Per gli scienziati della comunicazione il termine gatekeeping indica l'omissione selettiva delle notizie da parte di un organo di stampa o di un'autorità politica, per influenzare l'opinione pubblica. Il primo a scriverne fu il ricercatore David Manning White nel saggio The Gatekeeper: A Case Study in the Selection of News (1950). Utilizzando categorie a noi più vicine, il gatekeeping così inteso è uno spin di tipo passivo - dove cioè lo spin doctor non fabbrica le notizie, ma le omette - e anticipa la fattispecie della «falsa sineddoche» introdotta da Vladimiro Giacché ne La fabbrica del falso. Lì si osservava come la manipolazione del pubblico non scaturisca tanto dalla mancata informazione, quanto piuttosto dalla sua propensione a interpretare la totalità dell'evento relato sulla base delle informazioni selezionate dal gatekeeper. Come nella figura retorica della sineddoche, la parte diventa così il tutto e lo deforma per adattarlo ai significati di chi l'ha estrapolata. A chiosa di quella intuizione, scrivevo ne La crisi narrata:
poiché il lettore... tenderà a riempire gli spazi vuoti tra gli episodi narrati per ricostruire interiormente una visione dell’oggetto intero che replichi quegli input informativi istintivamente assunti come rappresentativi, la disonestà del narratore non risiede tanto nella reticenza o nei giudizi quanto nella sottintesa promessa di offrire un campionario di rappresentazioni proporzionalmente fedele alla realtà.
Negli ultimi anni si è diffusa una seconda accezione del termine, piuttosto lontana dall'originale, in cui l'elemento da trattenere non è più l'informazione bensì la sua possibilità di sortire gli effetti per i quali è stata concepita e diffusa. Ciò avviene segregandone i messaggi in un «recinto» (gate) dialettico e affidandoli alla sorveglianza di un «guardiano» (gatekeeper) che, allo scopo, si intitola il discorso da contenere facendosene leader, portavoce, finanziatore, ispiratore, teorico ecc. Egemonizzata la dialettica a sé ostile, il gatekeeper può così dettarne i contenuti e sterilizzarne gli esiti, ad esempio politici, censurarli o asservirli a scopi diversi da quelli originali, in certi casi opposti. Il gatekeeping così inteso può ricondursi a due momenti o requisiti più uno: intitolazione + segregazione (+ perversione).
La tecnica pubblicitaria offre numerosi esempi. In uno spot di qualche anno fa si reclamizzava un marchio di biscotti raccontando per immagini l'esistenza felice di una famiglia presso un vecchio mulino immerso nella campagna. La trama rispecchiava il desiderio del pubblico di consumare cibi genuini nella cornice rassicurante di manifatture artigiane, affetti famigliari e pasesaggi incontaminati. Dovrebbe perciò strabiliare che il suo scopo era invece quello di promuovere... prodotti industriali fabbricati in serie in qualche grigio capannone di periferia, con conservanti e additivi certamente estranei a ogni canone di «tradizione». I registi prima blandivano i destinatari mettendone empaticamente in scena i bisogni, poi, conquistata la loro fiducia, accreditatisi cioè come titolari e interpreti credibili di quei bisogni (intitolazione), li indirizzavano verso la loro negazione (perversione). Lo spot tracciava il «recinto» dentro cui si catturava (segregazione) un discorso che, qualora libero di svilupparsi, avrebbe minato gli interessi della committenza. Intitolandoselo ne sfruttava invece la seduzione per promuovere quegli interessi.
Il cinema di Hollywood è un altro, mastodontico, laboratorio di gatekeeping nella misura in cui si presta alla rappresentazione (intitolazione) dei mali della società occidentale e nordamericana - corruzione, collusione dei poteri pubblici con organizzazioni private e criminali, militarismo, terrorismo, mercificazione e tecnicizzazione della vita umana, deindustrializzazione, violenza, degrado, esclusione sociale ecc. - per soffocare in fasce la denuncia e le eventuali contromisure politiche del pubblico (segregazione). In che modo? Includendo nella finzione cinematografica gli «anticorpi» che sconfiggono quei mali e attribuendo loro il lieto fine della trama: un manipolo di (super)eroi senza paura, funzionari e soldati integerrimi, la «parte sana» della società, un cattivo che si pente ecc. sì da coltivare nello spettatore la percezione di una civiltà nonostante tutto in grado di emendare se stessa o, ancora più a monte, di stigmatizzare ed espiare in pubblico le proprie vergogne.
