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Spopolamento dei borghi e denatalità


L'intervento che segue è stato preparato per l'Arcadia Festival 2023, tenutosi il 24 giugno a Sant'Anatolia di Narco (PG).

Rivolgo un saluto a tutti i partecipanti e ringrazio Yuri e gli organizzatori di avermi coinvolto in questo stimolante dibattito.

Mi è stata proposta una riflessione sui modi in cui il modello culturale oggi prevalente si relazioni con la denatalità e lo spopolamento dei borghi, due fenomeni che interessano il nostro Paese, e non solo. Partirò dal secondo.

L’abbandono di quelle che i tecnici chiamano «aree interne» è una tendenza che data già dalla seconda rivoluzione industriale di fine Ottocento e ha visto il suo massimo picco di accelerazione negli anni Sessanta del secolo scorso, quando il boom economico ha reclamato manodopera per gli opifici urbani offrendo in cambio i comfort della vita moderna. In quell’epoca le aree interne si sono massicciamente svuotate e le città sono esplose trasformandosi in quel museo di orrida architettura cementizia che costituisce oggi la più parte del (chiamiamolo così) patrimonio edilizio nazionale.

Non è ozioso chiedersi quanto le dinamiche odierne di spopolamento dei centri rurali scaturiscano dalle stesse premesse di allora, e in che modo queste si siano eventualmente evolute. Se ieri come oggi (e come sempre) le persone cercavano una vita «migliore», va riconosciuto che in quell’epoca la promessa era almeno materialmente solida. Mentre i centri urbani offrivano lavoro, sicurezza economica, servizi e soprattutto la prospettiva di crescere nel patrimonio e nella posizione sociale, le aree interne erano penalizzate dall’assenza non solo di opportunità, ma anche delle infrastrutture considerate oggi più basilari: elettricità, telefono, strade carrozzabili, presidi sanitari.

Un’indagine che voglia svolgersi sul piano della critica culturale non può però assumere un’unica accezione di «benessere» e di «meglio» esistenziale. Allargando lo sguardo, l’epopea del «grande balzo» postbellico fu innanzitutto la massificazione di un’idea dell’individuo e della civiltà che si era fatta le ossa nei due secoli precedenti. L’orizzonte materialistico aveva imposto il metodo dettando la via della conoscenza – quella scientifica e quantitativa dell’Enciclopédie – e di lì a seguire anche la direzione del progresso sociale, il cui inquadramento nelle categorie economiche fu definitivamente fissato dalle teorie rivoluzionarie. Prima che un’opportunità, la fabbrica urbana era un obiettivo a cui tendere, il punto di arrivo o di passaggio per realizzare una società migliore secondo il trionfante criterio materiale, quello di una società equamente libera dal bisogno. Sennonché quel bisogno si ripresentava come imperativo morale: bisognava che tutti partecipassero a un benessere apparentemente offerto ma in realtà prescritto come l’occasione di concorrere con il proprio avanzamento all’avanzamento della comunità, della nazione e del mondo. Se da un lato era necessario che gli individui producessero secondo i crismi industrial-finanziari della massima efficienza, dall’altro era altrettanto vitale che consumassero con la stessa frenetica dedizione per alimentare la macchina della crescita – e quindi del progresso – senza fine.

La città era appunto il locus fisico e ideale di questo doppio imperativo, il suo laboratorio, il suo prodotto e quindi il naturale attrattore di chi aderiva al comando. Se il produttivismo permeava ogni angolo di territorio – dai latifondi ai giacimenti sottomarini, dalle sorgenti termali ai ghiacciai che colano nei bacini idroelettrici – il consumismo era invece della città. Lì si fabbricavano i desideri, la volontà e le ambizioni. Da lì si partiva alla conquista dei mercati, si lanciavano gli status symbol, la speculazione immobiliare, le nuove professioni, la fame di piaceri, di successo, di cose.

Nell’interpretare l’inurbazione di quegli anni ruggenti si commette spesso l’errore di chi oggi indica le motivazioni dell’immigrazione dalle periferie povere del mondo in una naturale spinta degli individui a migliorare le proprie condizioni di vita. Ma, innanzitutto, se si trattasse di dinamiche naturali e non culturali, esse dovrebbero riproporsi identiche in tutte le epoche. In secondo luogo, come abbiamo detto, nessuna nozione di «miglioramento» è culturalmente neutra per quanto possa vantare, come nel nostro caso, una lunga egemonia. Infine, le leggi di natura valgono nell’autarchia dell’ordine naturale mentre invece le società seguono per definizione le leggi degli uomini e quindi non vi si danno fenomeni di massa che non siano orientati, sollecitati, imposti, promossi o viceversa scoraggiati o vietati dalle strutture politiche. Non è appunto un segreto che l’adesione del nostro e di altri Paesi a un certo modello economico e sociale sia stata decisa – non proposta! – all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale. Per quanto pacifica, fu anch’essa una chiamata alle armi fatta di incentivi, disincentivi e campagne. Fu una mobilitazione le cui vittorie servirono da un lato a motivare la truppa, dall’altro a occultare le sconfitte e le vittime che non mancarono, anzi. Mentre oggi celebriamo le conquiste vere (come la maggiore indipendenza economica) e presunte (come l’istruzione di massa) di quella stagione, coloro che l’hanno vissuta non lesinavano critiche ai suoi lati oscuri: lo sradicamento, il disgregamento delle strutture sociali e famigliari, la bruttezza, la nevrosi, la volgarità, l’impossibilità di costruire, recuperare o anche solo immaginare un’alternativa.

