allearci alla Potenza. Sarebbe una cosa saggia, Gandalf, una via verso la speranza. La vittoria è ormai vicina, e grandi saranno le ricompense per coloro che hanno prestato aiuto. Con l'ingrandirsi della Potenza anche i suoi amici fidati s'ingigantiranno; ed i Saggi, come noi, potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo. Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all'alta mèta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare.[2]
Uno dei più fini studiosi di Tolkien ha osservato che in questo sermone
Saruman parla come un politico. Nessun altro personaggio della Terra di Mezzo possiede una tale capacità di ingannare l’ascoltatore mettendo in equilibrio le frasi per nascondere le contraddizioni e nessun altro se ne esce con parole così vuote come «deplorando», «l’alta mèta prefissa» e, peggio di tutto, «vero». Che cos’è il «vero cambiamento»?[3]
Che cosa sono, ci chiederemmo oggi, le «riforme strutturali», le «rivoluzioni», il «nuovo ordine» e le altre formule di palingenesi scodellate ai popoli dagli stregoni dell’economia e della scienza? Che cosa portano sotto l’involucro sgargiante della loro prosopopea? Una vera promessa di sviluppo o le brame onnipotenti di un manipolo esaltato dalla propria presunta superiorità ideale? Anche Saruman è un maestro di retorica. Colui che fu ammaliato dalle visioni ammalia con la voce, con un eloquio così sfrontato, suadente e apparentemente inattaccabile da riuscir quasi a riconquistare la fiducia di coloro che aveva cercato di uccidere. Ma il rancore e la sete di dominio che si celano sotto le sue lusinghe traspaiono nell’intento di mettere gli ascoltatori l’uno contro l’altro suscitando dubbi, competizione e invidie. Come i demagoghi odierni, ottiene la lealtà di tutti facendo sì che nessuno sia leale con l’altro; convince tutti convincendo ciascuno che il proprio prossimo sia d’ostacolo al raggiungimento dell’«alta mèta prefissa».
Per mostrare quanto sia ingannevole l’ambizione dello stregone, Tolkien ricorre a un’immagine più efficace di molti commenti. La fortezza in cui si è installato e che avrebbe dovuto essere il fulcro e il modello dell’Eden promessogli dalla Pietra, nella realtà assomiglia piuttosto a un inferno squallido e raffazzonato:
Una dimora inespugnabile e meravigliosa, quell'Isengard, che per tanto tempo era stata così bella! Ivi avevano vissuto grandi signori, i custodi di Gondor a occidente, e grandi saggi avevano da lì osservato le stelle. Ma lentamente Saruman l'aveva trasformata secondo i suoi nuovi scopi, credendo pazzamente di migliorarla; poiché tutte le arti e le sottili astuzie per le quali aveva rinnegato l'antica saggezza, e che s'illudeva d'aver inventato da solo, venivano da Mordor: ciò ch'egli faceva non era nulla, era semplicemente una piccola copia, un modello infantile o una lusinga di cortigiano, di quella immensa fortezza, prigione, armeria, fornace chiamata Barad-dûr, la Torre Oscura, il cui enorme potere non temeva rivali si beffava delle lusinghe e faceva ogni cosa con comodo, calma e sicura com'era col suo orgoglio e la sua forza smisurata.[4]
La lezione è chiara: chi presume di trarre un bene dall’iniquità alleandosi tatticamente con i suoi autori è destinato a riprodurre quella stessa iniquità in brutta copia, in modo altrettanto tossico ma senza la schiettezza e l’eroismo dell’originale.
Alcuni critici hanno anche messo in evidenza il carattere industriale dell’abbruttimento di Isengard. Dove un tempo sorgevano giardini ora domina una distesa arida da cui salgono i miasmi delle fucine e dei laboratori, per alimentare i quali Saruman si è messo a disboscare forsennatamente le selve circostanti. Queste devastazioni suscitano lo sdegno degli Ent, i misteriosi uomini-albero di Fangorn che incarnano il volto più indomito e ancestrale del mondo naturale. Risvegliatisi dal loro lungo vegetare, marceranno uniti contro lo stregone fino a sconfiggerlo.
