Ai tempi in cui mi interessavo di cose socialiste, l'ideologo che più di tutti mi intrigò era un personaggio scaturito dalla fantasia di Émile Zola: Sigismondo Busch, ascetico e malaticcio intellettuale marxista il cui «sogno di giustizia» di assicurare «a ciascuno la sua parte di felicità e di vita» strideva piuttosto comicamente col fatto che si facesse mantenere... da un fratello strozzino (many such cases, diremmo oggi). In un dialogo de L'argent (1891) il protagonista Aristide Saccard chiede al giovane studioso se i futuri rivoluzionari intendano espropriare i patrimoni dei grandi capitalisti, come il ricco banchiere Gundermann.
Neanche per sogno – gli risponde Sigismondo, – non siamo mica dei ladri. Riscatteremo i suoi miliardi, tutti i suoi valori e i suoi titoli di rendita in cambio di buoni di usufrutto suddivisi in annualità. Ve lo immaginate, allora, quel capitale immenso rimpiazzato da una soffocante ricchezza di beni di consumo? In meno di cent'anni i discendenti del vostro Gundermann si ridurrebbero, come gli altri cittadini, al lavoro personale [...] Ah! Gundermann che soffoca sotto quel mucchio di buoni di consumo! E i suoi eredi, che non riuscendo a mangiare tutto saranno costretti a dare qualcosa agli altri e a prendere in mano la vanga o l'utensile, come tutti i compagni!
Sennonché l'esperienza e la storia mi persuasero poi che questa visione spassionata della rivoluzione, questa equanime riorganizzazione tutta centrata sul dare e non sul prendere, sul beneficiare e non sul ledere, sulle vittime e non sui presunti carnefici – dove gli stessi padroni sarebbero semplicemente obbligati dalla «dura legge della concorrenza» a «sfruttare i loro operai, se vogliono sopravvivere» – ebbene che tutto ciò era, appunto, solo una favola letteraria. E che viceversa tutti i sognati totalitarismi, di sinistra e di ogni altro colore, seducono così tante persone proprio in forza della promessa di additare e punire un nemico, non di intervenire asetticamente sui gangli de «l’état actuel». E che quella punizione è toccata e toccherà sempre anche agli stessi che la auspicano per gli altri, sì che in quel rogo di «giustizia» finirà indistintamente ogni pollo, a beneficio di qualche rosticciere. Many such cases.
Nè mi stupiva il fatto che le prime forme di questa vis puniendi fossero appunto quelle della requisizione e dell'esproprio. L'idea del totalitarismo politico è materialistica in sé: allestisce in terra l'onnipotenza per architettarvi un paradiso, promette un dies irae tellurico per separare qui il grano dal loglio. Se la sua soteriologia deve ridursi nel mondo finito delle cose finite, è dunque normale che la privazione vi diventi giustizia e che il governo delle anime coincida col governo delle sostanze e da lì, fatalmente, dei corpi e della vita biologica. Non si tratta allora soltanto di un già grave vizio di invidia – molti fautori di queste soluzioni godono anzi di patrimoni cospicui – ma di un più radicale straripamento dell'io nel dominio dell'altro, della tentazione infera di annichilire l'altrui spirito scippandone l'involucro fisico e così sottrarsi al raffronto, al dubbio, all'identità.
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Di questa peste dell'anima mi è parso di avvertire i sintomi in un recente e singolare dibattito sulla proprietà immobiliare altrui, tema ancora sottotraccia ma già caro a un vasto pubblico di collettivisti da cortile. Ascoltando questi ultimi ho scoperto che il divide et impera del pollaio si è ultimamente arricchito di una nuova categoria di kulaki: i proprietari di case (al plurale: seconde, terze, quarte...) che, a seconda del narratore, sottrarrebbero con le loro smanie da rentier ora clienti agli albergatori, ora alloggi agli studenti, ora un tetto ai bisognosi, ora un nido alle giovani coppie. A questi neghittosi speculatori che in certi casi avrebbero – orrore! – ereditato dette case dagli zii e dalle nonne, pare si debbano inoltre le seguenti piaghe: inflazione immobiliare, occupazioni abusive, gentrificazione dei centri urbani, improduttività, sovraffollamento turistico, vagabondaggio e forse anche dissesto erariale, giacché alcuni di essi avrebbero osato chiedere e ottenere incentivi pubblici per la riqualificazione edilizia. Costoro andrebbero dunque, se non espropriati, almeno castigati con una generosa sferza fiscale, additati alla riprovazione di chi-lavora, costretti a mettere i loro vani a disposizione di chi-dico-io, alle condizioni che-decido-io e a prezzi drasticamente calmierati. Così imparano.