Il cinema e la letteratura dell’epoca sono tutti intrisi di questa critica, tanto che non c’è quasi autore che non vi si sia prima o poi cimentato. Non solo Pier Paolo Pasolini, che dell’esaltazione dell’Italia negletta e rurale fece il suo manifesto, ma anche Antonioni, Lucchini, Petri, Monicelli, Risi, l’ultimo Fellini e altri, con echi anche nella commedia apparentemente più disimpegnata e nella comicità amara della saga fantozziana, fino agli esiti allucinati di un Marco Ferreri nelle cui trame vanno in scena i detriti di un collasso antropologico totale. Tra i maestri della scrittura, più che le figure isolate di Evola e Zolla, unici intellettuali programmaticamente antimoderni che ebbero fama in Italia, spiccano i narratori: l’Italo Calvino di Marcovaldo (1963), il Pagliarani de La ragazza Carla (1962), l’Alvaro cronista lirico e doloroso dell’emigrazione, la trilogia «aziendale» di Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Goffredo Parise e, forse meglio di tutti, Luciano Bianciardi, al cui genio irrequieto si deve la diagnosi più vivida della claustrofobica impotenza che attanagliava l’homo urbanus del miracolo economico. Ometto qui per brevità altri e atrettanti autori stranieri, salvo segnalare che gli stessi temi si erano già imposti nei Paesi più precocemente industrializzati del nostro e avevano ispirato, tra gli altri, anche il primo Orwell di Fiorirà l'aspidistra (1936) e Una boccata d’aria (1939).

Riaprire onestamente il dibattito su quegli anni non lontani è necessario per comprendere l’attualità. Perché da allora i moventi e la visione del mondo non sono cambiati – e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di spinte culturali che si sono strutturate e hanno guadagnato inerzia nell’arco di circa tre secoli – mentre invece sono cambiate le circostanze. Anche oggi si sogna la grande città dove si produce e si decide, solo che nelle nostre città non si produce e non si decide più nulla. L’incentivo materiale si è esaurito e in certi casi è diventato negativo: i prezzi, gli affitti e i costi dei servizi salgono, gli stipendi scendono, i posti di lavoro sono scarsi o comunque quasi solo a termine, i lavoratori non hanno più strutture politiche o parapolitiche che li rapprentino, l’imprenditoria è ai minimi storici, l’economia recede. Le nostre città sono brand di sé stesse, campano vendendo le cartoline di quando erano giovani e molto di ciò che vantano è fumo. Lo loro frenesia fa girare a vuoto gli ingranaggi del «terziario avanzato», della pubblicità e dell’immagine, oppure pompa linfa nei corpi gonfi e parassitari della finanza e della burocrazia. Nel frattempo lo scarto infrastrutturale tra periferia e centro si è ridotto grazie alle opere realizzate nel periodo espansivo, sicché anche le ragioni della comodità e dei servizi vacillano. Perché allora l’emorragia non si arresta?

La risposta mette in crisi l’impalcatura materialistica su cui si regge la nostra interpretazione delle cose sociali. Alla luce dei fatti diremmo infatti che nei centri le persone non cercano un riscatto, ma piuttosto l’idea del riscatto, la sua rappresentazione e l’immagine di un successo che può anche non arrivare o non esserci, purché lo si possa celebrare in potenza. Non un luogo reale che offre cose reali, ma un simbolo che dispensa simboli e quindi un’identità, l’occasione di fondersi con la parte più celebrata della comunità e la gratificazione di partecipare in prima fila a un progetto; ieri l’industrializzazione delle ciminiere, oggi la deindustrializzazione «green»; ieri l’economia, oggi la «new economy»; ieri la libertà della Lambretta per tutti, oggi le carceri dorate da 15 minuti. Nulla cambia.

Andando ancora più indietro si scoprirebbe che almeno a partire dalle utopie rinascimentali delle «città ideali» (ma il concetto era già in Platone e Protagora) la città dei moderni è, più che un luogo, una forma dell’anima. E che perciò non si celebra il suo primato per ragioni pratiche o per aumentare i fatturati della nazione, ma per allestirvi il palcoscenico delle proprie utopie e proiettare in quei fortini le proprie visioni, così da fingerne il successo e da lì imporle all’esterno. Il fatto che da sempre i partiti politici progressisti raccolgano più consensi nelle città parla da sé. Che la delirante cultura «woke» attecchisca solo nelle grandi metropoli è un dato talmente ovvio che neanche più ce ne chiediamo il perché.

Di nuovo c’è dunque la scoperta che il fumo vale più dell’arrosto e quindi il benessere virtualizzato più di quello vissuto, come è da attendersi in un mondo dove l’immagine prevale sulle cose a tutti i livelli. Qualche anno fa la professoressa Anna Bono pubblicò una ricerca da cui emerge che gran parte di coloro che si imbarcano clandestinamente dall’Africa per raggiungere le coste europee non sarebbero spinti dalla fame e dal pericolo, bensì dalle immagini di opulenza trasmesse dalle TV satellitari. Mentre promette di avvicinarci al mondo, l’«informazione» ne crea un altro e lo orienta cancellando le esperienze e i bisogni. Questi ultimi restano, ma solo come come segnaposto retorico per sviare l’attenzione dai moventi ideali. Si scrive ad esempio oggi che le nostre aree interne sarebbero poco vivibili perché non raggiunte dalla «banda larga». Ma, a parte il fatto che non è quasi mai vero, il punto è che quel «bisogno» è del tutto fabbricato in quanto requisito di legge per accedere ai servizi inutilmente digitali con cui si impone una certa idea di progresso. La denuncia di questo finto «disagio» ha quindi il solo scopo di nascondere una tautologia: che le periferie vanno male perché non sono città, perché non corrispondono all’idea che si allestisce in città. Una tautologia che forse è valsa fin dall’inizio.