Le numerose e pur condivisibili letture ecologisticiche di questa nemesi, di una natura destinata a rivoltarsi contro l’avidità e gli aborti del demiurgo moderno, mancano però spesso di denunciare proprio nella bulimia tecno-scientifica lo strumento principe di questo e di altri deliri di «guarire il mondo» con i soli saperi del mondo. Se i potenti manufatti degli elfi riflettono un rapporto spirituale con il creato, un «enchantment» rispettoso del suo mistero, nei marchingegni maleodoranti dello stregone-tecnocrate si legge invece la rabbia di chi, inaridito lo spirito, persegue un progresso tutto materiale e vede perciò nelle leggi imponderabili e irriducibili alla ragione degli uomini un ostacolo odioso da liquidare.[5] Vi si indovina la silhouette del progressista che per migliorare il mondo lo sfregia, per servirlo lo domina, per esaltarlo lo schifa. L’ultima frontiera di questa soteriologia dispotica e violenta è quella preconizzata dall’Huxley del Mondo nuovo e poi sdoganata nel dibattito e nella pratica dei nostri giorni: la manipolazione della vita, l’espugnazione del mistero aborrito. Transumanista ante litteram, Saruman apprende da Sauron anche l’arte mostruosa di incrociare gli orchi con gli esseri umani per ottenere una razza più resistente e crudele: gli Uruk-hai. La promessa della salvezza tecnica di elevare la vita con le macchine reclama la macchinizzazione della vita, il suo azzeramento ontologico.
Ma i fantasmi di gloria eccitati dai cristalli corrotti del palantír si realizzano all’inverso, nella caduta continua dell’uomo svuotato di sé. Dopo avere perso la sua dimora-fabbrica e le sue truppe, Saruman perderà anche i poteri e finirà prima mendico e poi a capo di una masnada di ladri. Come tutti i traditori rimarrà senza amici e alla fine troverà la morte per mano del suo ultimo compagno, quel viscido Grima che lo aveva servito per anni e che perciò lo odiava più di qualsiasi nemico, per essere stato più a lungo ingannato.
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Diverso, ma non meno tragico, è il destino del sovrano Denethor. Anch’egli possedeva un palantír («il più strettamente legato a quello posseduto da Sauron») e vi aveva scrutato sovente, ma «era troppo grande per essere assoggettato al volere dell'Oscuro Potere». Inoltre non nutriva la sterminata ambizione di Saruman, avendo come solo desiderio quello di restituire alla pace e alla prosperità il regno affidatogli: «che ogni cosa tornasse a essere com'era durante tutta la mia vita». Per fare di lui un inconsapevole complice del suo trionfo, Sauron dovette perciò adottare una strategia diversa che oggi definiremmo della «falsa sineddoche», sulla scorta di una felice analisi di Vladimiro Giacchè.[6] Chi ricorre a questo artificio, così frequente e centrale nell’odierna comunicazione di massa, riporta al pubblico solo alcuni selezionati dettagli di un evento che, per quanto in sé veri, creano una percezione falsa o persino inversa dell’intero tacendo altre e più significative parti dell’informazione. Così anche Denethor nella sfera
vide soltanto le cose che [Sauron] gli permise di vedere… Le Pietre Veggenti non mentono, e nemmeno il Signore di Barad-dûr può costringerle a mentire. Può forse scegliere ciò che vuole mostrare alle menti più deboli, o far loro fraintendere il significato di quel che vedono. Tuttavia non si può mettere in dubbio che quando Denethor vide che grandi forze venivano preparate e persino radunate per entrare in guerra contro di lui, non vide altro che il vero.[7]
Il Signore di Gondor, convinto di spiare e anticipare le mosse del nemico, non si avvide che era proprio quest’ultimo a selezionare le sue visioni in modo da esaltare la forza e il numero delle truppe di Mordor e da nasconderne le difficoltà. Giorno dopo giorno nell’anziano sovrano si andò così rinforzando la convinzione della futilità di combattere: «la visione dell'enorme potenza di Mordor che gli veniva ripetutamente mostrata alimentò nel suo cuore la disperazione, a tal punto da sconvolgergli la mente».[8]
Tolkien descrive gli effetti psicologici di questa tele-manipolazione con un binomio: «orgoglio e disperazione». La disperazione di vincere così indotta da una propaganda occulta non produce umiltà e remissione, bensì un aristocratico sprezzo degli sforzi altrui, un orgoglioso rinchiudersi nella presunzione di saperne di più. Denethor paga «cara tale scienza, invecchiando prima del tempo». Dei vecchi egli possiede non solo il pessimismo, ma anche la scontrosa superbia: inacidito, sarcastico e diffidente, nel mezzo di una battaglia decisiva si ritira nella sala del trono e da lì insulta Gandalf che lo sprona a prendere il comando chiamandolo «Grigio Stolto» e insinuandone la malafede. Ormai in preda a un cinismo dissacrante, definisce il re venturo a cui la sua stirpe dovrà riconsegnare lo scettro come «l'ultimo di una cenciosa dinastia».[9]
