Il monito di vivere nel presente senza crucciarsi del passato né temere il futuro è comune a molte saggezze antiche. Nel Saṃyutta Nikāya (III sec. a.C.) si svela il segreto della serenità dei monaci buddisti che vivono nella foresta («Arañña Sutta»): «Essi non rimpiangono il passato, non si preoccupano del futuro, si mantengono nel presente». Nel De brevitate vitae Seneca disprezza coloro che pensano a lungo termine («cogitationes suas in longum ordinant») perché «il più grande ostacolo alla vita è l'attesa che dipende dal domani» e fa trascurare ciò che abbiamo per inseguire ciò che solo «è in mano alla fortuna». Il Dio biblico esorta gli israeliti per bocca di Isaia: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!» (Is 43,18), mentre il Cristo deplora la tentazione contraria, di scrutare con angoscia un futuro che non appartiene agli uomini: «Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,34). L'arte di predire il futuro è condannata dalla legge mosaica (Lv 19.31; 20,6; 20,27) e costituirà peccato grave anche per i cristiani «poiché gli strumenti divinatori dicono menzogne, gli indovini vedono il falso, raccontano sogni fallaci, danno vane consolazioni» (Zc 10,2). Per il pagano Orazio è «nefas», cioè delittuoso e sacrilego, conoscere ciò che gli dei hanno in serbo per noi (Carm. I 11). Più recentemente, certe pratiche come la «mindfulness» hanno recuperato questi retaggi per offrire sollievo alle persone vittime di un trauma o dell'ansia invitandole a concentrarsi sull'attimo.
Qualcuno potrebbe obiettare che una siffatta beatitudine non differisce dall'oblio delle bestie, essendo gli esseri umani speciali proprio perché capaci di riflettere sul passato e di programmare il futuro. E non avrebbe torto, sennonché gli insegnamenti antichi non sono procedure ma corollari di più vasti sistemi in cui si coordinano riflessioni, credenze, esperienze e rischi vissuti. Di questi ultimi, quello oggi forse più dimenticato è che la sollecitudine per le cose future possa diventare una schiavitù non solo autoinflitta ma anche infliggibile, che la si si coltivi cioè per esercitare un potere.
Il caso ben si applica al discorso pubblico contemporaneo, sbilanciato com'è verso il futuro e avviluppato nell'ombra di ciò che (forse) sarà, in fuga perenne da ciò che è. Nelle agende odierne si ha da operare «sostenibilmente» e «per le prossime generazioni» sotto il giogo di un cataclisma che incombe. Con un rovesciamento perfetto del lascito sapienziale, i bisogni presenti sono «la pancia»: contingenze animali indegne dell'attenzione dell'antisaggio moderno che semina senza raccogliere e prevede senza vedere. Ciò che conta per lui non esiste, ciò che esiste non conta. Direbbe ancora Seneca che egli «per vivere meglio organizza la vita a scapito della vita» in un affanno che «distrugge il presente mentre promette il futuro». Si è tante volte osservato che da questa alienazione normalizzata dall'emergenza ventura scaturisce puntualmente il ratto di un beneficio presente e diffuso. In ciò si conferma, da un lato, la disfunzionalità di queste discronie per chi le pratica e dall'altro, appunto, la loro funzionalità al trasferimento di un vantaggio dalla base al vertice della piramide sociale che le propala. La minaccia ventilata crea i presupposti del cedimento pro optimatibus instillando la paura, ma anche la promessa di un opportunità o di uno scampo.
Alcuni anni fa i soci dell'allora più grande istituto di credito cooperativo italiano si riunivano per discutere una decisione epocale: se trasformare la loro azienda in una società commerciale, degradandosi così a meri azionisti. Giacché una nuova legge avrebbe di lì a poco reso obbligatorio il passaggio, la maggioranza di loro si persuase che fosse meglio anticipare l'inevitabile e govenare (?) la trasformazione più che subirla, e quindi votarono a favore. Sembra un caso paradossale, ma è ad esempio lo stesso della corsa alla «digitalizzazione» in cui molti, invece di opporvisi per quanto possibile, affollano i corsi di alfabetizzazione informatica o cercano di raccoglierne le briciole offrendo servizi e start up. O di chi vanta le dieci euro risparmiate in bolletta per avere aderito al libero mercato dell'energia che tanto, aggiunge con saccente perfidia, sarà obbligatorio per tutti. Oppure prende l'automobile a pile perché nel duemilatrenta e qualcosa si circolerà solo così. O la casa in classe a-più-più visto che presto, senza quel marchio apocalittico, le altre non si potranno più comprare né vendere.
Qui c'è un po' di rassegnazione e un po' di immotivata fiducia negli ultimi «progressi» annunciati o forse peggio, la creduta furbizia di cavarsela saltando prima degli altri sulla barca nemica. Ma l'aspetto più interessante è che queste persone, anticipando il loro svantaggio... lo hanno avverato. Accecate dall'imperativo del fare si sono buttate avanti dando alla minaccia uno slancio irrealizzabile con le sole forze di chi l'ha formulata. Ne sono state perciò i fautori, fabri quique iacturae suae. Immaginiamo: che cosa sarebbe accaduto se quei bancari avessero bocciato la trasformazione della loro azienda? La si sarebbe chiusa? Commissariata? Militarizzata? O più probabilmente staremmo ancora aspettando l'esito di ricorsi e controricorsi, compromessi politici e notarili? E se nessuno compra i trabiccoli elettrici o supercatalizzati, chi servirà i signori del centro storico che li vogliono imporre? Il problema si è già posto in effetti. E senza clienti, quale «mercato» si potrà realizzare? Eccetera.
Certo, non possiamo prevedere né forzare il futuro. Ma ben perciò non dobbiamo credere a chi dice di poterlo fare. E se a volte è saggio cedere alla forza, lo si fa quando (e se) agisce, non al suo annuncio. Gabellare il futuro per un fatto presente è un arcanum imperii che rappresenta per fare e suggerisce per imporre, ben sapendo che il tesoro è nel frattempo e la ciccia nell'essere. Vendere i fumi del domani serve a prendersi in saldo l'arrosto dell'oggi. Ecco dunque il punto delle scadenze lontane e delle roadmap ambiziose che scippano il mistero facendo norma del nefas oraziano: plasmare l'adesso proiettandovi le ombre del dopo. Ecco il perché degli annunci: affinché sia pensabile ciò che si vuole fattibile.
«Eh, ma tanto alla fine...». La fine è per ciascuno la morte e non c'è motivo di anticiparla. Né, se mai fosse il patibolo, sarebbe saggio salirci con le proprie gambe perché (!) inevitabile, quando al contrario lo si eviterebbe non pensandolo tale. I registi nulla possono senza la complicità degli attori, e meno ancora senza un pubblico che crede vera la trama.
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