Veniamo ora al secondo punto del tema: la denatalità. Secondo le statistiche, da quasi sette anni nel nostro Paese ci sono più defunti che nuovi nati, sicché gli anziani aumentano, la forza lavoro diminuisce e la popolazione cala. Qualcuno potrebbe essere tentato di leggere in questa tendenza una crepa del sistema, di credere cioè che se da un lato le persone aderiscono con le loro scelte ai nuovi modelli sociali e alla nuova idea di futuro, dall’altro, quando entra in gioco l’istinto, intuiscono che quel futuro è solo un ologramma su cui sarebbe folle investire.

Purtroppo invece non si tratta di un difetto, bensì di una caratteristica del sistema, oltretutto così esplicita da non richiedere grandi esegesi. La spaventosa assenza di futuro è infatti il messaggio trasversale di tutte le campagne politiche e mediatiche degli ultimi venti o trent’anni, sempre e parossisticamente incentrate su una qualche apocalittica emergenza che minaccia ora gli individui, ora le nazioni, ora la specie, ora il globo. Tutto, anche le proposte apparentemente più costruttive, si presenta sotto il vestito dialettico dell’annientamento che incombe: per mano dei terroristi alle porte, di una potenza nucleare nemica, di un crack finanziario, di un’epidemia letale, dell’esaurimento dell’acqua, del petrolio o del gas, della catastrofe ambientale, delle macchine «intelligenti» che tolgono il lavoro agli uomini o – se gli gira storta – li riducono in schiavitù. Ultimamente si è persino diffuso il vezzo di affiggere angoscianti conti alla rovescia nei luoghi pubblici: quanto manca al default sovrano, quanto alla fine dei combustibili fossili, quanto al cataclisma climatico (di qualsiasi cosa si tratti). Nel frattempo si normalizzano gli scenari di privazione come unica soluzione percorribile: l’automobile e l’acqua diventeranno un lusso, l’energia intermittente, i diritti condizionati ai comportamenti «virtuosi», alle somministrazioni farmaceutiche e agli indici di rischio delle crisi via via calendarizzate.

Ora, sarebbe davvero temerario dare credito a queste narrazioni e insieme mettere al mondo – in un mondo che si annuncia così – dei figli. Ma anche senza crederci, resterebero purtroppo veri i «rimedi» di cui abbiamo già avuto un assaggio. Anche perché questi timori si sono ormai strutturati in prescrizioni esplicite, a riprova del fatto che non si tratta di spiacevoli epifenomeni da attribuire alla scarsa resilienza dei popoli, ma di veri e propri obiettivi. Sappiamo ad esempio che alcune tra le personalità più facoltose e influenti del pianeta predicano il contenimento delle nascite come già due secoli fa il reverendo Malthus, e che gli strumenti che oggi concorrono a questo risultato sono stati anticipati più di mezzo secolo fa da qualche teorico della «pianificazione famigliare»: promozione dell’aborto e della contraccezione, atomizzazione delle famiglie, riduzione e procrastinazione dei matrimoni, incentivazione del lavoro femminile e dell’omosessualità, riduzione della proprietà immobiliare diffusa (c.d. “Jaffe Memo”, 1969). Nelle stesse fonti si parla anche di sterilizzazione forzata, per legge o tramite la diffusione surrettizia di agenti farmacologici, come si sarebbe già sperimentato in India, in Kenya e altrove coniugando un principio sterilizzante alle vaccinazioni di uso comune. Non sappiamo se abbia funzionato e se ci sia l’intenzione di esportare il progetto, ma è certo che una politica universale di inieizioni ripetute e obbligatorie fornirebbe un’ottima piattaforma logistica per farlo.

Salendo in ordine di adesione alle idee dominanti, oggi riprodursi abbondantemente è considerato demodé, irresponsabile o antisociale. Il che completa degnamente il quadro di un’epoca recessiva, complessata, terrorizzata e addestrata all’odio di sé. Di un’epoca che ha fatto della morte la soluzione ai problemi di una vita che non sa più governare. Fare figli oggi è rivoluzionario e irriverente come lo sarebbe stato non farli quando i mercati chiedevano braccia e consumatori. Come aveva immaginato Aldous Huxley quasi un secolo fa, la genitorialità è diventata più oscena della genitalità.

Seppur statisticamente irrilevanti, fanno perciò parlare di sé coloro che scelgono di formare famiglie numerose e coese, spesso sorretti da una visione religiosa che fa loro trascendere l’oscurità vera o dipinta dei tempi. Per quanto detto, non sorprende che i protagonisti di questi esperimenti scelgano spesso di lasciare le aree urbane per insediarsi nei borghi semidisabitati della nostra penisola, in aree appartate, impervie o comunque parecchio distanti dalla civiltà metropolitana. Così facendo confermano il nesso naturale tra dissidenza proletaria e dissidenza rurale, che a sua volta è la tessera di un rifiuto più ampio e puntuale del modello vincente: la pratica religiosa dove regnano l’indifferentismo e l’ateismo (quando non la blasfemia), la manualità e la comunità contro la digitalizzazione, l’autoproduzione contro la grande distribuzione, lo studio del passato contro i flatus dell’attualità massmediatica, la fedeltà e la decenza nell’era di OnlyFans.

