Per una tortuosa evoluzione degli algoritmi, forse per aver cercato in una stessa sessione notizie sul cinema coreano e sui sistemi di parental control, o per qualche altro motivo, la piattaforma YouTube mi ha proposto un breve filmato di una giovane psicologa che non conoscevo e che non cito, di una fondazione per la tutela dell'infanzia che non conoscevo e non cito, sulla serie televisiva sudcoreana Squid Game. Che pure non conoscevo, non usando la televisione da quasi vent'anni.
Mi sono incuriosito e ho guardato alcuni spezzoni del prodotto. Di cui non posso dare un giudizio tecnico, ma che in una più ampia tassonomia delle rappresentazioni collocherei senz'altro nel novero delle visiones inferorum, ancorché in un vestito laico e moralmente agnostico – cioè gratuito. Più che un'idea narrativa, la trama della serie è un pretesto per gozzovigliare in ogni gradazione di male morale: odio, brutalità, invidia, sadismo, materialità, egoismo, degrado, tradimento, rancore, terrore. In una siffatta antropologia della disperazione, dove gli esseri umani spogliati del barlume divino diventano insetti come i nudi dannati di Bosch e demoni gli uni degli altri, la violenza fisica è davvero l'ultimo dei problemi. Non è che il corollario di una violenza epistemica più profonda, di bandire ogni traccia di bene. È questo, non quello dello splatter in alta definizione, il danno che si vuole infliggere all'anima frustrandone un'inclinazione imperfetta, ma vitale. Chiarita la matrice, non ci sarebbe altro da aggiungere se non, con un un altro esploratore averno, «misericordia e giustizia li sdegna; non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
Si capirà allora la mia sorpresa – e la mia ignoranza dei trend psicologi, oltreché cinematografici – all'udire le raccomandazioni che la citata dottoressa rivolge a genitori ed educatori, oltre a quello più ovvio di «evitare di mostrare la serie TV» ai «bambini sotto l'età consigliata». Bontà sua: nel nostro Paese la visione è vietata ai minori di 14 anni (quindi non solo ai bambini) e nel resto del mondo ai minori di 15 (UK), 16 (Spagna, Francia, Austria, Brasile), 17 (Stati Uniti) o 18 (Germania, India, alcuni Stati australiani) anni. In Corea, dove la serie è prodotta, vigono sanzioni per chi la mostra ai più giovani di 19 anni. Insomma, la psicologia dell'età evolutiva, che pure reclama dignità di scienza, cambia a seconda del passaporto. Prosegue l'esperta: per quanto riguarda invece i «ragazzi preadolescenti» (che, lo ripetiamo a lei e a chi legge, non possono guardare il programma) e «adolescenti» il consiglio sarebbe «innanzitutto quello di provare a vedere la serie per avere coscienza dei contenuti» e successivamente «di parlarne insieme a loro... per attivare un dibattito... e capire un po' quali siano state le emozioni che abbiano provato». «Tutto questo», conclude, «per dire che il problema non sta direttamente in Squid game ». Il video si chiude e resta una domanda: perché? Perché un genitore dovrebbe trangugiare veleno e condividerlo coi propri figli? «Quale padre... se il figlio gli chiede un pesce gli darà una serpe»? E poi lo interroga, per vedere l'effetto che fa? Boh. E in generale: perché il male dovrebbe essere un divertimento e non proprio un «problema» di cui è già abbastanza generosa la vita, non uno schifo da contenere con azioni, raffigurazioni e concezioni di segno opposto?
Mi rendo conto che l'ultima domanda è ingenua. Questi spettacoli hanno un pubblico perché soddisfano un bisogno, per indagare il quale bisognerebbe addentrarsi in certi abissi che richiedono tempo, competenza e coraggio. Ma che si tratti almeno di abissi problematici mi sembra confermato da una scoperta che ho fatto mentre mi documentavo sul fenomeno. Tra i più pensosi cultori del programma, apprendo, dilagherebbe una lettura accreditata dal suo stesso ideatore Hwang Dong-hyuk, secondo la quale in quei drammi si metterebbero allegoricamente in scena le brutture morali della società capitalistica: materialismo, competizione e diseguaglianze, che proprio in Corea toccherebbero vette estreme. La serie Squid Game, prodotta e distribuita da un colosso del capitalismo mediatico che fattura oltre 30 miliardi di dollari all'anno, nasconderebbe dunque una raffinata denuncia anticapitalistica.
Ermeneuticamente parlando, questa però è una sciocchezza. Va da sé che tutte le rappresentazioni del male rimandino a mali reali, se non in senso storico almeno in senso morale. L'arte può inventare l'atto, non il vizio. Sicché, nel suo alludere sempre a un vissuto – direttamente o indirettamente, realisticamente o figurativamente – la mera rappresentazione non può integrare da sé una denuncia, altrimenti sarebbero generi impegnati anche i videogiochi sparatutto, gli spettacoli sadomaso e i film horror. Serve dell'altro. Come nelle denunce sporte alle autorità si citano gli articoli violati, così nelle denunce morali occorre dichiarare la norma infranta in modo esplicito o, come più spesso accade nelle produzioni artistiche, implicito, introducendo ad esempio un eroe positivo, un testimone viruoso, un narratore orientato, un riferimento ideale ecc. Senza questa cornice didascalica è lecito immaginare un messaggio, ma è altrettanto lecito immaginarne un altro, o il suo contrario. O che non vi sia alcun messaggio.
