L'intervento che segue è stato preparato per l'Arcadia Festival 2023, tenutosi il 24 giugno a Sant'Anatolia di Narco (PG).
Rivolgo un saluto a tutti i partecipanti e ringrazio Yuri e gli organizzatori di avermi coinvolto in questo stimolante dibattito.
Mi è stata proposta una riflessione sui modi in cui il modello culturale oggi prevalente si relazioni con la denatalità e lo spopolamento dei borghi, due fenomeni che interessano il nostro Paese, e non solo. Partirò dal secondo.
L’abbandono di quelle che i tecnici chiamano «aree interne» è una tendenza che data già dalla seconda rivoluzione industriale di fine Ottocento e ha visto il suo massimo picco di accelerazione negli anni Sessanta del secolo scorso, quando il boom economico ha reclamato manodopera per gli opifici urbani offrendo in cambio i comfort della vita moderna. In quell’epoca le aree interne si sono massicciamente svuotate e le città sono esplose trasformandosi in quel museo di orrida architettura cementizia che costituisce oggi la più parte del (chiamiamolo così) patrimonio edilizio nazionale.
Non è ozioso chiedersi quanto le dinamiche odierne di spopolamento dei centri rurali scaturiscano dalle stesse premesse di allora, e in che modo queste si siano eventualmente evolute. Se ieri come oggi (e come sempre) le persone cercavano una vita «migliore», va riconosciuto che in quell’epoca la promessa era almeno materialmente solida. Mentre i centri urbani offrivano lavoro, sicurezza economica, servizi e soprattutto la prospettiva di crescere nel patrimonio e nella posizione sociale, le aree interne erano penalizzate dall’assenza non solo di opportunità, ma anche delle infrastrutture considerate oggi più basilari: elettricità, telefono, strade carrozzabili, presidi sanitari.
Un’indagine che voglia svolgersi sul piano della critica culturale non può però assumere un’unica accezione di «benessere» e di «meglio» esistenziale. Allargando lo sguardo, l’epopea del «grande balzo» postbellico fu innanzitutto la massificazione di un’idea dell’individuo e della civiltà che si era fatta le ossa nei due secoli precedenti. L’orizzonte materialistico aveva imposto il metodo dettando la via della conoscenza – quella scientifica e quantitativa dell’Enciclopédie – e di lì a seguire anche la direzione del progresso sociale, il cui inquadramento nelle categorie economiche fu definitivamente fissato dalle teorie rivoluzionarie. Prima che un’opportunità, la fabbrica urbana era un obiettivo a cui tendere, il punto di arrivo o di passaggio per realizzare una società migliore secondo il trionfante criterio materiale, quello di una società equamente libera dal bisogno. Sennonché quel bisogno si ripresentava come imperativo morale: bisognava che tutti partecipassero a un benessere apparentemente offerto ma in realtà prescritto come l’occasione di concorrere con il proprio avanzamento all’avanzamento della comunità, della nazione e del mondo. Se da un lato era necessario che gli individui producessero secondo i crismi industrial-finanziari della massima efficienza, dall’altro era altrettanto vitale che consumassero con la stessa frenetica dedizione per alimentare la macchina della crescita – e quindi del progresso – senza fine.
La città era appunto il locus fisico e ideale di questo doppio imperativo, il suo laboratorio, il suo prodotto e quindi il naturale attrattore di chi aderiva al comando. Se il produttivismo permeava ogni angolo di territorio – dai latifondi ai giacimenti sottomarini, dalle sorgenti termali ai ghiacciai che colano nei bacini idroelettrici – il consumismo era invece della città. Lì si fabbricavano i desideri, la volontà e le ambizioni. Da lì si partiva alla conquista dei mercati, si lanciavano gli status symbol, la speculazione immobiliare, le nuove professioni, la fame di piaceri, di successo, di cose.