Sono credente e praticante, amo i bambini, la solitudine, i boschi e il lavoro nell’orto, mentre in città mi sento anche fisicamente a disagio. Sicché sono di parte. Ma se mi sforzo di portare l’analisi di queste scelte radicali al di là dei loro vantaggi per il corpo e per l’anima, trovo in esse la conferma di una crisi epocale. Perché nelle civiltà ben regolate la dialettica tra periferia e centro non può porsi in senso antagonistico. Può essere sì tesa, ma non corrispondere a un meglio e a un peggio istituzionali, essendo la loro complementarietà naturale. Per la sua storia, il nostro è uno dei pochi paesi multipolari del mondo (l’unico altro esempio che conosco è la Germania) in cui è più difficile cogliere con evidenza questa non sempre facile armonia. Risalendo però alla sua prima unità nell’impero latino, si osserverebbe che al culmine della prosperità (fine I sec.) Roma raggiunse la sua massima espansione demografica. Da lì in poi il modello urbano si impose come modello politico-ideologico e fu promosso nel resto dell’impero da Traiano e dai successori (II sec.). Già però nel III sec. la capitale e altre grandi città, divenute parassatarie e autoreferenziali, incominciarono a spopolarsi a vantaggio delle campagne e ad avviarsi verso un lento ma inesorabile declino. Con molta licenza e con tutte le differenze del caso, si può rileggere in questa triade l’espansione delle metropoli industriali, l’attuale inurbazione di tipo burocratico-ideologico e la profezia di un fallimento di cui qualcuno avverte già le avvisaglie.

Nei periodi migliori le nazioni e gli imperi gestiscono l’equilibrio tra periferia e centro secondo una logica «di genere», che coniuga cioè il polo fertile e femminile della prima con quello sterile e normativo del secondo. E non solo in termini materiali. Tutti i più grandi ingegni che dettero lustro alla Roma classica provenivano dalle province: Cicerone e Giovenale ciociari, Livio patavino, Virgilio mantovano, Orazio lucano, Ovidio abruzzese, Catullo veronese, Properzio umbro, Lucrezio (forse) partenopeo, Tacito provenzale, Seneca e Marziale iberici, Persio etrusco, eccetera. Lo stesso Cristianesimo approdò nell’Urbe dagli aridi lembi di una provincia orientale. Il centro accoglie i semi esterni delle forze produttive e li coltiva strutturandoli in un patrimonio riconoscibile e riconosciuto. Così è avvenuto anche nella storia delle arti e del pensiero, le cui «svolte» provengono dai territori vergini dell’esterno e trovano voce e forma nel centro.

Per quanto io ne sia tifoso, ritengo dunque che dagli eremi del dissenso non possa nascere o rinascere una civiltà, siccome nulla può nascere da un ovulo senza spermatozoo (o viceversa). Vi si può riassaporare l’essenziale, l’antico e il vitale e darne testimonianza agli altri, ma senza struttura e senza un codice condiviso quella vitalità è destinata al solipsismo e agli eccessi di un istinto gabellato per norma, sterile tanto quanto il formalismo necrofilo degli slogan e dei simboli della città. Mai come oggi è cruciale mantenersi in equilibrio, non rispondere al monismo con il monismo e per quanto è possibile, resistere al mondo incidendo nel mondo.


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Commenti

Assaltoniglio

Uno degli articoli più belli del blog.

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Gian

Tra i “ciociari” ricordiamo anche Caio Mario ( a Casamari), e Marco Vipsanio Agrippa ( quello del Phanteon )

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Elsa

Da donna che ha scelto di non sposarsi e non avere figli e ricollegandomi al commento della Sig.ra di 32 anni appena sposata che dice "essere donna libera ed emancipata fa figo" con evidente ironia e intento critico, dico che fare figli non è affatto obbligatorio e nessuno, nemmeno il Pedante ha tenuto conto delle storie e dei percorsi individuali che portano a scelte diverse.
Fare figli sembra essere un dovere sociale.
Forse lo è per i credenti religiosi, o per chi teme che se non fa la sua parte contribuirà a far estinguere l'umanità dal pianeta.
Non avendo nessuna delle due citate caratteristiche, ho scelto di pensare a me stessa e a conoscermi, più che fare qualcosa che non è un esperimento e nemmeno una prova.
Mettere al mondo figli è una responsabilità gravosa che riguarda lo sviluppo psicologico e spirituale di un altro essere umano, qualcosa che non andrebbe mai preso sotto gamba o liquidato con la classica battuta "ma andrà tutto bene, da mezzo milione di anni l'essere umano si riproduce, mica sarai diversa tu" o una scollata di spalle.
A me di avere figli a cui comprare il telefonino o lo zaino firmato perché i suoi compagni di scuola ce l'hanno tutti non è mai interessato.
Combatto l'omologazione da una vita, figuriamoci se volevo mettere al mondo un figlio da far diventare parte di un gruppo di persone che poi vanno a fare la fila tutti insieme per vaccinarsi, altrimenti niente calcetto o aperitivo.
Questo Occidente è totalmente spacciato a livello di valori -ebbene sì, li ho anch'io da persona non religiosa- e fare figli con l'illusione che cambieranno il mondo con la loro elevata consapevolezza e buona educazione familiare è semplicemente ridicolo.
I figli si fanno se è quando si è sicuri di avere dentro di sé i mezzi interiori necessari per crescerli al meglio, e non, di nuovo con frasette tipo "ma a me i miei genitori non hanno mai fatto carezze o detto che mi volevano bene e sono cresciuto bene lo stesso".
No, non sei cresciuto bene per niente. E si vede.
Infatti in giro è pieno di uomini immaturi, infantili, impauriti e totalmente inidonei a diventare padri, e io ad un figlio non avrei mai inflitto un padre così. E non mi interessa proprio che si sia sempre fatto così. Bene, io ho fatto diversamente e ne sono felice.
Se l'umanità è a un livello indegno da secoli e la società è quello che è lo dobbiamo proprio a questo spingere la gente a procreare anziché occuparsi prima di migliorare la società e l'individuo.
Psicopatici, narcisisti, drogati, alcolizzati, criminali genitori, che meraviglia!
Questo pianeta ha già abbastanza schiavi che non sanno nemmeno cosa sia il cervello, ora di smettere.

