Il mio articolo Della magica poiesi è stato pubblicato nel volume Nel Regno della Quantità, ed. Il Leone Verde, Torino (2024).
| 12 commenti | pdf

Seul o le 120 giornate


Per una tortuosa evoluzione degli algoritmi, forse per aver cercato in una stessa sessione notizie sul cinema coreano e sui sistemi di parental control, o per qualche altro motivo, la piattaforma YouTube mi ha proposto un breve filmato di una giovane psicologa che non conoscevo e che non cito, di una fondazione per la tutela dell'infanzia che non conoscevo e non cito, sulla serie televisiva sudcoreana Squid Game. Che pure non conoscevo, non usando la televisione da quasi vent'anni.

Mi sono incuriosito e ho guardato alcuni spezzoni del prodotto. Di cui non posso dare un giudizio tecnico, ma che in una più ampia tassonomia delle rappresentazioni collocherei senz'altro nel novero delle visiones inferorum, ancorché in un vestito laico e moralmente agnostico – cioè gratuito. Più che un'idea narrativa, la trama della serie è un pretesto per gozzovigliare in ogni gradazione di male morale: odio, brutalità, invidia, sadismo, materialità, egoismo, degrado, tradimento, rancore, terrore. In una siffatta antropologia della disperazione, dove gli esseri umani spogliati del barlume divino diventano insetti come i nudi dannati di Bosch e demoni gli uni degli altri, la violenza fisica è davvero l'ultimo dei problemi. Non è che il corollario di una violenza epistemica più profonda, di bandire ogni traccia di bene. È questo, non quello dello splatter in alta definizione, il danno che si vuole infliggere all'anima frustrandone un'inclinazione imperfetta, ma vitale. Chiarita la matrice, non ci sarebbe altro da aggiungere se non, con un un altro esploratore averno, «misericordia e giustizia li sdegna; non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

Si capirà allora la mia sorpresa – e la mia ignoranza dei trend psicologi, oltreché cinematografici – all'udire le raccomandazioni che la citata dottoressa rivolge a genitori ed educatori, oltre a quello più ovvio di «evitare di mostrare la serie TV» ai «bambini sotto l'età consigliata». Bontà sua: nel nostro Paese la visione è vietata ai minori di 14 anni (quindi non solo ai bambini) e nel resto del mondo ai minori di 15 (UK), 16 (Spagna, Francia, Austria, Brasile), 17 (Stati Uniti) o 18 (Germania, India, alcuni Stati australiani) anni. In Corea, dove la serie è prodotta, vigono sanzioni per chi la mostra ai più giovani di 19 anni. Insomma, la psicologia dell'età evolutiva, che pure reclama dignità di scienza, cambia a seconda del passaporto. Prosegue l'esperta: per quanto riguarda invece i «ragazzi preadolescenti» (che, lo ripetiamo a lei e a chi legge, non possono guardare il programma) e «adolescenti» il consiglio sarebbe «innanzitutto quello di provare a vedere la serie per avere coscienza dei contenuti» e successivamente «di parlarne insieme a loro... per attivare un dibattito... e capire un po' quali siano state le emozioni che abbiano provato». «Tutto questo», conclude, «per dire che il problema non sta direttamente in Squid game ». Il video si chiude e resta una domanda: perché? Perché un genitore dovrebbe trangugiare veleno e condividerlo coi propri figli? «Quale padre... se il figlio gli chiede un pesce gli darà una serpe»? E poi lo interroga, per vedere l'effetto che fa? Boh.  E in generale: perché il male dovrebbe essere un divertimento e non proprio un «problema» di cui è già abbastanza generosa la vita, non uno schifo da contenere con azioni, raffigurazioni e concezioni di segno opposto?