Tra le tante armi della guerra psicologica, la demoralizzazione patita da Denethor è forse la più sottile e distruttiva perché colpisce in special modo gli incorruttibili e gli intelligenti. All’inizio li attira nel suo gorgo facendo leva sulla loro fame di conoscenza: qui suona il canto della sirena dei giornali e delle news che si compulsano a ogni ora del giorno e della notte sullo schermo dei telefonini – incarnazioni definitive e fedeli del palantír tolkeniano in scala globale. Il «cittadino informato» si trova così ostaggio dell’informatore, la cui azione corrosiva si esercita non tanto in modo diretto, dando cioè solo spazio e supporto ai trionfi dell’antagonista, ma più ancora lasciando che nei suoi contenitori si diffondano senza filtri indignazione, denunce e testimonianze di sofferenza. Questi messaggi di sconfitta, sebbene quasi sempre autentici e sinceri, si moltiplicano però oltre la normale percezione e sopportazione e magnificano specularmente le vittorie della parte nemica, se non altro per il fatto di ricalcarne il dettato tematico.
Il soggetto «denethoriato» si trova così progressivamente svuotato di ogni prospettiva e per non ripetere stancamente ciò che reputa inutile o disfunzionale distoglie il suo senso critico dall’obiettivo per razionalizzare la presunta disfatta. Penosamente illuso di possedere tutti i pezzi del puzzle (ma in realtà solo quelli che il Sauron di turno gli ha messo nel piatto), si rivolge dunque contro i compagni di lotta addebitando loro ignoranza, insipienza, vanità, doppi fini, fino a concludere che in fin dei conti «se lo meritano». Troppo integro per darsi al nemico, si presume troppo scaltro e informato per sostenere gli amici. Dalla cima della sua alta torre lancia allora indistinti sarcasmi[10] non avvedendosi o non curandosi del fatto che, come avverte Gandalf, «simili decisioni non potranno che rendere certa la vittoria del Nemico». E in effetti, l’elegante terzismo con cui spera di sfuggire a nuove delusioni non può che tradursi, nell’equilibrio di forze dato, in una cooperazione piena con l’aggressore: precisamente come era nei piani iniziali. A necessaria conclusione della sua parabola nichilistica Denethor si toglierà la vita immolandosi sull’altare dei padri e tenterà anche di trascinare con sé nel rogo il valoroso figlio Faramir, a dimostrazione di quanto il suo recedere lo abbia invece reso disciplinatamente complice e servo di una sola parte: quella sbagliata.
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Nelle vicende dei palantíri elfici, Tolkien incardina una riflessione di rara finezza sui risvolti occulti della «società dell’informazione». Al di là della (non sempre) ovvia constatazione che le informazioni che ci dovrebbero rendere critici, consapevoli e indipendenti provengono quasi sempre da fornitori che rispondono proprio a coloro da cui vorremmo emanciparci, le questioni sollevate toccano più in profondità il rapporto tra scientia, sapientia e potentia. Le Pietre Veggenti trasmettono dati grezzi, disordinati e spesso corrotti dalla malizia di chi le manovra. Il loro utilizzo, si ripete spesso nel romanzo, deve perciò riservarsi soltanto a coloro che posseggono la necessaria disciplina interiore per non farsi ammaliare dai loro bagliori. Questa distinzione tra la nozione (scientia) e la capacità innanzitutto morale di vagliarla e metabolizzarla (sapientia) si è perduta pressoché del tutto nella civiltà partorita dall’ammucchiata enciclopedica degli illuministi e approdata alla bulimia babelica della rete internet, delle statistiche e dei mass media a ciclo continuo. Oggi viviamo sommersi dalle «notizie» e dai «dati» con la duplice illusione 1) che da questa mole disgregata e volatile di «materia prima» possa strutturarsi per accumulo un pensiero e 2) che si tratti davvero di «materia prima» e non invece di residui masticaticci, ridondanti e selezionati a monte da altri. Mancando il tempo e la capacità di elaborazione per strutturare una tale inondazione di detriti cognitivi spesso in contraddizione reciproca o anche del tutto privi di senso, ci aggrappiamo necessariamente alla boa di un’autorità che ne certifichi la bontà e la «retta» interpretazione. La sognata emancipazione si risolve così in un attaccamento fideistico e puerile alla mammella dell’«esperto» di turno, nella delega del pensiero e del libero arbitrio.
