Mi si coinvolge spesso in un dilemma antico: se chi mente sia in buona o cattiva fede, se sia un pollo o una volpe, uno stupido o un furbo. La risposta all'interrogativo parrebbe urgente per formarsi un giudizio su personalità pubbliche e interlocutori, ma non lo è. È anzi un peccato intellettuale, quello di separare i buoni dai cattivi, così antico da essere originario: «Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,17).
Le conseguenze di quella tentazione sono illustrate dal mito e da una lunga produzione filosofica sul libero arbitrio (se cioè si sia liberi di mentire, più in generale di nuocere) e sulla coscienza (se si sia consapevoli di farlo). La conclusione è che il male certamente esiste in causa ed effetto, ma difficilmente in intenzione. Se quest'ultima può essere strumentalmente riconosciuta dal diritto distinguendo in intenzionali, preterintenzionali, premeditate, colpose ecc. le trasgressioni alla legge, il suo primo movente resta comunque e sempre l'idea - vuoi anche malfondata, provvisoria, in certi casi allucinata - di un bene finale che giustifica i mezzi. Così Tommaso d'Aquino nel De Veritate:
La volontà tende infatti naturalmente al bene come al suo proprio oggetto. Se talvolta tende tuttavia al male, ciò accade perché il male le si propone sotto le spoglie di un bene [sub specie boni].
Applicando l'assunto al nostro tema, chi mente agli altri mente sempre, anche se non sempre direttamente, a se stesso. E se chi lo fa senza saperlo è certamente stupido e/o male informato, il consapevole non può che trovare conforto nella convinzione, all'occorrenza fabbricata ex post, di farlo «a fin di bene» e quindi di essere in malafede solo in senso strumentale, non finale. Osserviamo ad esempio il commento di Mario Monti all'esperienza del governo neoliberista di Carlos Saul Menem in Argentina (devastante come lo fu quella del nostro, ventidue anni dopo):
[il] consapevole "tradimento" delle promesse elettorali del presidente argentino Menem: eletto su una piattaforma peronista, ha poi capito che era nell'interesse del Paese fare una politica diversa, l'ha spiegato agli argentini, ha avuto in Cavallo un notevole ministro dell'economia e credo che oggi i suoi concittadini siano grati del "tradimento".
È evidente che se questo elogio della menzogna elettorale fosse stato in perfida e perfetta malafede, il prof. Monti si sarebbe guardato bene dall'affidarlo... alle pagine di un quotidiano nazionale.
Consideriamo ora un secondo possibile e trasversale criterio di misurazione della cattiva fede, se cioè la menzogna serva l'interesse particolare di chi la profferisce. Anche in questo caso però la discriminante non reggerebbe all'esame soggettivo: infatti tutti i mentitori - consapevoli e non - credono di mentire nel proprio interesse. Sicché ci si può solo esercitare nella misurazione di quella credenza distinguendo, ad esempio, tra i miopi in «malafede» che (si) ingannano per perseguire un vantaggio immediato senza prevederne le conseguenze, e i presbiti in «buonafede» che nell'ingannarsi accettano uno svantaggio di breve termine confidando penosamente in un riscatto nel lungo.
Inoltre, il tornaconto di chi mente non è solo materiale. Ad esso va di norma sommato un più portentoso, perché non contingente né direttamente quantificabile nei suoi benefici, interesse immateriale e ideologico. Nelle idee si esprime la storia, l'identità e le relazioni di chi vi ha investito, sicché rinunciare a un'idea, quand'anche sbagliata, bislacca o irrecuperabilmente fallimentare, non significa rinunciare alle proprie cose, ma a una parte di sé. È un'automutilazione che espone all'insicurezza e alla vergogna, quando non alla disgrazia, tanto più feroci quanto più oneroso e convinto è stato quell'investimento ideale.