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↪ Il Pedante

Gentile lettrice, La ringrazio della Sua testimonianza. Francamente non penso - e quindi neanche scrivo - che fare figli sia un dovere. Dio ha un progetto per tutti e chi pretende che uno solo sia valido mi sembra faccia torto alla Sua sapienza. Per quanto mi riguarda, non mi sono riprodotto per cambiare o salvare il mondo e neanche per salvare me stesso, ma per il desiderio di sperimentare un amore che è figura - problematica, distorta, debole fin che si vuole - della creazione divina. Nessuno può dire che non lo si possa sperimentare altrimenti.

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Arturo Bandini

In riferimento all'ultimo periodo del post: non so se ci sarà data possibilità di scelta. Come predetto da Huxley (le cui profezie sono già, purtroppo, ampiamente avvalorate dai fatti presenti), chi non si trovi nella possibilità, o nello stato di volontà, d'assecondare le istanze messe in scena sul palcoscenico della città ne verrà, semplicemente, escluso. Se, come Lei porta in evidenza, il meccanismo attrazione-repulsione tra città e campagna era agito da una membrana, in fondo sempre peremabile nei due sensi, ora sembra che nuovi muri invalicabili verranno posti ai confini della città, almeno di quel nucleo che ha già acquistato lo statuto di sacro (provare a girare per il centro storico di Milano tramite Street view per notare che non compaiono persone non bianche e dove la discriminante non è il colore della pelle ma lo status sociale, unica vera stigmata di sacralità). Se i miei docenti all'Università si occupavano in gran parte del problema delle periferie ora, in quegli stessi atenei, i miei ex colleghi predispongono gli strumenti teorici e strumentali perchè di quella periferia, almeno all'interno del nuovo recinto magico, se ne perda anche il ricordo.

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apota

Secondo me questo video dovrebbero guardarlo tutti, per cui ve lo posto (spiega dove stiamo andando, o perlomeno dove ci vogliono portare...)
link
Alex Jones & Aaron Russo: La Tirannia del Nuovo Ordine Mondiale !
Divulgate, condividete, informatevi, constatate... ma sopratutto SVEGLIATEVI e REAGITE ! NON FIDATEVI DEI GOVERNI, NON FIDATEVI DELLE ISTITUZIONI, LASCIATE ed ELIMINATE LE BANCHE PRIVATE !

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Katniss

Lo scontro Centro/periferia fa ormai parte dell'immaginario collettivo, se compare anche nel cinema di fantascienza, con il Centro identificato con un Potere malvagio, e le periferie come rifugio per i giovani ribelli. Ad es. nella trilogia di Hunger Games, alla ricca, ma dispotica e corrotta, Capital City si contrappongono i 13 distretti periferici.

