Il mio articolo Della magica poiesi è stato pubblicato nel volume Nel Regno della Quantità, ed. Il Leone Verde, Torino (2024).
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Fughe nel Nord


È una fortuna che non si sappia quanto è bella la Finlandia: i suoi tramonti limpidi che si trascinano fino all'alba, i laghi che riflettono il cielo, le piste che tagliano la foresta, l'erica, il mirtillo, il rosmarino di palude, le cattedrali di legno, i toponimi impronunciabili, l'orlo del mondo che si sfilaccia nel legno, nell'acqua e nel silenzio. È una fortuna che non lo si sappia, perché il più bello è proprio la sua solitudine e il lusso di stendersi nell'assenza. Un lusso che a molti parrà un castigo: e anche questa è una fortuna. Per conoscere la Finlandia bisognerebbe andarci. In estate apre un ex aeroporto militare sul lato finnico della Carelia da cui partono solo voli per Bergamo. Due alla settimana, poi sbaracca e chiude fino al disgelo. Il compound ospita un museo aeronautico di cui non ho trovato le insegne e anche un ristorante, che però chiude alle 10. Di mattina. Comunque sia, non andateci. Anche perché c'è un modo migliore di conoscerla e specialmente di conoscere la sua umanità ipogea: leggere Arto Paasilinna.

Benché sia forse il più tradotto e venduto tra i suoi connazionali, Paasilinna non sarà ricordato come uno sperimentatore, un engagé, un metafisico o un esteta sublime. Ma non va letto per questo. Le sue fiabe moderne offrono il ritratto di una terra con la lègeresse di certi modelli anglofoni (Jerome, Twain) e l'invenzione carnevalesca dei fablieaux medioevali. Le sue impressioni, anche le più macabre e dolorose, decantano nell'inchiostro e si liberano in intrecci surreali o almeno improbabili che, se messi in fila nei ben trentasei romanzi pubblicati dal 1972 alla morte (2018), formano un catalogo vario e minuto dei caratteri, dei costumi e della geografia della Finlandia contemporanea. E non solo.

Paasilinna non era un intellettuale. Proveniva da una famiglia modesta di Kittilä, una «città» lappone grande come l'Umbria in cui vivono più o meno gli stessi abitanti di Simeri Crichi (CZ). In quel cratere lunare, dove mentre scrivo la stazione meteo segna meno venticinque, aveva incominciato presto a lavorare come guardiaboschi e poi come cronista. Fece carriera nelle redazioni nazionali dove imparò a padroneggiare la scrittura, a conoscere il mondo e a raccontarlo intrattenendo i lettori. Poco più che trentenne conquistò la fama con il terzo romanzo, L'anno della lepre (1975), che un paio di anni dopo avrebbe anche ispirato un film di Risto Jarva (Jäniksen vuosi, 1977). Nella versione cinematografica la trama ha però subito pesanti tagli e, a mio avviso, anche il messaggio è stato tradito, avendo il regista forzato una lettura anarco-ecologistica che non rende giustizia alla complessità dello scrittore. Si tratta comunque di una visione consigliata almeno per farsi un'idea di quell'estetica crepuscolare che proprio il narratore lappone ebbe il genio di riformare.

L'anno della lepre è la storia di una «fuga nel bosco». Vatanen, il protagonista, è un pubblicitario frustrato di Helsinki che dopo un piccolo incidente automobilistico decide di lasciare il lavoro, la città e la moglie per darsi a vivere nella natura in compagnia di una lepre ammaestrata. Vagando nella sterminata periferia verde del Paese si imbatte in personaggi squinternati e situazioni grottesche, inciampando continuamente e suo malgrado nelle maglie ostili della civilizzazione. Approda infine in una landa sperduta della Lapponia dove si mantiene lavorando per un consorzio di allevatori di renne, ma anche lì è incredibilmente raggiunto da una delegazione di diplomatici internazionali in gita che, dopo avere rischiato di essere sbranati da un'orso e arsi in un incendio, finiranno nudi con lui su un elicottero militare diretto all'ospedale di Helsinki. Ritornato al nord dopo altre peripezie, si lancia all'inseguimento dell'orso che ha invaso la sua capanna. La marcia nell'inverno artico, epicamente descritta, durerà giorni e lo porterà a sconfinare inavvertitamente in Russia, dove finalmente ucciderà l'animale sulla superficie ghiacciata del Mar Bianco. Arrestato a piede libero dai sovietici, sarà raggiunto a Leningrado da una richiesta di estradizione del suo Paese, le cui autorità inverosimilmente occhiute hanno nel frattempo compilato un fascicolo con tutte le infrazioni amministrative, civili e penali accumulate durante i suoi vagabondaggi. Finirà in carcere, sarà assistito da una giovane amante, ricatterà il presidente della Repubblica e farà molte altre cose che, effettivamente, nessun film potrebbe riprodurre per intero.