Ma il punto centrale della menzogna nell'interesse proprio, presunto o reale, materiale o immateriale, presbite o miope, quello che mette una pietra tombale su ogni residua ipotesi di malafede, è però un altro: è che in essa si riqualifica quell'interesse - lo ripetiamo: fallace, perché fondato sul falso - in un interesse universale. Che in essa l'inganno si struttura e si razionalizza calandosi in un sistema all'occorrenza barocco e foriero di altre, necessarie menzogne per farne la tessera di un più presentabile bene comune. Nasce da lì, dal topolino dei propri miseri cazzi e dei propri voti ideali, la montagna delle scuole economiche e politiche, dei grandi affreschi teoretici, della violenza progressista in cui l'interesse degli uni si glorifica nel bene di tutti e, per proprietà commutativa, il preteso bene di tutti tradisce l'interesse degli uni.
Si conferma così l'intuizione dell'Aquinate: il mentitore, come chiunque commetta il male, non tollera il male tra i propri moventi. Sicché esorcizza la malafede ricollocando i propri inconfessabili fini dettati dall'egoismo, dall'odio e dalle tante debolezze umane, in una dimensione più alta e inattingibile, svincolata dalle circostanze e quindi insospettabile, dichiaratamente tesa a un obiettivo superiore.
Più tardi Arthur Schopenhauer avrebbe descritto come la «volontà di vivere» (Wille zum Leben), l'istinto universale al piacere e alla vita che muove l'egoismo dei singoli, eserciti il suo dominio sull'«intelletto» (Intellekt) preposto alla rappresentazione del mondo (Vorstellung) per fabbricare giustificazioni razionali e moralmente seducenti ai propri men che nobili fini. Il filosofo affronta estesamente il tema nel supplemento «Del primato della volontà nella coscienza di sé» (Vom Primat des Willens im Selbstbewußtseyn) alla sua opera principale. Nel raccomandarne la lettura integrale, anticipiamo nel seguito la traduzione di un breve stralcio applicabile al caso:
La natura [dell'autoinganno] risiede nel fatto che la volontà, quando l'intelletto suo servo non è in grado di produrre le cose che essa desidera, lo costringe comunque a rappresentarsele e, in generale, ad assumere un ruolo di consolatore, ad ammansire il suo signore e padrone siccome una balia racconta le fiabe al bambino, agghindandole in maniera tale da conferire loro un'apparenza di vero. Qui l'intelletto è costretto a farsi violenza, a negare la propria naturale vocazione alla verità e, contrariamente alle sue leggi, a considerare vero ciò che non è né vero né probabile, spesso a malapena possibile.
La questione della malafede giace dunque sepolta nella storia del pensiero occidentale. Resta solo da trarne una morale, anzi due. La prima non può che essere l'irrilevanza dell'esercizio tassonomico di cui all'apertura di questo articolo. Se nell'intrico dei moventi e delle debolezze umane il giudizio finale sul dolo spetterà eventualmente a Colui che «solo conosce il cuore di tutti i figli degli uomini» (1 Re 8,39), ai mortali conviene saltare a pie' pari quell'intrico e concedere a tutti il beneficio di una buonafede, foss'anche delirante e perversa, per concentrarsi su una meno esaltante ma più produttiva ricerca del vero. La cattiva coscienza resisterà come ipotesi intermedia, per non farsi ingannare senza perciò postulare l'ombra nera di un ingannatore.
La seconda morale è che tutto ciò, a dispetto dell'apparenza, è una pessima notizia. Perché chi fosse radicalmente perfido circoscriverebbe la menzogna al proprio obiettivo, conseguito il quale smetterebbe di mentire. Chi si nasconde il falso nobilitandolo nei più alti sistemi non ha invece limiti: lo estende a tutto e tutti, lo impone, lo porta alle conseguenze più estreme e lo difende dall'evidenza con l'esaltazione dei martiri. E poiché la tentazione tocca anche chi scrive, e chi legge, occorre davvero tenersi alla larga dall'albero di Adamo: sia quando porta i frutti caldi e piccanti dell'inferno dei «cattivi», sia quando promette di santificare le nostre miserie.
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