Mi rendo conto che l'ultima domanda è ingenua. Questi spettacoli hanno un pubblico perché soddisfano un bisogno, per indagare il quale bisognerebbe addentrarsi in certi abissi che richiedono tempo, competenza e coraggio. Ma che si tratti almeno di abissi problematici mi sembra confermato da una scoperta che ho fatto mentre mi documentavo sul fenomeno. Tra i più pensosi cultori del programma, apprendo, dilagherebbe una lettura accreditata dal suo stesso ideatore Hwang Dong-hyuk, secondo la quale in quei drammi si metterebbero allegoricamente in scena le brutture morali della società capitalistica: materialismo, competizione e diseguaglianze, che proprio in Corea toccherebbero vette estreme. La serie Squid Game, prodotta e distribuita da un colosso del capitalismo mediatico che fattura oltre 30 miliardi di dollari all'anno, nasconderebbe dunque una raffinata denuncia anticapitalistica.

Ermeneuticamente parlando, questa però è una sciocchezza. Va da sé che tutte le rappresentazioni del male rimandino a mali reali, se non in senso storico almeno in senso morale. L'arte può inventare l'atto, non il vizio. Sicché, nel suo alludere sempre a un vissuto – direttamente o indirettamente, realisticamente o figurativamente – la mera rappresentazione non può integrare da sé una denuncia, altrimenti sarebbero generi impegnati anche i videogiochi sparatutto, gli spettacoli sadomaso e i film horror. Serve dell'altro. Come nelle denunce sporte alle autorità si citano gli articoli violati, così nelle denunce morali occorre dichiarare la norma infranta in modo esplicito o, come più spesso accade nelle produzioni artistiche, implicito, introducendo ad esempio un eroe positivo, un testimone viruoso, un narratore orientato, un riferimento ideale ecc. Senza questa cornice didascalica è lecito immaginare un messaggio, ma è altrettanto lecito immaginarne un altro, o il suo contrario. O che non vi sia alcun messaggio.

La denuncia di un fatto, come è un fatto la società capitalistica in certe sue declinazioni, non si sposa con la rappresentazione fantastica. La sua crudezza deve essere realistica se non cronachistica, avendo appunto lo scopo di focalizzare l'attenzione del pubblico su un fatto vero o verosimile ma scomodo, rimosso, negato. Una denuncia (di qualsiasi tipo) è efficace se è scevra dalle esagerazioni e dalle censure che caratterizzano gli scenari onirici, dove invece si riflettono i paesaggi interiori dell'autore: le sue speranze, i suoi timori, le sue ossessioni, i suoi vissuti trasfigurati, il modo insomma in cui si percepisce nella realtà secondo criteri di cui la realtà è solo un innesco seminale. Giacché la violenza si agisce nei sistemi sociali di ogni epoca, di ogni luogo e di ogni colore politico, un autore (e un pubblico) che ne è attratto troverà sempre materiali per dipingerla. Ad esempio, ne Le 120 giornate di Sodoma, che si iscrive nello stesso filone di pretesi j'accuse truculenti, alcuni hanno visto una denuncia della spietatezza nazifascista. Con più onesta, lo stesso Pier Paolo Pasolini spiegò invece che l'opera svilupperebbe una riflessione sull'archetipo dell'«anarchia del potere». Ma veramente onesto sarebbe stato riconoscervi innanzitutto i fantasmi propri del regista incarnati nell'involucro tutto contingente di un fatto storico tra gli altri (il fascismo) e antropologico tra gli altri (il potere). Un ritratto di sé costruito con i pezzi del mondo, non del mondo.

La strumentalizzazione di un «messaggio» – che, scrive ancora Pasolini a proposito del suo film, «è quasi sempre sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, anche quando è sincerissimo» – per magnificare l'esibizione del male è il gemello oscuro di una specie più familare, di esibire e strumentalizzare il male per magnificare un messaggio. Lo si fa con certi martirii religiosi e civili, con le atrocità selettivamente attribuite a un nemico designato o a un perdente a cui negare pietà, con i drammi innocenti di cui, si dice oggi, «siamo tutti colpevoli». È il vizio antico di attivare la triade istintiva di raccapriccio, identificazione e difesa per attentare alla libertà critica del pubblico oltrepassandone il metabolismo razionale.  Ma se si accetta questa operazione è facile credere che la violenza narrata abbia sempre qualcosa da insegnare, anche quando di quel qualcosa non c'è traccia. Che ci debba essere una lezione, e che debba essere una lezione importante perché scomoda, come è scomoda la visione del male. Secoli di traumatismo didattico hanno scavato il solco: chi mostra il male significa il bene. E se non si vede, non si è cercato abbastanza.