Con i palantíri telefonici distribuiti in ogni tasca e perennemente connessi a sterminati database si è realizzata la più mastodontica accumulazione di saperi della storia umana. Quale miglior comprensione della realtà ne è venuta? Quale saggezza, quale pace tra i popoli, quale felicità o libertà? Quali vantaggi cognitivi e mnemonici, trattandosi di pròtesi esterne? Se il banchetto delle informazioni si è arricchito, le bocche si sono rimpicciolite, gli stomaci atrofizzati.
Ancora più fallace è l’idea che da questa visione aumentata derivi un maggior potere sulla propria vita individuale e sociale. Se il potere, lo ripetiamo, è casomai di chi produce l’informazione e non di chi la ingolla dalla mangiatoia mediatica, i due casi narrati suggeriscono che piuttosto muta e si distorce l’idea di potere, che la scissione tra il campo fisico e il campo immaginato sterilizza nella mente il possibile esaltandolo (Saruman) o mortificandolo (Denethor) oltre la realtà. Lo stregone e il reggente tradiscono gli altri perché tradiscono innanzitutto sé stessi. Nell’anteporre le visioni lontane alla cosa esperita dimenticano la propria storia e la propria missione, diventano anch’essi liquidi come le chimere proiettate dai cristalli, manipolabili dal nemico e assenti da sé.
Oggi è ordinario vivere protèsi nelle rappresentazioni al di là del dominio sensibile, realizzando anche alla lettera la metafora platonica della caverna. Credendosi lanciato alla conquista dei segreti del mondo, l’homo connexus si lascia piuttosto invadere e saturare dalle ombre ambigue del mondo uscendone stravolto nelle emozioni e negli intenti. La sua mente sempre estroversa dimentica l’introspezione e la prossimità: dialoga ininterrottamente con persone distanti chilometri togliendo tempo e attenzioni a chi lo circonda; si indigna per ciò che si dice o si pensa in altri continenti mentre pensa e dice le cose più indegne; desidera vite e luoghi «perfetti» che gli fanno apparire squallidi i propri; segue in tempo reale i dibattiti nelle aule del potere e li chiosa nelle «piazze» virtuali provando l’ebbrezza di parteciparvi davvero o, quando poi scopre di esserne solo uno spettatore inascoltato, una rabbia altrettanto intossicante. I suoi problemi sono di norma lontani: il governo, i «complottisti», i magnati d’oltreoceano, la sinistra e la destra, l’«italiano medio» (sì, crede che esista davvero, ché avendo annacquato nell’etere l’individualità propria non può riconoscerla negli altri).
Ancorché falsa in partenza, quest’ultima profezia finisce comunque per autoavverarsi perché la telespezione, riproducendosi identica in ogni suo nodo, fa apparire universale ciò che è particolare e reale ciò che è in effige. Una cosa esiste se tutti credono che esista. Sicché il telespettatore è telecomandato: pensa ciò che gli si comanda e lo avvera pensandolo, e di quell’esistere ha conferma specchiandosi nel pensiero degli altri. Crede alle cose lontane del ministro, dello scienziato e del tele-giornale più che alle percezioni proprie e vicine, che per voler essere consapevole e lungi-mirante si affretta a derubricare ad aneddoti, eccezioni, colpi di fortuna o sfortuna. Ciò che poteva liquidarsi con una scrollata di spalle diventa così prima pagina e metro di condotta dei popoli. Sta dunque qui anche la premessa tecnica delle costruzioni «globali», il segreto per imporre le stesse cose ovunque e a chiunque: nell’universalità di un pensiero che superi le varietà delle identità vissute collocandosene al di sopra e al di fuori. Appunto, lontano.
