Molti chiedono: che fare? E per quanto ci si spieghi, il finale non cambia: quindi? che fare? soluzioni? proposte? Con l'orgoglio di chi non si lascia incantare e l'impazienza di chi va dritto al sodo. Qualcuno guardando l'orologio, qualcuno tamburellando le dita sul tavolo, tutti sollevando ieraticamente il capo nel pronunciare la summa quæstio, la domanda delle domande che non concede scampo. Ma io non rispondo, non ho mai risposto e non propongo alcunché.
Me ne guardo anzi bene.
Perché a ciascuna domanda corrisponde, se non una sola risposta, almeno un insieme finito di risposte o meglio un dominio di registri, di codici e di significati che impegnano l’interlocutore, quasi lo mettono in catene. A un quesito di matematica si replica con un numero o un concetto matematico: la gioia, il nitrato di sodio o la Svizzera non sono tra le opzioni ammesse. Se la domanda è sconcia si risponde sconciamente, se è in tedesco in tedesco. Chi domanda comanda: detta il tempo, il genere e il tono. Detta cioè il pensiero, che per svilupparsi deve invece formulare nuovi interrogativi o almeno mettere in questione quelli già dati. Altrimenti non è un pensiero ma un compito in classe, un modulo da compilare.
Si potrebbero fare tanti esempi di come l’ignoranza di questa premessa porti malintesi e conflitti. L'uso recente di offrire al pubblico i «dati» per promuovere un dibattito «informato» – una domanda, appunto – sui più diversi temi nasconde il limite di non consentire alcun dibattito circa il dominio stesso di quei dati: l’oggetto, l’approccio, la dialettica sottintesa. Perché «i dati» di un fenomeno e non di un’altro? Perché i «dati» percentuali e non assoluti? Perché li si diffonde oggi ma non ieri, o domani?
È facile comprendere come la selezione preanalitica dei domini presti il destro alla manipolazione dei destinatari con la promessa di valorizzarne le analisi. Chi domandasse loro «come fermare il pericolo fascista» o il tale «dittatore» vorrebbe in realtà solo affermare, cioè rispondere, che a) ci sono i fascisti e Tale è un dittatore) e b) rappresentano un pericolo. Punto. Il resto è zeppa, cascame dialettico che tocca assecondare per non scoprire il gioco. Più raffinata, ma ugualmente frequente, è la confusione voluta tra domini incompatibili. Accade ad esempio quando si discute la bontà di una decisione tecnica rappresentando in iperbole i sentimenti di chi se ne dovrebbe giovare, o al contrario quando le discussioni tecniche «oggettive» servono a ignorare i sentimenti di chi ne subirà gli effetti. Se ciascun dominio ha i suoi imperativi e i suoi requisiti di verità, per infrangerli è sufficiente spostare il dibattito altrove. Un precetto religioso (dominio spirituale)? Roba da medioevo (dominio storico). Un diritto (dominio giuridico)? Sacrificabile perché c’è troppa anidride carbonica (dominio chimico), circola un virus (dominio medico), manca il personale (dominio amministrativo), non piove (dominio meteorologico), sale lo «spread» (dominio finanziario).