Essendo antico, il vizio era già famigerato tra gli antichi. Affinché la tragedia espletasse con equilibrio la sua funzione didattica e catartica, Aristotele raccomandava che le «cose terribili» (τὰ φρικώδη) avvenissero fuori scena e fossero narrate da un messaggero (Poetica, cap. XIV). Per Orazio, la loro esibizione sul palco avrebbe suscitato solo incredulità e disgusto («incredulus odi», Ars Poetica, vv. 185–188). Sarebbe facile capire che l'orrore non può essere edificante proprio perché è distruttivo. Produce condizionamento, non convinzione; manipolazione, non trasformazione. Imprime casomai un messaggio per avversione e difesa, siccome le percosse i lividi, e non può dunque farsi base di una ricerca desiderante del bene e degli strumenti per conseguirlo nella complessità.

Allora, perché il voyeurismo della depravazione? Non lo so. Ma, appunto, questa ansia di imprimergli o di estorcergli un insegnamento sembra lo scudo, poco credibile eppure creduto, di qualcosa che non deve mostrarsi. Una catarsi forse, ma non aristotelica, senza margini per elaborare un antidoto o un senso che non sia appiccicaticcio e inventato. Non una presa di coscienza collettiva, ma la proiezione dell'ombra singolare di chi guarda e spera di alleggerire le proprie paure e tentazioni collettivizzandole nella «viralità». Diventa allora un esorcismo, epperò monco e avventato, perché non ci sono esorcisti e poteri che dissipino gli spettri evocati, sicché questi dilagano invece di perdersi, infestano le sfere benevolenti e razionali del paziente e ne paralizzano la facoltà di reagire. Chi cerca il male ha dentro il male. Non è un'accusa, ma un invito a spingersi nel proprio buio con uno scopo e una mappa, possibilmente anche una guida, senza fingersi che il suo riflesso sia un prodotto d'arte, un manifesto, un monito, uno svago o un gioco di società. Le piaghe vanno scoperte perché le si curi.


Lascia un commento

Commenti

Truffatore imbroglione

Per qualche dettaglio in più sulla condizione sociale sudcoreana che immagino il regista voglia narrare, vero e proprio testacoda tra la tradizione millenaria cinese della selezione statale e il capitalismo sfrenato, si può leggere:
link
A margine, questa serie sembra inserirsi nel solco di The Hunger Games, con pesanti ispirazioni dal manga Kaiji:
link