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Esiste una lontananza buona? Gli eroi de Il Signore degli Anelli ricorrono spesso a canti e profezie tramandati da un passato remoto per interpretare il presente e prepararsi a ciò che serba il futuro. È anche questa una lontananza, ma di tipo storico e verticale, che porta il frutto pazientemente distillato nei secoli dalle generazioni e dai testimoni più saggi, contrapponendosi perciò in tutto alla distanza geografica e orizzontale delle epifanie delle Pietre: là c’è meditazione, qui emozione; là struttura, qui giustapposizione; là nitidezza anche formale, qui ambiguità, inganno, confusione. Dall’accostamento dei due approcci scaturisce l’invito a ricercare la sapienza nelle voci antiche di chi ha già vissuto, elaborato e corretto ciò che a noi sembra nuovo, piuttosto che lasciarsi rintronare dai lampi della cosa presente: la sapienza delle religioni e dei miti ma anche quella, pur di rango inferiore, delle filosofie e delle arti. In questi tesori c’è molto, ma non tutto, perciò occorre concedere spazio al mistero, il cui rifiuto porterebbe altrimenti a compulsare febbrilmente i palantíri aderendo a quella sottospecie di gnosi oggi in voga di sorvegliare tutto e tutti per annullare l’azzardo e mettere in scacco la Provvidenza, sì da sognare l’onnipotenza con l’onniscienza materiale.
Altrettanto buona è la lontananza sottesa dal viaggio che vede impegnata la compagnia dell’Anello. Nel viaggio la lontananza si fa esperienza e si incorpora nell’identità del viaggiatore che dei luoghi lontani diventa protagonista o almeno coautore, secondo un modello di scambio ben diverso dalla passività a senso unico di chi osserva dal monitor di un palantír elfico o digitale (o dalle camere di un resort). Perché ciò avvenga serve però un’identità da scambiare, che va coltivata prima di affrontare le tentazioni e i patimenti del cammino. Come le sfere, viaggio e sapere non sono per tutti o quantomeno richiedono un sé a cui tenersi fedeli, una pedagogia che si esercita nei modi raccomandati dai sapienti di tutte le epoche (eccetto la nostra): la virtù nelle cose a sé prossime, il distacco dal rumore del mondo e della sua «attualità». Quale modo peggiore di incominciare la giornata se non ascoltando una rassegna stampa? E quale modo migliore di condursi prima di una battaglia se non ripetendo senza vergogna «non mi interessa, non so»? Se l’avvizzito Denethor grida a Gandalf che «la tua speranza non è che ignoranza» allora non può che essere vero il contrario, che sì, una tale ignoranza è speranza.
J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Libro Terzo, Cap. XI. ↩
ivi, Libro Secondo, Cap. II. ↩
Tom Shippey, The Road to Middle-Earth, Allen & Unwin, 1984. ↩
J.R.R. Tolkien, op. cit., Libro Terzo, Cap. VIII. ↩
Patrick Curry interpreta gli opposti poli di enchanment e magic teorizzati da Tolkien (essendo il secondo «non un’arte, ma una tecnica [il cui] intento è il potere in questo mondo, la dominazione delle cose e delle volontà») applicandoli rispettivamente alle creazioni degli elfi e di Saruman (J.R.R. Tolkien, Tree and Leaf, Unwin Hyman, 1964; P. Curry, "Magic vs. Enchantement", in Journal of Contemporary Religion, 14:3 (1999) 401-412). ↩
V. Giacché, La fabbrica del falso, Imprimatur, 2016. ↩
J.R.R Tolkien, op. cit., Libro Quinto, Cap. IX. ↩
ivi, Libro Quinto, Cap. VIII. ↩
ibid. ↩
Per quanto certo in modo non intenzionale, suona profetica la sprezzante esortazione di Denethor a Gandalf: «Va’ dunque, datti da fare per sanare gli altri!» se si pensa alla sufficienza con cui sono oggi considerati alcuni medici «rei» di cercare un supporto pubblico dopo avere curato o prevenuto condizioni potenzialmente mortali e avere subito sanzioni. ↩
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