Fatta questa obbligatoria premessa, «Che fare?» (Что делать?) è il titolo di un celebre saggio di Lenin pubblicato all’inizio del secolo scorso, nelle cui pagine il futuro segretario sovietico si interrogava sulle strategie migliori per affermare il socialismo tra le masse. La scelta del costrutto e del verbo riprendeva a sua volta il titolo di un libro scritto quarant’anni prima dall’intellettuale Nikolaj Černyševskij che aveva ispirato i giovani rivoluzionari dell’epoca. Il «fare» in questione non era dunque aperto a ogni esito, ma ben indirizzato a quell’unico scopo (risposta) possibile. Il campo semantico alluso e dettato dall’interrogativo è perciò almeno in origine quello del socialismo o più in generale del progressismo, in coerenza con l’ambizione di questi sistemi di emancipare l’uomo dai mali sociali con il lavoro e la prassi politica. La stessa centralità del fare ricorre però anche nella via creativa e trasformativa del capitalismo che, come ha osservato Weber, diventa soteriologia. Le due sponde si saldano: della civiltà borghese i comunisti ammirano
il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici e il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo (Marx, Manifesto del Partito Comunista, cap. I),
fino a considerarle propedeutiche all’affermazione della rivoluzione proletaria, che di quel patrimonio avrebbe dovuto raccogliere l’eredità. Entrambi i poli antagonisti della modernità abbracciano dunque l’opzione prometeica e materialistica come l’unica immaginabile, auspicabile e percorribile. Cristallizzata la domanda sullo sfondo («che fare?») si differenziano piuttosto nelle risposte a valle, nei modi di distribuire i frutti di un fare nel mondo di cui condividono invece gli strumenti e l’oggetto. Sodali nell’idea, nella pratica si contendono la stessa bistecca. Da qui le molte convergenze e conversioni tra le fila degli opposti fronti, ma anche certi equivoci ormai classici del pensiero moderno: la «scoperta» come momento gnoseologico privilegiato o esclusivo, lo sviluppo materiale come soggetto che plasma la volontà e la storia (quando ne è con tutta evidenza un epifenomeno ancillare, uno strumento) e, di conseguenza, la neutralità della tecnica, che cioè intraprendenza e manufatti (il fare, appunto) sarebbero «buoni in sé» e solo eventualmente «cattivi» se male adoperati. L’avere ignorato il canone imposto dalla domanda – che fare, ma non se fare – ha reso sfuggente l’altrimenti ovvia continuità di intenzione e di azione, che ogni atto porta cioè impressa in sé la sua inalterabile genitura logica e teleologica: un progetto, un interesse, un modello sociale, una filiera di fatti propedeutici e conseguenti. Un fare senza origine, senza virtù né peccati originari, è un fare assoluto e senza meta che nell’immaginazione può perciò aprirsi a ogni meta. Così il protagonista del Tallone di ferro di Jack London auspicava che i telai delle grandi corporazioni – gli stessi costruiti dalle grandi corporazioni, su misura delle grandi corporazioni, per assicurare e conservare il dominio delle grandi corporazioni – non andassero distrutti ma consegnati ai piccoli tessitori di provincia per scinderne il potenziale intrinsecamente «buono» dall’idea incidentalmente oppressiva che li aveva partoriti. Che nulla del genere sia mai accaduto, che cioè mai i deboli abbiano sconfitto i forti imbracciando le loro stesse armi (istituzioni, telai, infrastrutture, eserciti, quattrini ecc.) era in premessa. Non si danno risposte giuste a una domanda sbagliata.
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È certo legittimo collocare una critica e un programma di azione nell’alveo antropologico «fattivo» dei moderni per contrapporre a un fare male indirizzato un fare correttivo e (ri)costruttivo di segno opposto, ma non può essere un imperativo né un passaggio senza scampo. Per quanto egemone da almeno tre secoli, il dominio tacitamente tracciato dalla domanda è già stato giudicato da una lunga tradizione di pensiero. I latini, pur poco inclini alla contemplazione, designavano la «cultura del fare» che ci dà vanto come una derivazione privativa (negotium) del più nobile otium praticato da «coloro che si dedicano alla sapienza, i soli che vivono» (Seneca, De brevitate vitae, 9,XIV). Nelle religioni – e quindi anche nelle civiltà – tradizionali il punto è fondativo perché discende dal religere stesso, dal gettare un ponte tra immanente e trascendente in cui si implica la subordinazione del primo al secondo e perciò l’insufficienza di un fare tutto terreno privo di direzione e destinato, come ogni cosa, alla morte.