Per quanto circoscritto, il caso è affascinante perché illustra quasi ad absurdum la potenza seduttrice del benecomunismo a comando e il suo ben prestarsi a dissimulare obiettivi del tutto estranei da quanto sembra promettere. Restando nell'ovvio, già da parecchi secoli le civiltà si sono strutturate per demandare alla sfera pubblica (lo Stato, le chiese, le associazioni, le corporazioni ecc.) il compito di gestire i problemi sopra elencati e, insieme, di tutelare la proprietà e la produzione, essendo queste ultime non solo bisogni parimenti meritevoli di protezione ma anche presidi di prosperità da cui scaturiscono le forze con cui le istituzioni assolvono alle loro funzioni. Un sovrano «sigismondiano» orientato a nutrire e non a divorare le proprie risorse può (deve) intervenire in tanti modi per soddisfare il bisogno abitativo, il più evidente dei quali è quello di acquistare, noleggiare, riscattare o direttamente realizzare gli allogi, contribuendo così anche a raffreddare il mercato. Lo si era ad esempio fatto in un'Italia incomparabilmente più povera di oggi, quando con il solo piano INA-Casa furono consegnati più di trecentocinquantamila alloggi in un poco più di un decennio. I pluriproprietari e i plurilocatori esistevano anche allora, erano anzi la norma, ma non risulta siano stati di ostacolo a un progetto che, semplicemente, ieri si è scelto di realizzare, oggi si è scelto di abbandonare.
Ma queste sono, appunto, ovvietà. Il succo della faccenda sta invece in un fatto bizzarro: che il nemico del popolo che possedesse oggi case per un valore, diciamo, di un milione, cesserebbe del tutto di essere tale qualora disponesse dello stesso importo, o anche del doppio, o del decuplo, in depositi e titoli finanziari. In quel caso allora no: è roba sua. Ne faccia quel vuole, anzi beato lui! E qui si scopre il gioco. La differenza pratica tra i due capitalisti è pressoché nulla: entrambi traggono un godimento da ciò che hanno, entrambi sono responsabili dell'uso che ne fanno (perché quello finanziario non presta i soldi a chi-dico-io, alle condizioni che-decido-io? magari per comprarsi una casa?). La differenza teorica è invece sostanziale. Il casettaro ha osato mettere le sue sostanze in una cosa vera e, peggio ancora, utile. Ha voltato le spalle alla futilità dei consumi, al rischio dei mercati e specialmente all'impalpabilità del soldo elettronico, fiduciario e finanziario, per spingersi là dove solo i grandi possono incedere: nella realtà, nei bisogni senza tempo. È questo che non gli si perdona, di avere dato materia al suo lurido gruzzolo ereditato o sudato sottraendolo dagli ologrammi bancari, dalla possibilità di svalutarlo, decurtarlo, metterlo fuori corso, dal mare magno a cui attingono gli investitori, anche per iniziative immobiliari. Perché loro possono, il casettaro no, sicché lo danno in pasto ai Sancho Panza dell'equità. Egli deve essere fluido e ricollocabile, negli averi come nell'esistenza.
Il mattone diffuso offende dunque il denaro, mette in crisi la sua magia, disturba l'incanto in cui ci è chiesto di credere e di vegetare. Con un nemico così, c'è da temere che un giorno la polemicuccia di cui ci siamo occupati sarà rilanciata dal burattinaio sulle prime pagine e sui banchi dei parlamenti. In parte sta già avvenendo, ma avvenga almeno senza il nostro plauso.
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