È già stato osservato che in Italia i femminicidi, cioè gli omicidi di donne commessi da un partner o ex partner, sono fortunatamente rari rispetto ad altri paesi, come del resto tutti gli omicidi. Nella nostra penisola si uccide poco: nel 2021 l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC) ci collocava al novantacinquesimo posto su centonove per tasso di omicidi intenzionali (meglio di noi in Europa solo Svizzera, Repubblica Ceca, Irlanda, Slovenia e Malta). Purtroppo, come accade anche in altri paesi caratterizzati da una bassa densità di crimine violento, una parte considerevole degli omicidi avviene nell'ambito della famiglia e degli affetti. Come si legge nell’ultimo “Focus sulle regiorni” del Dipartimento della Pubblica sicurezza, si tratta di ben quasi la metà (439) dei 914 omicidi volontari commessi in Italia negli ultimi tre anni (2020-2022). Di questi, circa la metà (220) sarebbero stati commessi da partner o ex partner e, nel 90% dei casi (199), la vittima era di sesso femminile. Per quanto esigui, questi numeri nascondono tragedie che devono essere indagate e comprese.
Tra i principali determinanti di questo fenomeno si indica in questi giorni la «cultura patriarcale» che caratterizzerebbe il nostro Paese. Per quanto la si affermi a gran voce, questa interpretazione è problematica innanzitutto nel metodo, in quanto assume un criterio certo valido nell'ambito degli studi storici e antropologici, ma difficilmente applicabile ai moventi di un reato. Non esiste a mia notizia un «test di patriarcato» da cui si possa evincere una tendenza omicidiaria, né una più fattibile indagine standardizzata sul grado di adesione alle idee patriarcali degli autori dei delitti. Inoltre, l’esiguità del campione analizzabile – una sessantina di omicidi all’anno, su decine di milioni di individui – non consente di elaborare proiezioni significative che valgano per l’intera società, ma casomai di approfondire singoli casi di devianza.
Bisognerebbe poi intendersi sul significato di patriarcato. Se per tutti indica un tipo di organizzazione in cui gli individui di sesso maschile esercitano un potere superiore in determinati ambiti della società, cambiano invece i giudizi. Chi lo interpreta negativamente non si accontenta del fatto che le sue forme de iure siano ormai quasi ovunque estinte e ritiene che si debba ora lottare contro un patriarcato de facto forzando la società ad affidare alle donne gli stessi ruoli consuetudinariamente riservati agli uomini. Altri invece attribuiscono all’indole maschile una maggiore attitudine all’autorità e affermano che in una società davvero patriarcale le donne sarebbero più rispettate e protette, perché tutelate dal coniuge e dai maschi della famiglia. Altri ancora argomentano che una chiara distinzione dei ruoli ridurrebbe la competizione tra i sessi, e quindi il conflitto e la violenza. Anche senza prendere posizione in questo dibattito ci si può interrogare sul suo metodo, osservando ad esempio che un’opportunità – come le pari opportunità – non è più tale se diventa un obbligo. O che le consuetudini sono fonti del diritto, non necessariamente vizi da estirpare. O ancora, che la pretesa orizzontalizzazione dei sessi sottende una forse più grave verticalizzione dei ruoli di sapore materialistico: la credenza ad esempio che dirigere un’azienda sia più dignitoso di crescere un figlio, che produrre sia meglio di accudire e comandare più utile di ubbidire, che il potere sia un premio e non una responsabilità e che denaro e carriera misurino il successo di un’esistenza.
Ma giacché queste sono opinioni, torniamo ai numeri. Uno degli indici più noti e diffusi per misurare il patriarcalismo delle nazioni è il Gender Inequality Index (GII) elaborato dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). Il GII somma diversi parametri tra cui il grado di istruzione secondaria delle donne e la loro partecipazione al mercato del lavoro e alle istituzioni di governo. Tra i venticinque paesi europei censiti nell’ultima elaborazione (2021) si registrano forti differenze, dalla Svizzera con il quoziente di disuguaglianza più basso (GII 0,018) alla Romania che la supera di ben quindici volte (GII 0,282). Accostando questi numeri ai tassi annui nazionali medi di omicidi di donne commessi da partner o ex partner registrati da Eurostat (2015-2021 secondo la disponibilità dei dati), si può testare in prima approssimazione la solidità del nesso tra patriarcato e femminicidi. Ebbene, nonostante l’ampia variabilità del campione, la correlazione evidenziata è meno che insignificante (r2 = 2%). Qualche esempio: la Slovacchia, ultima per femminicidi, è terza per discriminazione; la Lituania, seconda per femminicidi, è in media per discriminazione; Svizzera e Svezia discriminano meno di tutti ma sono in media coi femminicidi; la Finlandia è tra i primi per pari opportunità ma terza per femminicidi; Grecia, Macedonia del Nord e Ungheria discriminano più della media ma sono tra gli ultimi per femminicidi. Eccetera.
Fonti: Gender Inequality Index (2021), United Nations Development Programme; Intentional homicide victims by victim-offender relationship and sex - number and rate for the relevant sex group, Eurostat (Intimate partner, Female, Per hundred thousand inhabitants, media 2015-2021 secondo disponibilità dei dati).
Una seconda prova si ottiene confrontando i risultati degli ultimi sondaggi European Values Study (EVS), i quali hanno il pregio di misurare le opinioni dei cittadini indipendentemente dai provvedimenti adottati dai loro governi, avvicinandosi così meglio a inquadrare la cultura diffusa. Le domande rilevanti sono quelle relative al ruolo della donna nella famiglia e nella società (Card 25, Q. v72-v78), espresse come giudizi positivamente associati a un’attitudine patriarcale. La percentuale media di adesione alle proposizioni esprime il grado di cultura patriarcale dei rispondenti. Assumendo il campione ristretto del censimento Eurostat sugli omicidi, si evidenzia anche in questo caso un’ampia variabilità dei risultati, dal minimo della Svezia (9,50%) al massimo della Lituania (49,07%) e, anche in questo caso, non emerge alcuna correlazione significativa con il tasso medio dei femminicidi (r2 ~ 5%). Si osservi il caso dell’Italia, caratterizzata da una cultura patriarcale superiore alla media (37,95%) che stride con il suo basso indice GII (indizio di una frattura tra le agende governative e il sentimento prevalente), senza che ciò implichi una prevalenza dei femminicidi, comunque al di sotto della media europea.
Fonti: European Values Study (EVS), v-72-v78 (Child suffers when mother works; What woman wants most is home and children; Family suffers when woman has full-time job; A man should earn money and a woman should look after home and children; Men make better political leaders than women; University education is more important for boys than girls; Men make better business executives than women; When jobs are scarce: priority to men over women); Intentional homicide victims by victim-offender relationship and sex - number and rate for the relevant sex group, Eurostat (Intimate partner, Female, Per hundred thousand inhabitants, media 2015-2021 secondo disponibilità dei dati).
Il discorso del patriarcato appare insomma poco applicabile, nel
metodo e nel merito, al fenomeno dei femminicidi. Forzare questa
interpretazione fino a farne un programma politico d'emergenza
produce dunque non solo l’effetto di squalificare le pur legittime istanze
di cambiamento di chi la sostiene, ma specialmente quello più grave di distrarre
l’attenzione dalle vere cause di questi fatti tragici e
ripugnanti che, tanti o pochi che siano, devono essere prevenuti. Casomai lo si voglia davvero.
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