Il racconto biblico è intriso di questa trama fin dai primi versetti. All’alba della creazione gli uomini credettero di farsi dèi elevandosi alla saggezza divina come era stato promesso loro dal serpente: «i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio» (Gen 3,5). Da lì è scaturito il peccato che riassume in sé tutti i peccati e il male ha fatto il suo ingresso nella storia. La stessa hybris va in scena anche altrove e trova le sue declinazioni più limpide nelle vicende tragiche dell’homo faber che erige nel Sennaar «una torre la cui cima tocchi il cielo» per unire i popoli della terra (Gen 11,1-7) o forgia nel deserto un idolo d’oro dalle sembianze bovine perché non crede nelle promesse celesti (Es 32,1-6; Sal 106,19-22). Il monito di non presumersi i soli artefici della propria salvezza, anche terrena, ricorre nei salmi e nelle profezie, dei cui passi più rilevanti si può qui dare solo un’antologia striminzita: «Maledetto l'uomo che confida nell'uomo e fa della carne il suo braccio» ammonisce Geremia (Ger 17,5), «perché vana è la salvezza dell'uomo» (Sal 59,13). A nulla valgono gli sforzi degli uomini che non si affidano a Dio: «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori; se il Signore non protegge la città, invano vegliano le guardie» (Sal 118,8-9). Né bisogna riporre speranze o timori nelle organizzazioni politiche, perché «il Signore rende vano il volere delle nazioni, egli annulla i disegni dei popoli» (Sal 33,10) e in coloro che detengono un potere mondano: «Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare. Esala lo spirito e ritorna alla terra; in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni» (Sal 145,3); «Non confidate nei prìncipi, né in alcun figlio d'uomo, che non può salvare» (Sal 146,3); «È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei prìncipi» (Sal 118,9). Sono numerosi gli episodi in cui Dio manifesta la Sua potenza assicurando il successo a imprese che sarebbero impossibili o folli secondo il metro degli uomini. Giuseppe, Davide e Gedeone furono scelti tra i più piccoli e meno considerati dei loro fratelli per dare gloria al loro popolo. All’ultimo dei tre Dio ordinò di ridurre il proprio esercito da trentaduemila uomini a soli trecento, che nondimeno ricevettero la forza di trionfare sui centotrentacinquemila soldati dei re madianiti Zeba e Salmunna affinché Israele non si credesse faber fortunae suae dicendo «è stata la mia mano» (Gdc 7,4; cfr. anche Dt 32,27).
La predicazione evangelica sviluppa e perfeziona il messaggio. Nella casa di Betania NSGC dichiara il primato della contemplazione sull’azione discorrendo con Marta e Maria: alla prima che rimprovera la sorella di attardarsi con l’ospite invece di aiutarla a servirlo, risponde: «Tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore» (Lc 10,41-42), Perché, dirà ai suoi discepoli prima di consegnarsi alla Croce, «senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). I temi dell’affanno e della prudenza, oggi virtù somme del cittadino-formica frenetico, previdente e sgobbone, sono al centro di un passaggio del sermone della montagna così limpido e duro da suonare come un corno di guerra contro l’etica del fare contemporaneo:
Perciò vi dico: Non siate in ansia per la vostra vita di che mangerete, né per il vostro corpo di che vi vestirete. La vita vale più del nutrimento e il corpo più del vestito… non cercate che cosa mangerete o che cosa berrete, e non ne state in ansia, perché le genti del mondo cercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che voi ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte (Lc 12,22-34).
Nel vangelo di Matteo, che riporta sinotticamente lo stesso discorso (Mt 6,25-33), le «gentes mundi» sono semplicemente «gentes», cioè i pagani (cfr. trad. CEI, 2008) e quindi gli idolatri. L’ansia di fare è idolatria, culto del mondo.
In un’altra occasione il Cristo si pronuncia sull’agire politico. Ai farisei che gli chiedono maliziosamente se sia lecito versare gli odiati i tributi all’occupante romano (Mt 22,15-22; Mc 12,13-17; Lc 20,20-26), risponde senza rispondere, perché anche in quella domanda si nasconde l’intento di «coglierlo in fallo nei suoi discorsi» escludendo l’unica rilevante distinzione tra la contingenza politica (il «dare a Cesare») e il dovere sempiterno di compiere la volontà del Padre (il «dare a Dio»). Che fare, allora? È ciò che chiedono le folle al Battista, che risponde: «chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». E agli esattori: «non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». E ancora, ai soldati: «non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (Lc 3,10-14). La pragmatica del cristiano è la carità da esercitarsi nella prossimità e nella quotidianità, ciascuno secondo il suo ruolo, nei gesti minuti di cui è fatto il Regno di Dio «simile a un granello di senape… il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante» (Mt 13,31-33). Tra le quasi ottocentomila parole che compongono i libri della Bibbia non ce n’è una che alluda a dottrine politiche, forme di governo, rivoluzioni, ideologie, disegni di legge, riforme, modelli economici, equilibri di potere e altri temi che non mancherebbero oggi nei dibattiti engagé dei bene informati. Nulla parla degli -ismi, tutto punta alla nuda singolarità degli uomini chiamati singolarmente a salvarsi, siano essi servi o sovrani, alle molecole da rimettere nelle mani dell’Artefice affinché le disponga a compiere i Suoi disegni: anche storici, anche sociali.