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Chinacat

Gentile Pedante, per quanto ci siano alcuni spunti di riflessione molto utili, trovo, purtroppo, che ci siano alcune semplificazioni che orientano la narrazione in maniera più soggettiva che oggettiva. Non allargo il discorso ad altre nazioni, sebbene sarebbe molto utile confrontare l'esperienza italiana con quella di altre realtà di cui cito un solo esempio ("Da anni i paesi dei Balcani sono colpiti da un costante declino demografico e non è solo una questione di poche nascite: il fattore emigrazione sta assumendo ormai dimensioni allarmanti." - Fonte: link)
Restando a casa nostra, ecco alcune, spero, utili precisazioni.
" ha visto il suo massimo picco di accelerazione negli anni Sessanta del secolo scorso, quando il boom economico ha reclamato manodopera"
E' estremamente riduttivo considerare quello che avviene in Italia dal 1946 in poi e che vedrà il suo picco negli anni '60 come un puro e semplice "boom economico". E' strano che debba sottolinearlo proprio io che considero l'economia come la principale chiave di lettura di ogni sistema sociale dai tempi dell'Economico di Aristotele ma il concetto di economia va molto oltre l'economia stessa.
Il problema, a mio avviso, è che per capire cosa succede in quegli anni in Italia bisogna per forza sapere cosa c'era prima, altrimenti la semplificazione distorce la narrativa. Ovvero:
"le aree interne erano penalizzate dall’assenza non solo di opportunità, ma anche delle infrastrutture considerate oggi più basilari: elettricità, telefono, strade carrozzabili, presidi sanitari."
Magari fosse solo questo. L'Italia prima del 1946 è qualcosa che risulta difficile da descrivere; non che manchi il materiale per informarsi ma di sicuro va fatto, se si vuole osservare un fenomeno storico nella sua dinamicità. Quell'Italia e soprattutto l'Italia lontana dalle grandi città è qualcosa che va oltre l'immaginazione. Qualcuno ha citato la Romagna ovvero una zona dove l'analfabetismo è la regola e dove si muore di pellagra, di tubercolosi di vaiolo o di tifo; dove il rachitismo è una delle malattie più diffuse e non solo tra le donne, la "categoria" più colpita per via delle risaie, dove iniziano a lavorare a 7/8 anni e con una cronica carenza di vitamina D; dove la mortalità infantile è altissima per via delle condizioni igenico-sanitarie; dove i braccianti mangiano la carne, se tutto va bene, una volta al mese. Questa è la Romagna del 1935. E lo stesso discorso vale per tutte le regioni italiane.
Se poi ci spostiamo nel Sud dell'Italia, le cose sono anche peggiori; preferisco non descriverle perché ne verrebbe fuori un lungo elenco truculento su condizioni di vita assolutamente spaventose. Tutto ampiamente documentato ma anche ampiamente dimenticato. Questa è la vita al di fuori delle città prima del 1946. Come ho detto, magari il problema fosse quello della mancanza del telefono.
Considerare quello che avviene dopo il 1946 come un semplice "boom economico" significa ignorare la vera e propria Rivoluzione sociale che avviene in quegli anni ed anche, purtroppo, quale fosse la realtà in cui vivevano milioni persone. Una sola citazione:
"Secoli di privazioni facevano sì che i contadini del luogo (nota: siamo in provincia di Crotone) fossero di 10 cm più bassi rispetto alla media regionale, a sua volta ben al di sotto della media nazionale" (R.J. Bosworth, l'Italia di Mussolini, pag, 175).
La mitologia dell'Italia rurale e negletta di Pasolini è appunto, mitologia e dubito seriamente che Pasolini abbia mai fatto la vita del bracciante o abbia mai visto le condizioni di una ragazza di vent'anni, devastata da anni di lavoro e malaria e malnutrizione. Questa era l'Italia.
Detto questo, c'è un problema. Se si vuole migliorare le condizioni di vita, e non ci sono molte alternative, bisogna per forza mettere in moto quella disprezzata "macchina della crescita": ospedali e scuole non crescono da soli, così come tutte le altre infrastrutture. Il boom economico non è stato soltanto la fabbrica ma tutto l'insieme che ha consentito il passaggio per milioni di italiani da condizioni di vita pari a quelle del cosiddetto Terzo Mondo a condizioni di vita molto migliori sia da un punto di vista fisico che mentale.
Intendiamoci non voglio fare l'apologia del Capitalismo e nemmeno negare che ci sono stati fatti degli errori e che tutto questo non abbia avuto anche dei lati oscuri ma ho idea che sia fin troppo facile proiettare su un passato, che spesso si ignora, le critiche del presente.
Inoltre: "Non è appunto un segreto che l’adesione del nostro e di altri Paesi a un certo modello economico e sociale sia stata decisa – non proposta! – all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale."
Quale modello economico e sociale? Non è affatto una domanda oziosa perché è qui che si nasconde il nocciolo del problema: il modello economico e sociale è cambiato ed è ovvio che per capire come, quando e perché sia cambiato occorre conoscere bene il modello precedente. Altrimenti si corre il rischio di trovarsi di fronte a delle incongruenze. Come questa:
"Secondo le statistiche, da quasi sette anni nel nostro Paese ci sono più defunti che nuovi nati"
Questo fenomeno è legato all'urbanesimo a cui si fa riferimento? Gli unici che lo credevano erano i fascisti e come al solito, si sbagliavano. Gli anni cui la popolazione cresce velocemente (basta guardare i dati dei censimenti) sono gli anni in cui avviene lo spostamento di massa nelle città. ovvero 1951, 1961 e 1971.
E se la denatalità fosse legata semplicemente al modello socio-economico avrebbe iniziato a declinare molto prima, visto che il modello socio-economico risale a molto ma molto prima del 2016. Ancora una volta: il modello sociale ed economico è cambiato. Gli italiani, questo almeno ci dicono le statistiche, hanno continuato a fare figli, potremmo dire, nonostante il modello socio-economico e paradossalmente ne facevano di meno quando il modello sociale ed economico era non solo completamente diverso ma imponeva di fare figli: la battaglia demografica fu uno dei capisaldi del regime Fascista, con tanto di premiazione e la famosa "tassa sul celibato".
Morale (a mio parere): è cambiato il modello sociale ed economico e la denatalità è semplicemente una delle conseguenze di questo cambiamento. La cosa diventa chiara quando prima, però, si definisce cosa sia un modello sociale ed economico e quali caratteristiche abbia, perché tra il 1970 ed il 2010 ci sono delle differenze abissali. Quanto alla Storia, e soprattutto alla storia dell'Italia, la mia opinione è sempre la stessa: "The past is a foreign country; they do things differently there" (L.P. Hartley, 1953).
Chinacat
PS
"Già però nel III sec. la capitale e altre grandi città, divenute parassatarie e autoreferenziali, incominciarono a spopolarsi a vantaggio delle campagne e ad avviarsi verso un lento ma inesorabile declino."
Ancora una volta, il rischio è piegare la Storia per sostenere una tesi. La famosa "crisi del III secolo", più che con la parassitaria natura delle città, ha molto a che fare con il fatto che le città sono il bersaglio principale delle altrettanto famose "invasioni barbariche" e vengono regolarmente saccheggiate, con relativo massacro della popolazione. Le Mura Aureliane di Roma risalgono, giusto per fare un esempio, al 270/275. L'unico modo per evitare di essere saccheggiate e distrutte, era, per le città, quello di dotarsi di una grande cinta muraria che però, ovviamente, riduceva drasticamente le dimensioni della città stessa. Se nemmeno Roma era al sicuro, figurarsi le altre città.

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↪ Il Pedante

Gentile Chinacat, trovo nella Sua risposta molti utili spunti che aiutano a perfezionare e anche correggere ciò che ho scritto. Forse però su alcuni passaggi non sono stato chiaro. Il modello cambia continuamente, ma all'interno di una cornice capitalistica fatta di distruzioni e ricostruzioni. L'urbanesimo è un fenomeno "passante" che va interpretato secondo il momento del ciclo.
Per il resto La rassicuro: vivo e leggo la storia post-adamitica come una lacrimarum vallis, sicché non idealizzo alcunché.