Nell’interpretare l’inurbazione di quegli anni ruggenti si commette spesso l’errore di chi oggi indica le motivazioni dell’immigrazione dalle periferie povere del mondo in una naturale spinta degli individui a migliorare le proprie condizioni di vita. Ma, innanzitutto, se si trattasse di dinamiche naturali e non culturali, esse dovrebbero riproporsi identiche in tutte le epoche. In secondo luogo, come abbiamo detto, nessuna nozione di «miglioramento» è culturalmente neutra per quanto possa vantare, come nel nostro caso, una lunga egemonia. Infine, le leggi di natura valgono nell’autarchia dell’ordine naturale mentre invece le società seguono per definizione le leggi degli uomini e quindi non vi si danno fenomeni di massa che non siano orientati, sollecitati, imposti, promossi o viceversa scoraggiati o vietati dalle strutture politiche. Non è appunto un segreto che l’adesione del nostro e di altri Paesi a un certo modello economico e sociale sia stata decisa – non proposta! – all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale. Per quanto pacifica, fu anch’essa una chiamata alle armi fatta di incentivi, disincentivi e campagne. Fu una mobilitazione le cui vittorie servirono da un lato a motivare la truppa, dall’altro a occultare le sconfitte e le vittime che non mancarono, anzi. Mentre oggi celebriamo le conquiste vere (come la maggiore indipendenza economica) e presunte (come l’istruzione di massa) di quella stagione, coloro che l’hanno vissuta non lesinavano critiche ai suoi lati oscuri: lo sradicamento, il disgregamento delle strutture sociali e famigliari, la bruttezza, la nevrosi, la volgarità, l’impossibilità di costruire, recuperare o anche solo immaginare un’alternativa.
Il cinema e la letteratura dell’epoca sono tutti intrisi di questa critica, tanto che non c’è quasi autore che non vi si sia prima o poi cimentato. Non solo Pier Paolo Pasolini, che dell’esaltazione dell’Italia negletta e rurale fece il suo manifesto, ma anche Antonioni, Lucchini, Petri, Monicelli, Risi, l’ultimo Fellini e altri, con echi anche nella commedia apparentemente più disimpegnata e nella comicità amara della saga fantozziana, fino agli esiti allucinati di un Marco Ferreri nelle cui trame vanno in scena i detriti di un collasso antropologico totale. Tra i maestri della scrittura, più che le figure isolate di Evola e Zolla, unici intellettuali programmaticamente antimoderni che ebbero fama in Italia, spiccano i narratori: l’Italo Calvino di Marcovaldo (1963), il Pagliarani de La ragazza Carla (1962), l’Alvaro cronista lirico e doloroso dell’emigrazione, la trilogia «aziendale» di Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Goffredo Parise e, forse meglio di tutti, Luciano Bianciardi, al cui genio irrequieto si deve la diagnosi più vivida della claustrofobica impotenza che attanagliava l’homo urbanus del miracolo economico. Ometto qui per brevità altri e atrettanti autori stranieri, salvo segnalare che gli stessi temi si erano già imposti nei Paesi più precocemente industrializzati del nostro e avevano ispirato, tra gli altri, anche il primo Orwell di Fiorirà l'aspidistra (1936) e Una boccata d’aria (1939).
Riaprire onestamente il dibattito su quegli anni non lontani è necessario per comprendere l’attualità. Perché da allora i moventi e la visione del mondo non sono cambiati – e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di spinte culturali che si sono strutturate e hanno guadagnato inerzia nell’arco di circa tre secoli – mentre invece sono cambiate le circostanze. Anche oggi si sogna la grande città dove si produce e si decide, solo che nelle nostre città non si produce e non si decide più nulla. L’incentivo materiale si è esaurito e in certi casi è diventato negativo: i prezzi, gli affitti e i costi dei servizi salgono, gli stipendi scendono, i posti di lavoro sono scarsi o comunque quasi solo a termine, i lavoratori non hanno più strutture politiche o parapolitiche che li rapprentino, l’imprenditoria è ai minimi storici, l’economia recede. Le nostre città sono brand di sé stesse, campano vendendo le cartoline di quando erano giovani e molto di ciò che vantano è fumo. Lo loro frenesia fa girare a vuoto gli ingranaggi del «terziario avanzato», della pubblicità e dell’immagine, oppure pompa linfa nei corpi gonfi e parassitari della finanza e della burocrazia. Nel frattempo lo scarto infrastrutturale tra periferia e centro si è ridotto grazie alle opere realizzate nel periodo espansivo, sicché anche le ragioni della comodità e dei servizi vacillano. Perché allora l’emorragia non si arresta?