Benché privo degli elementi fantastici che caratterizzeranno altre opere, il romanzo contiene già tutto il sistema estetico-morale dell'autore. Perché Paasilinna è, in effetti, uno scrittore che non evolve. La costanza del suo marchio di fabbrica rassicura i lettori (e gli editori) e il suo affresco si arricchisce solo degli inesauribili dettagli che il qui e ora offre alla curiosità di un giornalista in cerca di storie. Ma ciò non significa che sia stato un mestierante. Sotto il disincanto bonario del suo narrare pulsa l'angoscia di esistere in un mondo diventato troppo grande e complesso per gli uomini. Sul suo umorismo incombe l'ombra di una macchina produttiva e sociale in cui l'individuo è impotente, irrilevante, svuotato. Perciò le sue trame pirotecniche mettono immancabilmente in scena personaggi in fuga che si sono disadattati quel tanto o poco che basta per trovarsi catapultati fuori dalle protezioni della quotidianità e dei ruoli per approdare a mondi più incerti, spesso pericolosi, dove però si dispiega una pienezza di possibilità. Lì trovano identità e forze sopite, realizzano imprese titaniche, escogitano soluzioni inimmaginate, intessono relazioni autentiche e burrascose, scoprono la generosità della natura. Talvolta sono persino assistiti da una mano miracolosa, come quella di un angelo pasticcione (Professione angelo custode, 2004) o dello scalcinato pantheon de Il figlio del dio del tuono (1984).

Quella di Arto è dunque sì, una letteratura d'evasione, ma in senso letterale, perché in ogni sua trama c'è un'evasione e l'evasione è l'espediente della sua recherche, siano esse le piccole evasioni dai doveri coniugali di un Rauno Rämekorpi (Le dieci donne del cavaliere, 2001, che giureremmo ispirate dalle prodezze di un Cavaliere nostrano) o la grande evasione di Vatanen, del pastore Oskari Huuskonen (Il migliore amico dell'orso, 1995), del ladro galantuomo Jutunen (Il bosco delle volpi impiccate, 1983). Sono tanti i fili rossi che legano le variopinte fughe paasilinniane. Innanzitutto, non si tratta di fughe dalla civiltà: Paasilinna è troppo ordinatamente scandinavo per darsi al primitivismo o a palingenesi ecologiche antiumane. Né è tantomeno un ribelle, un anarchico o un rivoluzionario. I suoi eroi, è vero, vengono spesso ai ferri corti con l'ordine costituito, ma solo nella misura in cui quest'ultimo degenera in una mania di controllo e di sopraffazione che contraddice i suoi scopi. Non hanno ambizioni politiche e non vogliono sovvertire alcunché, in certi casi sono anzi dei civilizzatori che fondano comunità in scala più umana dove non esistono burocrazia, corruzione, violenza organizzata, cupidigia, pregiudizi sociali. Questo programma si trovava già nel giovanile Prigionieri del paradiso (1973), un Robinson Crosoe collettivistico dove un equipaggio di cooperanti finlandesi e svedesi precipitato su una spiaggia tropicale dà vita a una microsocietà utopica ed egualitaria. Con pragmatismo nordico i sopravvissuti allestiscono abitazioni efficienti, una filiera alimentare, un'immancabile distilleria, servizi sanitari (e contraccettivi), un rudimentale ma efficace sistema giudiziario. Il loro idillio sarà disturbato solo dalla civiltà esterna: un bombardamento aereo e una flotta americana che verrà a «salvarli».