La denuncia di un fatto, come è un fatto la società capitalistica in certe sue declinazioni, non si sposa con la rappresentazione fantastica. La sua crudezza deve essere realistica se non cronachistica, avendo appunto lo scopo di focalizzare l'attenzione del pubblico su un fatto vero o verosimile ma scomodo, rimosso, negato. Una denuncia (di qualsiasi tipo) è efficace se è scevra dalle esagerazioni e dalle censure che caratterizzano gli scenari onirici, dove invece si riflettono i paesaggi interiori dell'autore: le sue speranze, i suoi timori, le sue ossessioni, i suoi vissuti trasfigurati, il modo insomma in cui si percepisce nella realtà secondo criteri di cui la realtà è solo un innesco seminale. Giacché la violenza si agisce nei sistemi sociali di ogni epoca, di ogni luogo e di ogni colore politico, un autore (e un pubblico) che ne è attratto troverà sempre materiali per dipingerla. Ad esempio, ne Le 120 giornate di Sodoma, che si iscrive nello stesso filone di pretesi j'accuse truculenti, alcuni hanno visto una denuncia della spietatezza nazifascista. Con più onesta, lo stesso Pier Paolo Pasolini spiegò invece che l'opera svilupperebbe una riflessione sull'archetipo dell'«anarchia del potere». Ma veramente onesto sarebbe stato riconoscervi innanzitutto i fantasmi propri del regista incarnati nell'involucro tutto contingente di un fatto storico tra gli altri (il fascismo) e antropologico tra gli altri (il potere). Un ritratto di sé costruito con i pezzi del mondo, non del mondo.
La strumentalizzazione di un «messaggio» – che, scrive ancora Pasolini a proposito del suo film, «è quasi sempre sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, anche quando è sincerissimo» – per magnificare l'esibizione del male è il gemello oscuro di una specie più familare, di esibire e strumentalizzare il male per magnificare un messaggio. Lo si fa con certi martirii religiosi e civili, con le atrocità selettivamente attribuite a un nemico designato o a un perdente a cui negare pietà, con i drammi innocenti di cui, si dice oggi, «siamo tutti colpevoli». È il vizio antico di attivare la triade istintiva di raccapriccio, identificazione e difesa per attentare alla libertà critica del pubblico oltrepassandone il metabolismo razionale. Ma se si accetta questa operazione è facile credere che la violenza narrata abbia sempre qualcosa da insegnare, anche quando di quel qualcosa non c'è traccia. Che ci debba essere una lezione, e che debba essere una lezione importante perché scomoda, come è scomoda la visione del male. Secoli di traumatismo didattico hanno scavato il solco: chi mostra il male significa il bene. E se non si vede, non si è cercato abbastanza.
Essendo antico, il vizio era già famigerato tra gli antichi. Affinché la tragedia espletasse con equilibrio la sua funzione didattica e catartica, Aristotele raccomandava che le «cose terribili» (τὰ φρικώδη) avvenissero fuori scena e fossero narrate da un messaggero (Poetica, cap. XIV). Per Orazio, la loro esibizione sul palco avrebbe suscitato solo incredulità e disgusto («incredulus odi», Ars Poetica, vv. 185–188). Sarebbe facile capire che l'orrore non può essere edificante proprio perché è distruttivo. Produce condizionamento, non convinzione; manipolazione, non trasformazione. Imprime casomai un messaggio per avversione e difesa, siccome le percosse i lividi, e non può dunque farsi base di una ricerca desiderante del bene e degli strumenti per conseguirlo nella complessità.
Allora, perché il voyeurismo della depravazione? Non lo so. Ma, appunto, questa ansia di imprimergli o di estorcergli un insegnamento sembra lo scudo, poco credibile eppure creduto, di qualcosa che non deve mostrarsi. Una catarsi forse, ma non aristotelica, senza margini per elaborare un antidoto o un senso che non sia appiccicaticcio e inventato. Non una presa di coscienza collettiva, ma la proiezione dell'ombra singolare di chi guarda e spera di alleggerire le proprie paure e tentazioni collettivizzandole nella «viralità». Diventa allora un esorcismo, epperò monco e avventato, perché non ci sono esorcisti e poteri che dissipino gli spettri evocati, sicché questi dilagano invece di perdersi, infestano le sfere benevolenti e razionali del paziente e ne paralizzano la facoltà di reagire. Chi cerca il male ha dentro il male. Non è un'accusa, ma un invito a spingersi nel proprio buio con uno scopo e una mappa, possibilmente anche una guida, senza fingersi che il suo riflesso sia un prodotto d'arte, un manifesto, un monito, uno svago o un gioco di società. Le piaghe vanno scoperte perché le si curi.
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