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↪ davide911

Gentili @Chinacat e @Pedante,
mi permetto di suggerire - ad integrazione delle vs. ottime analisi - che il cambio di modello "culturale" (prima ancora del cambio di modello "socio-economico") ha inciso forse ancora più potentemente sul calo demografico (secondo me).
link

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↪ Chinacat

Gentile @davide911, quello che tu chiami giustamente "modello culturale" è già implicito nel modello socio-economico, dato che un modello socio-economico sviluppa la sua propria cultura. Il primo esempio che mi viene in mente è la mia amata Atene Classica: Pericle e la cultura democratica sono l'espressione di un modello socio-economico e sono inscindibili tra di loro. Lo stesso fenomeno lo si riscontra in tutte le forme di società, quale che sia l'epoca o la posizione geografica.
Il serio problema che si sta palesando è la totale egemonia culturale che l'ideologia capitalistica sta instaurando (precisazione: il Capitalismo non è semplicemente un modello economico ma un vera e propria ideologia e con un suo corpus ideologico ben definito). E dato che l'ideologia "democratica" è del tutto incompatibile con quella "capitalistica", la seconda sta demolendo la prima e uno dei mezzi più importanti che usa è quello del sopracitato modello culturale. In tempi diversi, qualcuno lo aveva già capito:
"“La conquista dell'egemonia culturale è precedente a quella del potere politico e questa avviene attraverso l'azione concertata di intellettuali organici infiltrati in tutti i mezzi di comunicazione, di espressione e nelle università" (Gramsci)
L'unica nota stonata di questa citazione è che, quantomeno a mio avviso, non è precedente ma parallela; per il resto, quadra alla perfezione.
Quanto al calo demografico, ho letto l'articolo che mi hai dato ma ho qualche problema con la metodologia usata in quanto, a differenza dell'autore dell'articolo, baso molte delle mie analisi sui precedenti storici, ovviamente cum grano salis.
La risposta, in questo caso, non è affatto chiara, poiché esistono numerosi casi che vanno in direzioni completamente diverse e sembra non esistere un punto di riferimento che permetta di affermare che la causa sia il "femminismo" (come fa l'autore dell'articolo). Ci sono nazioni dove il "femminismo" è ben poca cosa e che sono alle prese con un serio problema di natalità; Giappone in primis.
Se bastasse il modello culturale per innescare la crescita demografica, come ci spieghiamo il fallimento avvenuto durante il Fascismo? Visto il grado di controllo culturale sulla società italiana, le nascite avrebbero dovuto esplodere e invece sono andate in direzione opposta. E di "femminismo", nel Ventennio, non c'era traccia, anzi. Una questione legata al totalitarismo? Pare di no, visto che invece in Germania ha funzionato.
Ha più senso l'impatto l'economico (ci sono degli ottimi studi, ad esempio, sulla correlazione tra tasso di disoccupazione e natalità) ma anche in questo caso ci sono delle eccezioni: una crisi economica non genera, ipso facto, un crollo della natalità. Sicuramente lo influenza ma per capirci qualcosa bisogna ovviamente tenere presente due cose: primo, l'impatto di una crisi economica varia a seconda della struttura sociale, economica e politica su cui si abbatte; secondo, se escludiamo gli USA, il Capitalismo non è mai stata l'ideologia dominante e totale; in qualche modo è sempre stato mediato da altri fattori, solitamente specifici della nazione in cui si è sviluppato; addirittura, a volte, ha dovuto fare marcia indietro. Adesso, invece, regna incontrastato.
A questo punto la domanda diventa: l'ideologia capitalistica, una volta che diventa egemonia se non un vero e proprio regime totalitario, ha un impatto sulla demografia? A mio avviso assolutamente SI. Quindi andrà sempre peggio (e lo dico da ottimista).
PS
La nazione dove il collegamento crisi economica / demografia appare come una costante sono gli USA. Nel 1929, con la Grande Depressione succede che "The U.S. birth rate reached an all-time low in 1936 when the TFR fell to 2.1 children per woman in the wake of the stock market crash of 1929."
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Antonio

Splendido articolo.

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RR

Caro Pedante, il pezzo mi ricorda qualche ottimo articolo scritto sull'Unità da Jenner Meletti quando, inviato a fare interviste nell'entroterra romagnolo, ne descrive lo spopolamento postbellico e il successivo, inquietante ripopolamento da parte di una banda di pastori sardi. Storie interessanti di abbandono territoriale, di chiese andate in malora, di dialetti locali non più parlati, di un boom economico privo di anima e pieno di spiagge, droga e discoteche...

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↪ Il Pedante

Davvero i suoi lo hanno chiamato Jenner?

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↪ RR

Gentile @Il Pedante, proprio.
Eheh...
Comunque un ottimo giornalista-scrittore di sinistra.
La storia che racconta, "il lato B della riviera romagnola", spiega molto bene cosa è successo dopo che l'Unità d'Italia e lo sviluppo economico e industriale hanno indotto vaste masse a spostarsi dal nord al sud. Un fenomeno rappresentato come 'progresso' e 'necessario sviluppo' ha ingenerato disagio, disumanizzazione, criminalità organizzata...
I libri di storia raccontano sempre e solo il lato A.

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Elisa

Grazie per la chiarezza dell' esposizione, l' obiettività della narrazione, la verità raccontata senza fronzoli e sotterfugi. Sono d'accordissimo su tutto; l' analisi dei fatti e la conseguenza dei risultati riportati, mi hanno dato un briciolo di speranza, forse un giorno l"umanità ricomincerà a vivere..