La stessa idea sarà meglio sviluppata ne L'allegra apocalisse (1992), forse una delle sue opere migliori. Qui il capomastro Eemeli Toropainen, per ottemperare alle ultime volontà di un bislacco e ricco zio comunista, erige una maestosa chiesa di legno nei boschi del Kainuu attorno alla quale si radunerà un piccolo popolo di operai edili, ecologisti stralunati e residenti locali. Dopo aver superato la consueta serie di intralci posti dalla civiltà maiuscola – regolamenti edilizi, rivendicazioni ecclesiastiche, arresti, infiltrazioni mafiose – il gruppo si costituirà come una comunità autarchica felicemente retta da poche figure carismatiche. Nel frattempo il resto del mondo sprodonda in un tragico declino. Allo scoccare del nuovo millennio si innesca una catena di disastri ecologici, disordini sociali, carestie e guerre da cui si salverà solo il «miglior villaggio del mondo» (maailman paras kylä, come recita il titolo originale), resosi ormai indipendente persino dal petrolio. Anche in questo caso l'utopia paasilinniana non scaturisce da una acritica nostalgia dello stato di natura, ma piuttusto dal sogno di ordinare le conquiste materiali e spirituali dell'umanità verso un vivere non più gravato dalle smisurate ambizioni del mondo contemporaneo. La tecnica, sempre ben presente nelle opere dell'autore, diventa anzi poesia. La cronaca quasi computometrica del cantiere ecclesiastico accompagna il miracolo della foresta che si fa villaggio, l'abbraccio possibile tra l'uomo che addomestica la natura e la natura che lo accoglie, lo protegge e lo eleva. Che è poi la stessa impressione di chi attraversasse oggi le terre dello scrittore, di un equilibrio forse unico tra sauvageté e ordine, tra deserto e presenza.

Peculiari sono anche i luoghi di queste fughe. Se nel primo esperimento era una calda isola dell'arcipelago indonesiano, quasi sempre si tratterà poi delle regioni meno abitate della Finlandia e più spesso della Lapponia, terra remota e vergine in cui forse l'autore proiettava l'innocenza della sua infanzia. Ma tutte queste mete hanno un prezzo, una «prova suprema» che ricorre in tutte le trame. Gli eroi più importanti del repertorio paasilinniano devono toccare il fondo della frustrazione per riemergere più lucidi e determinati nella loro missione. Va letta così la disavventura apparentemente gratuita di Vatanen, inseguito dai cani feroci di una combriccola di ricchi annoiati e costretto a piangere per l'umiliazione sulla cima di un albero. O l'allucinante reclusione in manicomio dello stravagante Gunnar Huttunen (Il mugnaio urlante, 1981). O i tre anni ingiustamente scontati da Eemeli in un carcere danese per essersi difeso da un trafficante di organi. Il rito del descensus ad inferos diventa addirittura letterale nel caso dell'agente Jalmari Jyllänketo (La fattoria dei malfattori, 1998), intrappolato per mesi nel girone più profondo di una prigione sotterranea, all'insaputa dei suoi cari e tra i peggiori criminali del pianeta. Per quanto catalogato tra gli autori umoristici e «leggeri», Paasilinna non esita a scandagliare il male con la spietatezza del cronista. I ritratti così frequenti di assassini, psicopatici, piromani, narcisisti, delatori, prepotenti e altre canaglie alimentano la sua critica sociale e precludono le sue catarsi alle anime candide. Nei suoi racconti non si fugge per paura o per disimpegno, non per risparmiarsi ma per attraversare il mondo e riemergere dall'altro capo con una consapevolezza morale e di sé maturata nella sconfitta.