La risposta mette in crisi l’impalcatura materialistica su cui si regge la nostra interpretazione delle cose sociali. Alla luce dei fatti diremmo infatti che nei centri le persone non cercano un riscatto, ma piuttosto l’idea del riscatto, la sua rappresentazione e l’immagine di un successo che può anche non arrivare o non esserci, purché lo si possa celebrare in potenza. Non un luogo reale che offre cose reali, ma un simbolo che dispensa simboli e quindi un’identità, l’occasione di fondersi con la parte più celebrata della comunità e la gratificazione di partecipare in prima fila a un progetto; ieri l’industrializzazione delle ciminiere, oggi la deindustrializzazione «green»; ieri l’economia, oggi la «new economy»; ieri la libertà della Lambretta per tutti, oggi le carceri dorate da 15 minuti. Nulla cambia.
Andando ancora più indietro si scoprirebbe che almeno a partire dalle utopie rinascimentali delle «città ideali» (ma il concetto era già in Platone e Protagora) la città dei moderni è, più che un luogo, una forma dell’anima. E che perciò non si celebra il suo primato per ragioni pratiche o per aumentare i fatturati della nazione, ma per allestirvi il palcoscenico delle proprie utopie e proiettare in quei fortini le proprie visioni, così da fingerne il successo e da lì imporle all’esterno. Il fatto che da sempre i partiti politici progressisti raccolgano più consensi nelle città parla da sé. Che la delirante cultura «woke» attecchisca solo nelle grandi metropoli è un dato talmente ovvio che neanche più ce ne chiediamo il perché.
Di nuovo c’è dunque la scoperta che il fumo vale più dell’arrosto e quindi il benessere virtualizzato più di quello vissuto, come è da attendersi in un mondo dove l’immagine prevale sulle cose a tutti i livelli. Qualche anno fa la professoressa Anna Bono pubblicò una ricerca da cui emerge che gran parte di coloro che si imbarcano clandestinamente dall’Africa per raggiungere le coste europee non sarebbero spinti dalla fame e dal pericolo, bensì dalle immagini di opulenza trasmesse dalle TV satellitari. Mentre promette di avvicinarci al mondo, l’«informazione» ne crea un altro e lo orienta cancellando le esperienze e i bisogni. Questi ultimi restano, ma solo come come segnaposto retorico per sviare l’attenzione dai moventi ideali. Si scrive ad esempio oggi che le nostre aree interne sarebbero poco vivibili perché non raggiunte dalla «banda larga». Ma, a parte il fatto che non è quasi mai vero, il punto è che quel «bisogno» è del tutto fabbricato in quanto requisito di legge per accedere ai servizi inutilmente digitali con cui si impone una certa idea di progresso. La denuncia di questo finto «disagio» ha quindi il solo scopo di nascondere una tautologia: che le periferie vanno male perché non sono città, perché non corrispondono all’idea che si allestisce in città. Una tautologia che forse è valsa fin dall’inizio.
Veniamo ora al secondo punto del tema: la denatalità. Secondo le statistiche, da quasi sette anni nel nostro Paese ci sono più defunti che nuovi nati, sicché gli anziani aumentano, la forza lavoro diminuisce e la popolazione cala. Qualcuno potrebbe essere tentato di leggere in questa tendenza una crepa del sistema, di credere cioè che se da un lato le persone aderiscono con le loro scelte ai nuovi modelli sociali e alla nuova idea di futuro, dall’altro, quando entra in gioco l’istinto, intuiscono che quel futuro è solo un ologramma su cui sarebbe folle investire.