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G.

Grazie per questo articolo.
Da donna trentaduenne sposatasi una settimana fa, vorrei rispondere con alcune considerazioni che non vogliono essere una critica (anzi), ma aggiungere, se vogliamo, una prospettiva femminile a un'analisi sicuramente precisa e cogente, che tralascia però alcuni aspetti "antropologici" propri della mia sfera biologica e sessuale (visto che i sessi sono due, esistono, e sono diversi - e già qui si fa la rivoluzione!). Insomma, non se ne abbia a male, ma che questo articolo è scritto da un uomo si vede.
Da qualche anno accarezzo l'idea di avere un figlio e sì, se ad oggi ancora non ne ho sicuramente una motivazione va ricercata anche nel senso di precarietà "esistenziale" che atterrisce larga parte della nostra società occidentale. Ho vissuto per due anni in una grande città con il mio ragazzo, oggi marito, e se ne siamo fuggiti è proprio perché abbiamo intuito che la metropoli non si conciliava con il tipo di vita e di futuro che sognavamo. Adesso viviamo in una città di provincia molto più piccola, molto più a misura d'uomo, con ritmi lavorativi assolutamente tollerabili, in affitto. Stiamo cercando casa e le recenti mosse della signora Lagarde (che pure ha 7 figli...) non aiutano, ma insomma una soluzione la troveremo.
Quello che secondo me manca di dire nel suo articolo, perché forse solo una donna può dirlo, è che per le donne avere figli non è solo un potenziale rischio o problema. Se è vero che "riprodursi abbondantemente è considerato demodé, irresponsabile o antisociale", riprodursi in sé è diventato indesiderabile o, nel migliore dei casi, superfluo. L'istinto materno è stato sedato non solo dalla retorica dell'emergenza perenne, ma da un'operazione di propaganda che da decenni insegna alle donne che l'emancipazione femminile passa anche e soprattutto dalla negazione della genitorialità. Essere una donna libera, emancipata, economicamente indipendente, in carriera, è bello e fa figo. Di conseguenza i figli diventano un fardello, un limite. Questo non vale, ovviamente, per tutte le donne; sta di fatto, però, che sono circondata da coppie che non hanno la minima intenzione di avere figli, e dove sospetto che l'agente decisivo tra i due sia lei.
A questo possiamo collegare il fenomeno dell'evaporazione del padre descritto da Lacan, dove la figura maschile è stata privata delle sue prerogative genitoriali in nome della rinnegazione della mascolinità tout court. Non a caso, il fenomeno delle coppie senza figli fa il paio con quello di molte donne che cercano un uomo e non lo trovano, in un conflitto tutto inconscio dove ci si aspetta che l'uomo non sia uomo, e però lo si cerca (pochi giorni fa, in radio, dicevano che 1 italiano su 3 è single. Anche su questo dovremmo riflettere).
Con stima, G.

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↪ Il Pedante

La ringrazio di questa testimonianza. Ciò che scrive è sicuramente vero, ciò nondimeno mi interrogo sulla possibilità che anche questi messaggi non siano a loro volta una delle tante declinazioni mitografiche (il mito della donna emancipata dalla condanna di Eva ecc.) di una direzione antropologica più ampia, quella cioè di azzerare un modello di sviluppo mortifero con lo scopo non certo di introdurne uno più sostenibile (altro mascheramento mitografico) e umano, ma viceversa di farlo ripartire sulle sue rovine. Depopolamento, sterilità, svirilizzazione, femminismo: tutti sostituti di ciò che sono state nel secolo scorso le grandi guerre?

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↪ ws

Gentile @G. ,
"(che pure ha 7 figli...)"
Quella è la Van der leyen. La lagarde ne ha "solo" due..
E il mio commento qui è che queste "oche apicali " forse non sono intelligenti ( cosa che non serve ai loro "superiori") ma sono sicuramente furbe. Loro, "maternità" e "carriera" le hanno "conciliate" alla stragrande.

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Giocontra

Tra i registi, meritava una menzione il Pietro Germi di Serafino e del Ferroviere, due autentici e struggenti capolavori (il primo in particolare assai "sul pezzo" e che non riesco a non riguardare ogni qual volta la tv lo riproponga).
Per il resto, come non concordare con questa riflessione, che pur meriterebbe tanti approfondimenti?
Grazie.
Giorgio Contratti

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↪ Il Pedante

La ringrazio della necessaria integrazione.

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Mario M

Riguardo all'immagine, fuori dall'Italia, dell'inurbamento e della tecnologia come l'acqua in cui naviga la nuova società, suggerisco i film del regista Godfrey Reggio e del compositore Philip Glass: Koyaaniqatsi, Powaqqatsi, Naqoyqatsi e Visitors. Il regista si è ispirato alla critica della modernità di Ivan Illich, Jaques Ellul e forse Lewis Mumford.
Una sequenza che amplifica il parossismo della vita nelle metropoli lo troviamo in una sequenza dal primo film, The Grid.
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↪ Il Pedante

Confesso di non conoscere queste opere, mi appresto alla visione.

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Caio

Articolo molto interessante , manca però a mio avviso la differenziazione riguardo alla natalità che fa del nostro paese il più arretrato d'europa. In buona sostanza perchè è così alta la forbice tra noi e la Francia ?

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↪ Stefano Longagnani

Gentile @Caio,
in Francia i francesi quasi non ci sono più.

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↪ RR

Gentile @Caio, ma quanto sono francesi i nuovi nati in Francia?
E' una domanda autentica.

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