Rispondi

Pastinaca

Ricollegandomi a ciò che recitava a suo tempo un noto sito (cito a memoria): "In Paesi evoluti come la Corea del Sud basta un tozzo di pane per scatenare la competizione".
Calzante o esagerato che sia, chi decida di mettere in immagini le bassezze derivanti da questa affermazione non starà di certo facendo "critica al sistema", ma solo realizzando un'opera che porterà i fruitori a familiarizzare ancora di più con ciò che in essa viene rappresentato.
I personaggi di quella serie del resto sono i primi ad accettare questo stato di cose, e non si muovono contro di esso, ma "al suo interno". Stanno cioè al gioco.
Cosa c'insegnano del resto le miriadi di film e telefilm americani in cui qualcuno si trova a dover pagare conti esorbitanti per curarsi? Ci si lamenta contro il sistema? Si fa fronte comune e lotta senza quartiere finché non si ottiene ciò che dovrebbe essere IL MINIMO per qualsiasi società civile? Ma certo che no! "Si sta al gioco", "si ingoja il rospo", ci si impegna PER SE STESSI e alla fine, se si è stati meritevoli, si ottiene ciò che si anelava.
Qui è (ovviamente) la stessa identica cosa. (la Corea del Sud del resto è la parte "americana" della penisola, a seguito della nota guerra)
Una delle frasi ricorrenti dei "cattivi" della serie è "Tanto questa gente sarebbe morta male comunque, noi se non altro diamo loro un'opportunità di giocarsela".
Al che i "buoni" se non ricordo male non trovano mai niente da replicare, a parte qualche frasetta generica. Addirittura anche molti "morituri" si trovano fortemente d'accordo con questa affermazione, tanto che poi - dopo esserne usciti - decidono di rientrare nel "gioco", per l'appunto per "giocarsela". E nessuno dice niente. (è questo a mio parere ciò che fa più rabbrividire di quella serie)
Poi alla fine "il bene" e "quelli degni" trionfano sempre, e qui accadrà la stessa cosa, ma cosa accadrà a quel punto? Quel che sempre accade in questi casi, naturalmente.
"I buoni" sconfiggeranno la tal azienda/fazione/accolita "deviata" responsabile dell'"iper-depravazione" in oggetto, e tutto ritornerà alla normalità (cioè al sistema che si diceva di voler criticare, che così facendo diventa però il più classico dei "migliori dei mondi possibili", o benissimo che vada "il migliore a cui possiamo legittimamente aspirare").
Non sono perciò critiche, ma favole morali.
Che insegnano e ajutano a introjettare la "morale" imperiale.

Rispondi

↪ Il Pedante

Ottima analisi.

Rispondi

Valerio

Quindi, l'Inferno di Dante (unica cantica disponibile per decenni) è diseducativo in quanto descrive la depravazione umana?

Rispondi

↪ Il Pedante

Ritengo di avere risposto più volte a questa domanda nel testo. Ma se ho mancato di chiarezza, mi scuso.

Rispondi

Loredana

Articolo magistrale, come sempre

Rispondi

Etnadep

Buongiorno, vorrei argomentare in risposta a ogni passaggio ma mi rendo conto che ci vorrebbe un testo di pari e probabilmente maggiore lunghezza. Mi limito a precisare che, nel caso specifico di Squid Game, la presenza di personaggi “positivi”, a loro modo eroici, rappresenta il fulcro stesso della “storia”. Il protagonista, tale Seong Gi-hun, malgrado abbia vinto il gioco ottenendo una cifra sufficiente a renderlo ricco per tutta la vita, resiste alle minacce subite e si ingegna per partecipare nuovamente al macabro spettacolo al fine di cercare di salvare i nuovi giocatori, ma soprattutto rivelare l’identità degli illustri quanto enigmatici personaggi che ogni anno organizzano questo circo sfruttando la disperazione di gente ridotta sul lastrico. Seong, animato dal desiderio di giustizia e dal rimorso per le proprie azioni, rinuncia a tutto il denaro accumulato per dedicarsi alla sua missione la quale, diversamente dalle consuete narrazioni di stampo angloamericano, assume un carattere strettamente altruistico e generico, cioé riferito al prossimo in quanto tale, e non per salvare un proprio parente, la propria amante, o “il mondo intero” come entità al punto astratta da riflettere soltanto l’ego mitomane dei soggetti hollywodiani. Da qui a parlare di denuncia ce ne passa, ma non é un dettaglio, come non lo é la messa in scena di innumerevoli storie personali, motivazioni, caratteri e debolezze dei personaggi più o meno secondari, di volta in volta positivi o negativi, e che a mio parere rappresentano l’aspetto più sibillino della serie. Essi infatti sembrano a tratti confermare l’ineluttabilità del male attraverso la congenita subordinazione del povero al ricco, tratteggiando il ritratto di un’umanità miserabile nella quale le vittime sono soltanto carnefici che non ce l’hanno fatta, a tratti invece sembrano voler premiare lo slancio quasi ascetico del protagonista, facendosi portatori dei suoi stessi valori e accompagnandolo nella lotta di liberazione. Questo generico binomio, fatto di decine di frammenti diversi, é l’aspetto più “sociale” dello show, il quale, consapevolmente o meno (ma per denunciare qualcosa bisogna esserlo), mostra un’umanità devastata dalla povertà e soggiogata da un potere iperclassista al quale si concede o per debolezza o per costrizione, del quale condivide i piaceri pur odiandone i privilegi. Non ricordo film americani moderni nei quali sia emerso questo aspetto in maniera tanto manifesta e brutale. Non significa che sia un merito né tantomeno un progetto, ma il suo effetto, per quanto mi riguarda, non é sovrapponibile a quello di un qualunque sparatutto o di un horror movie.