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Intrattenitore e divulgatore, Arto Paasilinna è stato anche l'interprete di un'epoca. Dalla sua voce narrante partecipe, paterna e mai imparziale è facile indovinare le sue simpatie socialiste e il suo ascriversi a quella cultura laica e libertina di cui i popoli del nord sono considerati l'avanguardia. In controtendenza rispetto ai suoi connazionali, apprezzava i russi e diffidava degli americani. La Russia paasilinniana è un backyard esotico ma familiare, il popolo russo un «gemello diverso» affratellato ai finlandesi dal carattere e dagli usi della comune patria artica ma diviso da destini politici opposti. Non per questo fu però mai filosovietico. Il suo rifiuto dei totalitarismi di ogni colore è articolato ne Il liberatore dei popoli oppressi (1986), romanzetto avvincente ma un un po' stereotipato, come capita al nostro quando si avventura al di fuori dei confini patrii. Quel rifiuto sarebbe comunque già implicito nello stampo libertario e anticonformista dei suoi eroi e nel loro puntuale collidere contro ogni forma di costrizione sociale. La stella polare di Paasilinna è l'individuo, non la polis. Nei suoi racconti ciò che muove le masse porta sempre oppressione e disgrazia: le guerre, specialmente quella fratricida del 1918, i cui spettri ritornano di continuo; il conservatorismo astioso e bigotto della provincia come quello contro cui lotta l'ingenger Jaatinen, il simmetrico rosso del nostro Don Camillo, in Un uomo felice (1976); la civiltà urbana che dà ricetto alla teppa parassitaria e violenta de I veleni della dolce Linnea (2003); la burocrazia che soffoca le più innocenti aspirazioni di libertà.

La visione storica e politica dello scrittore emerge in modo più strutturato nell'unico romanzo «serio» del suo repertorio, Sangue caldo e nervi d'acciaio (2006), una saga famigliare novecentesca. Giunto al culmine della notorietà e della maturità artistica, Paasilinna si misura con un genere dai precedenti venerabili per ripercorrere ordinatamente, attraverso le vicissitudini della famiglia Kokkoluoto, i capitoli più significativi della storia e dell'identità del suo Paese. Sul piano narrativo la prova è riuscita. Il racconto coinvolge e tiene magistralmente in equilibrio pubblico e privato, politica e sentimento, aneddoti, paesaggi, sapori. Tuttavia l'ansia didascalica dello scrittore – o forse più semplicemente il suo istinto – sproblematizza l'orizzonte antropologico e lo appiattisce in un accostamento di tinte unite che può sì funzionare nel dispositivo perfetto della parabola ma non in quello, necessariamente più sofferto e sfumato, del realismo storico. Siamo lontanissimi dalle intricate costellazioni dei Buddenbrook, dai tormenti dei Karamazov, dalle cadute dei Rougon-Macquart o, per restare sulle stesse latitudini, dall'incompiuta tragicità di un Eemil Sillanpää. Qui il copione gira come un carillon e Paasilinna, da narratore fin troppo affezionato ai suoi personaggi, finisce per trasformare questo pur delizioso omaggio al suo popolo in un manifesto agiografico del kalòs kai agathòs finnico secondo i suoi canoni. Tuomas e il figlio Antti, eroi senza macchia e senza sconfitta, assommano tutto ciò che gli è caro: bottegai ma impavidi e anticonformisti, socialisti ma abilissimi negli affari, nemici dei nazionalisti «bianchi» ma eroi di guerra, patriarchi felicemente accoppiati con donne sagge e avvenenti ma libertini all'occasione, cittadini modello ma contrabbandieri di alcol, campioni sportivi, filantropi, riformatori.

In questi ritratti si possono retrospettivamente leggere le metriche valoriali di un'età solo cronologicamente vicina che è appunto quella dello scrittore, di un «boom» materialistico, disinibito e ottimista le cui promesse sono messe oggi in crisi dai venti di guerra, dagli incerti economici e dalla contrazione delle socialdemocrazie europee. Non è qui che va cercato il tesoro di Arto Paasilinna. Il suo messaggio da preservare, ribadito e declinato in tutti i colori che la sua invenzione vulcanica gli ha dettato, è piuttosto quello del primato dell'individuo su ogni costrutto sociale, sia esso ragion di Stato, ideologia, consuetudine o moda. È la simpatia che ispirano i suoi fuggiaschi mentre si destreggiano tra gli ingranaggi taglienti di un'umanità senz'anima e senza fantasia, la loro solitudine coraggiosa, la loro ricerca di una vocazione che non può coincidere con le maschere del «sistema». Allora questo messaggio era attuale, oggi è necessario. Dalle periferie estreme del continente, in un vuoto dove tutto diventa immaginabile, il cantastorie lappone ci invita ancora all'opt out, a non temere di abbandonare la nave calda del mondo o almeno a non prenderla troppo sul serio, perché pronta in ogni momento a trascinarci sul fondo.


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