Che fare, invece, se il mondo rifiuta il messaggio? E se addirittura si rivolta contro i messaggeri? Il Figlio di Dio lo aveva previsto, lo aveva anzi dato per certo. I suoi discepoli, dice, «il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 15,19). Il fare terreno non è solo di minor gerarchia, ma anche ostile in potenza: indirettamente perché distrae dalla chiamata ultraterrena, direttamente perché al suo essere minacciato e ridimensionato da quell’oltre reagisce con la violenza. Da qui le persecuzioni e i martiri, ma anche l'importanza del non fare, i domini della rinuncia e della penitenza comuni ad altre tradizioni ascetiche dell’antichità. Da qui la disciplina dell’abbandono, il primato della preghiera, l’invito a non presumersi padroni del proprio futuro per quanto ci «si dia da fare» (Mt 6,27). Per i mistici l’antitesi è totale: «Egli [Gesù]» scriveva Padre Pio, «dalla nascita ci addita la nostra missione, che è quella di disprezzare ciò che il mondo ama e cerca» (Meditazione sul Natale). Nelle tavole della legge mosaica ben otto comandamenti su dieci sono espressi in forma negativa: non fare, non desiderare... e «allora chi potrà mai proibire a Dio di fare ciò che vuole in quest’anima docile, spogliata di tutto e nuda?» (San Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo). Anche la testimonianza non deve accanirsi: «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi» (Mc 6,11). Non fare, non insistere, non pretendere che tutto dipenda dall’uomo. Dare spazio e attendere, desistere per agire, praticare una «desistenza attiva».
È logico che questi approcci non troverebbero cittadinanza in un paradigma culturale che mira a risolvere tutto nei termini della realtà creata. Lì la rinuncia alla lotta non sarebbe che una sconfitta senza rimedio, come quella ai piaceri un’occasione perduta per sempre. Lì non reagire ai torti subiti sarebbe una colpevole omissione di giustizia mancando l’ultimo tribunale a cui «appartiene la vendetta e la retribuzione» (Dt 32,35; Rm 12,19; Eb 10,30). Lì occorrerebbe fare finché c’è tempo, fare a più non posso prima che scenda la notte eterna. Senza fiducia in un ordine superiore i conti vanno chiusi nell’ordine infero anche quando è impossibile, sicché bisogna invece credere che lo sia o che lo sarà un giorno. La fede scartata rientra dal sottoporta come fede nella storia, nel progresso e nella rivoluzione: «l’ultimo termine a cui è arrivato l’orgoglio» (Donoso Cortés). Il paradiso creduto diventa immaginato e sperato. Il suo fallimento, puntuale, l’inferno.
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Come si applicano questi precetti al tempo presente? Osserviamolo nel traffico di una grande città: quanti di quelli che si lasciano vomitare dai vagoni delle metropolitane, quanti di quelli bloccati tra i fumi fossili della terra, quanti di loro porteranno agli altri e a sé stessi un bene che non sia il soldo promesso? Quanti vergheranno carte e discuteranno progetti da cestinare entro sera? Quanti consegneranno paccottiglia nata già spazzatura dall’altra parte del mondo? Quanti seguiranno un corso universitario o attraverseranno gli oceani perché fan tutti così? Quanti diffonderanno «cultura» ripetendo a pappagallo gli opuscoli di un governo o di una fondazione? E quanti invece faranno proprio del male: calpestando i sottoposti per allungare di un millimetro un istogramma, piazzando usura non richiesta, sviluppando prodotti che ammalano l’anima e il corpo, vessando con norme e sanzioni perché «faccio solo il mio dovere»? Osserviamolo nella burocrazia che da utensile dei capricci di onniscienza dei primi despoti «illuminati» è diventata la regina della tote Arbeit, del lavoro morto che serve solo se stesso. E osserviamolo nel dilagare dell’automazione che per servire gli uomini li ha fatti servi: imputatori di dati nei formati stupidi e barocchi che la macchina esige per definirsi «intelligente», topi ligi alle griglie, ai tempi e alle condizioni degli algoritmi, dipendenti da un garbuglio di cavi e infrastrutture che divorano energie e lavoro in funzione di sé, della numérisation pour la numérisation.