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Nelle vicende politiche è plausibile che il gatekeeping sia sempre esistito, in qualche forma. Giuseppe Tomasi di Lampedusa faceva dire a un suo personaggio che «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», che cioè chi ha interesse a mantenere lo status quo deve intitolarsi le istanze del cambiamento per portarle su un binario morto e, possibilmente, arruolarne i fautori contro ogni tentativo di cambiamento reale. È in democrazia che il gatekeeping trova il suo terreno ideale perché lì, non potendosi reprimere l'espressione delle idee, chi ne è minacciato non può che farle sue per attenuarle, screditarle o dirottarle secondo il proprio vantaggio. Non è però un investimento inutile, né eccessivo. Calatosi tra le fila dei suoi antagonisti, il gatekeeper li assimila e li lega a sé tessendo una rete di obbligazioni reali e morali che rendono difficile, quando non impossibile, la sua identificazione nel campo ostilee, quindi, anche una schietta contrapposizione di interessi, ad esempio di classe. Ecco il vantaggio: che il gatekeeping scombina la dialettica amico-nemico e la intorbidisce non solo perché poggia in definizione sul travestimento, ma più ancora perché, nel propagarlo a cascata, fa sì che i kept diventino keeper e mettano il loro zelo a sorvegliare il recinto. Sarebbe perciò fuorviante parlare di buona o cattiva fede.
Può anzi darsi una lettura spersonalizzata del fenomeno e riconoscervi il sistema immunitario di un investimento sociale che va difeso non tanto dai suoi nemici, ma prima dai suoi fallimenti. Perché le strategie di questa risposta rivelano il vizio fondamentale, il nucleo molle di un ordine sociale che dichiara di reggersi sul libero incontro di domanda e offerta - di prodotti e servizi, ma anche di idee, di proposte politiche - che nella pratica premia però chi rappresenta empaticamente i bisogni e non chi li soddisfa, chi narra i problemi e non chi li risolve. Si spiega così la fitta coltre di simboli e di narrazioni, quasi sempre infantili, che opprimono la sedicente epoca del freddo dato scientifico e gli investimenti davvero abnormi che assorbono le succitate industrie cinematografica e pubblicitaria, per tacere di quella dell'«opinione» giornalistica. Sul palcoscenico di questo baraccone perenne si mimano i bisogni materiali e spirituali degli uomini per esorcizzare la loro negazione. È la «société du spectacle» di Guy Debord dove «le consommateur réel devient consommateur d'illusions».
La strategia funziona? Ni. Riprendendo una formula antica, il gatekeeping reincarna i circences che scaldano il tifo delle masse, lo polarizzano e lo indirizzano verso fini reconditi sotto insegne manifeste. Per essere efficace il suo traino deve però andare in pariglia con un più tangibile panem, con un vantaggio diretto o indiretto che ne lubrifichi la forzatura. Se è ad esempio vero che alcuni partiti comunisti nel dopoguerra hanno assolto anche al compito di disattivare i propositi rivoluzionari dei loro elettori segregandoli nel recinto delle democrazie liberali, ciò poté avvenire solo perché al contempo vi fu un effettivo miglioramento delle condizioni economiche e lavorative delle classi subalterne. L'operazione diventava così «perdonabile». Ma, senza panem, il gatekeeping è nudo come il re della fiaba, si scopre e divora se stesso nella sovrapposizione di ciò che afferma e poi nega. Non dura.
A questo stadio terminale e grottesco sembra avviato un mercato che impone i suoi prodotti - strumenti finanziari, «rivoluzioni digitali» inutili e ingombranti, farmacoterapie di massa ecc. - fingendone sempre più stancamente i benefici o le briciole di panem per i consumatori, mentre quasi sempre consegna l'opposto di ciò che promette. E così anche la politica. Con il referendum consultivo del 2015 Alexis Tsipras sollecitava e incassava dai suoi concittadini il mandato di rifiutare esattamente quegli stessi provvedimenti (qui e qui) che i suoi governi avrebbero poi attuato, con uno zelo tanto feroce verso il basso quanto servile verso l'alto e consegnando il Paese a una schiavitù simil-coloniale. Anche tra chi ne ha acclamato le ragioni non è mancata la consapevolezza che con quel voltafaccia il leader greco fondava l'archetipo del gatekeeping europeista, di un progetto politico continentale che ormai si regge solo sulla negazione di sé, sull'eterno rimando a un'«altra» Europa che non esiste né si intravede.
Il gatekeeping rivela così la sua proprietà ultima, che è epistemica e antropologica. Non segnala solo l'affanno di un sistema ma anche un bisogno di verità così forte da rappresentare l'esca commerciale ed elettorale più appetitosa e smentire una volta e per sempre la retorica infame di un popolino assetato di «fake news». Al contrario, sono i rapporti di forza in essere e i loro istituti - produttivi, economici, politici, culturali - che per conservare i loro squilibri patologici devono prostituire e tradire la verità, tanto più sfacciatamente quanto più il baricentro si sposta verso l'alto e verso i pochi, spogliando la base.
Queste tendenze, e il fatto che si parli oggi di gatekeeping in questa accezione, suggeriscono che la forbice tra teoria e prassi si sta allargando in modo insopportabile, pericoloso, fino all'inversione. E traducono un allarme: che se la democrazia non ha materialmente più nulla da dare, presto potrebbe non avere più nulla da dire.
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