Purtroppo invece non si tratta di un difetto, bensì di una caratteristica del sistema, oltretutto così esplicita da non richiedere grandi esegesi. La spaventosa assenza di futuro è infatti il messaggio trasversale di tutte le campagne politiche e mediatiche degli ultimi venti o trent’anni, sempre e parossisticamente incentrate su una qualche apocalittica emergenza che minaccia ora gli individui, ora le nazioni, ora la specie, ora il globo. Tutto, anche le proposte apparentemente più costruttive, si presenta sotto il vestito dialettico dell’annientamento che incombe: per mano dei terroristi alle porte, di una potenza nucleare nemica, di un crack finanziario, di un’epidemia letale, dell’esaurimento dell’acqua, del petrolio o del gas, della catastrofe ambientale, delle macchine «intelligenti» che tolgono il lavoro agli uomini o – se gli gira storta – li riducono in schiavitù. Ultimamente si è persino diffuso il vezzo di affiggere angoscianti conti alla rovescia nei luoghi pubblici: quanto manca al default sovrano, quanto alla fine dei combustibili fossili, quanto al cataclisma climatico (di qualsiasi cosa si tratti). Nel frattempo si normalizzano gli scenari di privazione come unica soluzione percorribile: l’automobile e l’acqua diventeranno un lusso, l’energia intermittente, i diritti condizionati ai comportamenti «virtuosi», alle somministrazioni farmaceutiche e agli indici di rischio delle crisi via via calendarizzate.
Ora, sarebbe davvero temerario dare credito a queste narrazioni e insieme mettere al mondo – in un mondo che si annuncia così – dei figli. Ma anche senza crederci, resterebero purtroppo veri i «rimedi» di cui abbiamo già avuto un assaggio. Anche perché questi timori si sono ormai strutturati in prescrizioni esplicite, a riprova del fatto che non si tratta di spiacevoli epifenomeni da attribuire alla scarsa resilienza dei popoli, ma di veri e propri obiettivi. Sappiamo ad esempio che alcune tra le personalità più facoltose e influenti del pianeta predicano il contenimento delle nascite come già due secoli fa il reverendo Malthus, e che gli strumenti che oggi concorrono a questo risultato sono stati anticipati più di mezzo secolo fa da qualche teorico della «pianificazione famigliare»: promozione dell’aborto e della contraccezione, atomizzazione delle famiglie, riduzione e procrastinazione dei matrimoni, incentivazione del lavoro femminile e dell’omosessualità, riduzione della proprietà immobiliare diffusa (c.d. “Jaffe Memo”, 1969). Nelle stesse fonti si parla anche di sterilizzazione forzata, per legge o tramite la diffusione surrettizia di agenti farmacologici, come si sarebbe già sperimentato in India, in Kenya e altrove coniugando un principio sterilizzante alle vaccinazioni di uso comune. Non sappiamo se abbia funzionato e se ci sia l’intenzione di esportare il progetto, ma è certo che una politica universale di inieizioni ripetute e obbligatorie fornirebbe un’ottima piattaforma logistica per farlo.
Salendo in ordine di adesione alle idee dominanti, oggi riprodursi abbondantemente è considerato demodé, irresponsabile o antisociale. Il che completa degnamente il quadro di un’epoca recessiva, complessata, terrorizzata e addestrata all’odio di sé. Di un’epoca che ha fatto della morte la soluzione ai problemi di una vita che non sa più governare. Fare figli oggi è rivoluzionario e irriverente come lo sarebbe stato non farli quando i mercati chiedevano braccia e consumatori. Come aveva immaginato Aldous Huxley quasi un secolo fa, la genitorialità è diventata più oscena della genitalità.