La critica alla presunta crescita «infinita» perseguita dal nostro modello di sviluppo andrebbe meglio indirizzata alla crescita fittizia che esso promuove e smaltisce a cicli alterni, dovendo placare una fame – quella sì, infinita – di sbocchi remunerativi per la moltiplicazione dei capitali. Per scongiurare che i bisogni primari siano stabilmente soddisfatti a scapito del saggio di profitto, li si «rivalorizza» con la penuria, l’usura e la produzione di beni a scadenza (obsolescenza programmata, sementi non riproducibili, instabilità normativa ecc.). Ma non basta, non basta mai. Si sviluppano falsi bisogni in vitro e li si impone con la propaganda o, se occorre, con la forza dei poteri pubblici: le mode, la burocrazia, la guerra, oggi specialmente la farmaceutica e l’automazione. In tutti i casi si alimenta una frattura tra la finitezza dei bisogni e delle risorse e l’attesa progressione infinita dell’astrazione monetaria. Si gonfiano «bolle» e crisi inflazionistiche (il valore fittizio esige e produce moneta fittizia, deprezzata) da curare raffreddando l’economia con le maschere dell’«austerità» di volta in volta fiscali, sanitarie, belliche, ambientali ecc. Per quanto si scarichi puntualmente sulle fasce più deboli, il processo non è però un baco del «turbocapitalismo» speculativo di pochi, ma l’habitus culturale di un’epoca che intride anche i suoi proclamati antidoti. Chi promuove l’impiego perché produce (?) stipendi, o un’attività qualsivoglia perché genera sviluppo (?), posti di lavoro, indotto, PIL ecc., ricalca la stessa logica di chi investe per l’utile: antepone l’ombra alla cosa, si aspetta che dall’ombra nascano le cose.
Quella economica è solo una chiave narrativa che aiuta però a inquadrare molti equivoci del fare contemporaneo. Il paradosso di un quattrino mercificato come se fosse non solo un bene in sé, ma l’alfa e l’omega di ogni bene, il prodotto finale di una filiera che certifica il valore e l’utilità di ogni bene e anche il bene sorgente di ogni bene possibile, non è che la metafora valoriale del fare purchessia e della pretesa di dare dignità all'affanno. E il necessario momento distruttivo di questo folle cantiere di nuvole scopre il lato oscuro e «antimaterico» di una coazione ad agire così irresistibile da far preferire la violenza all’indugio, la rovina al distacco, la strage al riposo. Il fare negativo, violento o austeritario, smonta e «resetta» gli errori del precedente e prepara il terreno ad accogliere il seme di nuovi errori. I frutti di questo tramonto architettato sono quelli di un cupio dissolvi che spinge gli uomini a flagellarsi perché spreconi, corrotti, egoisti, retrogradi, inquinanti, in una parola: inadeguati. E non tanto rispetto alla realtà naturale, di cui pure ora si considerano inquilini indegni, ma alle proprie stesse idee, alla propria immaginata potenza che sfracellandosi contro i muri della scarsità, del tempo e della biologia diventa odio dei limiti propri e perciò dell’essere umano tout court. Dell'uomo fallibile, mortale e «antiquato» (G. Anders) che va allora riprogrammato azzerando i suoi i retaggi e preferendogli i più malleabili algoritmi: rappresentazioni, non strumenti, di questa caduta. Sicché non è affatto ossimorica la «volontà di impotenza» di cui scrivono Roberto Pecchioli e Pier Paolo Dal Monte: perché anche in questo disfare ci sono un disegno e una foga, anche la distruzione è un cantiere, un’epopea del disfacimento che non tollera il disfattismo (!) di chi vorrebbe piuttosto conservare e conservarsi, rimanendo in disparte.
