Che si abbocchi o no alla lenza
è per tutti l'emergenza:
per lo sciocco e per lo scaltro,
purché non si narri d'altro.
(dalle Arie pedanti)
Che dire del nuovo vento di guerra, o almeno della sua prodromica corsa alle armi? E specialmente del fatto che non se ne sia mai parlato e che invece adesso siano priorità ineludibili, ovvie, vitali? Che per decenni si sia stati tanto distratti da ignorare un siffatto caposaldo della (sic) identità europea? Come spiegare a chi si risvegliasse oggi da un coma che s'ha da discutere di portaerei, mortai e mortaretti per non essere ingenui e sfascisti? Francamente, boh. Di guerra non so nulla, se non ciò che mi ha riferito uno che l'ha fatta e di cui mi fido. Ma ne sapessi di più sarebbe persino peggio perché farei come chi abbocca alla lenza. Che si sa, ha un verme per ciascun pesce e un amo per ciascun verme.
Eppure qualcosa da dire ce l'ha questo spericolato coup de maître di chi regge il telecomando dell'opinione telecomandata. In primis, appunto, la reattività di detta opinione, schermo spaventosamente vuoto e prono allo zapping. E poi c'è una svolta di metodo. Fino a ieri si evocavano a turno (insieme non si può, ché il palcoscenico dell'attenzione è stretto) nemici tutto sommato atavici contro cui lottare: attentatori, sabotatori, microbi, untori, disastri naturali, rovine economiche, malvagi passati e presenti. Ora si evoca la lotta e basta. Il predicato senza l'oggetto, o meglio con l'oggetto intercambiabile come le punte del trapano. Bisogna armarsi. Contro chi? Ve lo faremo sapere, forse. L'emergenza si astrae e diventa oggetto di sé, sì da non doversi logorare nell'attrito con la realtà. Dalla piattaforma della malattia X, quella che non si sa quale né quando né come sarà ma bisogna nondimeno «sviluppare vaccini, terapie e diagnosi», si è approdati alla guerra X. La chiamano «preparedness», io la chiamo metaemergenza: l'emergenza delle emergenze, l'eccezione normale, l'angoscia fonte del diritto.
Gli esseri umani prevedono il futuro studiando il passato ed è un bene. Ma se scelgono di viverci è diverso, c'è un problema: scelgono di vivere nell'inesistente. Diventa alienazione, delirio, anche virtualizzazione perché non tanto diverso da chi passa più tempo sugli schermi che tra cose e persone. E che a qualcuno faccia comodo comandare elidendo i bisogni presenti, cioè veri, o che qualcun altro ci ingrassi i forzieri nella deroga dei nessi causali, sono sviluppi eventuali che lascio agli eventuali lettori. Qui basterebbe ripetere con un Tale che «sufficit diei malitia sua».
Poi, lo ribadisco, non so davvero nulla di guerra. Ho studiato letteratura e mi ricordo alcuni passaggi di un testo letterario di cent'anni fa che ho recensito qui. Li riporto, casomai si preferisse ciò che è già stato sotto il sole alle X di ciò che forse, ce lo diranno, sarà:
La nostra amicizia durava così da una mezza dozzina d'anni... quando di colpo suonò su l'Europa la campana a stormo della guerra.
- Il tocchesana! – esclamò Donato correndomi incontro...
- E ora che si fa? – io dissi.
- Che si fa? S'aspetta; poi quando l'Italia entrerà anche lei nella partita, che spero non ci vorrà negare questo favore, prenderemo il nostro posto.
- E se ci mandano a batterci contro la Francia?
- Ed allora io non accetto! – fe' Donato piantandosi le mani sui fianchi. – Vorrò un po' vedere se sapranno obbligarmi a sparare contro la patria di Cezanne e di Laforgue!
... io non avevo ragioni d'odio particolari contro la Germania né potevo scordarmi Goethe e Schumann, ma ne avevo sentito dire tal roba da chiodi in casa di mio padre... Più che tutto, insomma, confidavo che fosse quella un'occasione per l'Italia di provar le sue forze, farsi udire, diventar grande e rispettata, e che questo, in qualunque modo lo si fosse ottenuto, era bene...
Anche Donato s'era fatto più calmo. A volte, nel suo studio si ragionava di questa sorte dell'Italia.
- Te lo voglio dire in confidenza, – mi diceva un giorno, – questa guerra non tanto mi piace perché ci darà Trento e Trieste e ci lascerà respirare più largo, ma per il vantaggio che verrà all'Italia, quando l'avrà combattuta e vinta, di trovarsi mescolata nel grande organismo europeo... se questo è il principio d'una europeizzazione d'Italia, ben venga...
- Il male si è, – soggiunsi dopo una breve pausa, – che chi regge l'Italia è ancora il popolo... in Italia, purtroppo, è ancora il popolo che governa, che imprime i moti alla nazione. Gl'intellettuali, poveretti, quelli che dovrebbero fornire i principi direttivi... appena il popolo fa la voce grossa scappano a rincantucciarsi nelle biblioteche... Ora tu vedi, Donato, ci sarà possibile con questa guerra arrivare ad europeizzare la classe dei dirigenti e la borghesia, ma il popolo! Non vedo come arriveremo a cavar vino europeo da questa botte nostrana.
- Non disperiamo, tuttavia. I tempi ci possono riserbare di gran sorprese... Alla peggio, apriremo dopo guerra una scuola popolare di sapienza internazionale.
- Non disperiamo.
Naturalmente, questa volta è diverso.
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