Rispondi

↪ Il Pedante

Gentile lettore, La ringrazio innanzitutto di avermi fornito un dettaglio che non conoscevo - e di avermi così risparmiato la pena di conoscerlo guardando la serie. Condivido la Sua osservazione: siamo lontanissimi dal format hollywodiano la cui manipolazione si fonda invece sul pieno riconoscimento dell'aspirazione al bene e sul suo utilizzo per lubrificare visioni e messaggi politicamente orientati, nel senso più ampio del termine. Né la mia menzione di videogiochi e horror movie voleva tracciare un'analogia puntuale. Le Sue riflessioni, che reputo preziose, non spostano però di molto il mio sospetto che questo e altri prodotti artistici non ritraggano tanto una società disperata quanto uno sguardo disperato, degli autori e del pubblico.

Rispondi

Liceo 1979

...SALVO PASOLINI...SUA CULTURA E STORIA ..POESIA....CINEMA& VICINANZA AI "CELERINI" SICURAMENTE AL DI SOPRA DI DUBBI...IL RESTO VERO...CONDANNABILE..INCUBO PERSONALI!!!?

Rispondi

↪ Il Pedante

.....DIECCI LIRE....

Rispondi

Phaselus ille

Non posso glissare sulla necessità, per me, di attestarLe (è la volta ennesima) la mia stima.
Sono rare le persone dalle quali mi capiti di apprendere veramente, o che mi offrano prospettive e strumenti concettuali tanto originali e raffinati.
Sull'oggetto di questo Suo intervento, tuttavia, il mio sguardo è diversamente orientato.
Presto (e più banalmente) detto: si tratterebbe (sin da Agostino) del morbo degli spectacula, tanto più attraenti e soggioganti quanto apparentemente repulsivi o, sempre, emozionalmente potenti...
Sul "coso" coreano: non potrebbe spiegarsi semplicemente con la fenomenologia del pornografico (e non mi riferisco necessariamente a donnine e megalomembri in fregola)? Insomma, ricorrendo a uno sbreccato e rugginoso rasoietto di Occam, tenderei a una lettura più riduttiva - che non esclude la Sua, più concentrata (mi pare) sullo sbugiardamento del pretesto addotto da quegli orridi ostensori di scelera: io vedo tanto uno sfruttamento del Male esibito il cui fine immediato sia commerciale (strumento) e quello ultimo consista nel controllo, nella sedazione, nel vero potere (Lei non usa il televisore: La informo che un tg non si allontana molto da ciò che intendo). O potrebbe anche invertirsi l'ipotesi. La chiudo rozzamente: un far soldi rimbecillendo tutti - sfruttandone la (naturale?) inclinazione voyeuristica - o un rimbecillire tutti per far soldi, o le due cose assieme (questo sì essendo molto, molto... capitalistico).

Rispondi

↪ Il Pedante

Gentile lettore, La ringrazio del Suo contributo, ma appunto non credo che esso integri una visione alternativa a quella che propongo. Nel testo ho cercato, tra le altre cose, di sviluppare i moventi di questo voyeurismo, o almeno di abbozzare una mia idea in proposito. Che esista e che qualcuno lo sfrutti per consolidare poteri e patrimoni è sotto gli occhi di tutti. Più nascosti e interessanti sarebbero i motivi per cui tutto ciò funziona.

Rispondi