La creduta infinitezza di un siffatto fare – quale ne sia il segno – permea anche la questione del «che fare?» nel cui dominio si esclude in partenza un più onesto «si può fare qualcosa?» o meglio «è il caso di fare qualcosa?». O almeno: «che cosa si può fare?». Le ultime domande scongiurerebbero i sottintesi più tossici della prima, che cioè si debba e si possa fare, e il loro combinarsi in un’infernale «trappola del fare» che trasforma le vittime del disfare odierno in complici del loro stesso male. Il dovere di fare è il propulsore di un’agitazione che si alimenta con il senso di colpa: chi non fa non può lamentarsi e anzi, se lo merita. Dov’era quando si annunciava o si commetteva quel tal sopruso? Perché non ha protestato nelle piazze e sotto i palazzi, perché non ha scritto lettere di fuoco ai potenti? Perché non ha organizzato comitati, dibattiti, scioperi, comizi, sit-in, campagne sul web? Perché non ha sostenuto quel certo candidato o quel certo partito, perché non è andato a votare? Che queste e altre paternali si siano intensificate proprio in coincidenza con l’aggravarsi della crisi di rappresentanza degli ultimi anni fa sorgere effettivamente il dubbio che il senso di tenere in vita il tugurio democratico sia appunto quello di fingere che il popolo sia «sovrano» dei propri destini per scaricargli addosso la responsabilità di ciò che gli si fa subire. Perché è stato pigro, menefreghista, ha scelto male, ha trascurato il suo diritto-dovere di partecipare per cambiare le cose. Perché, in breve, non si è dato abbastanza da fare. Tra i tanti i teatri di questo moto vano e perpetuo, il più efficace è forse anche il più recente: la rete internet che catalizza l’impegno in effige trasferendolo nella dissenteria verbale e nei byte di poche e ben sorvegliate piattaforme, spegnibili a capriccio dei loro guardiani. Un Kindergarten dove i bambini giocano ai grandi, gli schiavi ai padroni.
Impresso il moto criminalizzando la stasi, occorre dirigerlo con la persuasione esplicita (mass media) e implicita (cinematografia, arti, pubblicità, programmi scolastici ecc.) ma anche passiva, intervenendo cioè a monte sulla possibilità di fare che si immagina illimitata ma che nella realtà è accuratamente compressa dalle forze in gioco, dalle leggi e dai tabù morali, fin quasi a ridursi a un circuito obbligato. Nel paradigma democratico l’azione si esprime con l’approvazione, sicché è ordinario che l’illusione del fare si costituisca come una scelta tra le diverse opzioni possibili di un menù prestampato: la scheda elettorale, gli ospiti di un talk show, le funzioni di una app, le spunte di un modulo o di un portale informatico. Alcuni anni fa un importante quotidiano pubblicava in prima pagina due diversi (sic) editoriali sul da farsi per colpire un regime mediorientale nemico. Il primo proponeva di inasprire le sanzioni economiche, il secondo affermava invece la necessità di un’azione militare diretta. La possibilità di non fare alcunché non era invece contemplata perché, ovviamente, «non possiamo stare a guardare: dobbiamo fare qualcosa!». E se in quel caso il «qualcosa» era una piccola variazione sul tema di infliggere un danno a milioni di innocenti, in altri può ben essere una dicotomia vera e propria, può cioè anche includere il fare oppositivo e contrario che svolgerà allora la funzione narrativa dell’antagonista, di esaltare la bontà della scelta vincente con il suo essere ripugnante, minoritario e sconfitto: i «negazionisti», i «no-vax», i nostalgici, i «putiniani», gli indifferenti ecc.
Per chi domina il mercato delle idee, nessuna pubblicità è negativa. Per non fare occorre quindi prima non farsi coinvolgere e disertare il campo, perché in qualunque squadra si giochi, si gioca secondo le regole e il verdetto dell’arbitro. Ciò vale anche per i modi e i luoghi della partita: le stanze telematiche, i giornali, l’associazionismo, i partiti politici e gli altri spazi di impegno in cui vincoli e prassi formali o informali hanno intrecciato un involucro ermetico da cui nulla è nato che non fosse autorizzato e previsto. Se mai c’è stato un tempo per queste cose, non è quello presente, il tempo in cui l’«agenda» – le cose che bisogna fare – coincide con gli agibilia – le cose che si possono fare. Quello in cui il concorso, non la coazione, porta i pesci alla rete.
Dunque nulla. O almeno nulla di quel fare orizzontale, di quell’intraprendere l’intraprendibile creduto «neutro» ma già rifinito e scelto per il fallimento, come i telai di Everhard. Fare invece verticalmente, nel puntiforme che sembra immobile dall’alto della storia, nella virtù, nell’intenzione e nell’anima. Fare secondo il Battista, presenti nel mondo fin nei suoi buchi più infami ma assenti dalle sue mappe, dal suo lessico e dai suoi strumenti. Fare per sé e per i prossimi. E abbandonare fiduciosi ciò che non spetta agli uomini e non possiamo, né dobbiamo fare.
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