Seppur statisticamente irrilevanti, fanno perciò parlare di sé coloro che scelgono di formare famiglie numerose e coese, spesso sorretti da una visione religiosa che fa loro trascendere l’oscurità vera o dipinta dei tempi. Per quanto detto, non sorprende che i protagonisti di questi esperimenti scelgano spesso di lasciare le aree urbane per insediarsi nei borghi semidisabitati della nostra penisola, in aree appartate, impervie o comunque parecchio distanti dalla civiltà metropolitana. Così facendo confermano il nesso naturale tra dissidenza proletaria e dissidenza rurale, che a sua volta è la tessera di un rifiuto più ampio e puntuale del modello vincente: la pratica religiosa dove regnano l’indifferentismo e l’ateismo (quando non la blasfemia), la manualità e la comunità contro la digitalizzazione, l’autoproduzione contro la grande distribuzione, lo studio del passato contro i flatus dell’attualità massmediatica, la fedeltà e la decenza nell’era di OnlyFans.
Sono credente e praticante, amo i bambini, la solitudine, i boschi e il lavoro nell’orto, mentre in città mi sento anche fisicamente a disagio. Sicché sono di parte. Ma se mi sforzo di portare l’analisi di queste scelte radicali al di là dei loro vantaggi per il corpo e per l’anima, trovo in esse la conferma di una crisi epocale. Perché nelle civiltà ben regolate la dialettica tra periferia e centro non può porsi in senso antagonistico. Può essere sì tesa, ma non corrispondere a un meglio e a un peggio istituzionali, essendo la loro complementarietà naturale. Per la sua storia, il nostro è uno dei pochi paesi multipolari del mondo (l’unico altro esempio che conosco è la Germania) in cui è più difficile cogliere con evidenza questa non sempre facile armonia. Risalendo però alla sua prima unità nell’impero latino, si osserverebbe che al culmine della prosperità (fine I sec.) Roma raggiunse la sua massima espansione demografica. Da lì in poi il modello urbano si impose come modello politico-ideologico e fu promosso nel resto dell’impero da Traiano e dai successori (II sec.). Già però nel III sec. la capitale e altre grandi città, divenute parassatarie e autoreferenziali, incominciarono a spopolarsi a vantaggio delle campagne e ad avviarsi verso un lento ma inesorabile declino. Con molta licenza e con tutte le differenze del caso, si può rileggere in questa triade l’espansione delle metropoli industriali, l’attuale inurbazione di tipo burocratico-ideologico e la profezia di un fallimento di cui qualcuno avverte già le avvisaglie.
Nei periodi migliori le nazioni e gli imperi gestiscono l’equilibrio tra periferia e centro secondo una logica «di genere», che coniuga cioè il polo fertile e femminile della prima con quello sterile e normativo del secondo. E non solo in termini materiali. Tutti i più grandi ingegni che dettero lustro alla Roma classica provenivano dalle province: Cicerone e Giovenale ciociari, Livio patavino, Virgilio mantovano, Orazio lucano, Ovidio abruzzese, Catullo veronese, Properzio umbro, Lucrezio (forse) partenopeo, Tacito provenzale, Seneca e Marziale iberici, Persio etrusco, eccetera. Lo stesso Cristianesimo approdò nell’Urbe dagli aridi lembi di una provincia orientale. Il centro accoglie i semi esterni delle forze produttive e li coltiva strutturandoli in un patrimonio riconoscibile e riconosciuto. Così è avvenuto anche nella storia delle arti e del pensiero, le cui «svolte» provengono dai territori vergini dell’esterno e trovano voce e forma nel centro.
Per quanto io ne sia tifoso, ritengo dunque che dagli eremi del dissenso non possa nascere o rinascere una civiltà, siccome nulla può nascere da un ovulo senza spermatozoo (o viceversa). Vi si può riassaporare l’essenziale, l’antico e il vitale e darne testimonianza agli altri, ma senza struttura e senza un codice condiviso quella vitalità è destinata al solipsismo e agli eccessi di un istinto gabellato per norma, sterile tanto quanto il formalismo necrofilo degli slogan e dei simboli della città. Mai come oggi è cruciale mantenersi in equilibrio, non rispondere al monismo con il monismo e per quanto è possibile, resistere al mondo incidendo nel mondo.
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