I contenuti di questo articolo sono tratti dal blog Edward Slavsquat, che invito i lettori a leggere e a sostenere con una sottoscrizione, se interessati.
In questi giorni molti nostri connazionali si sforzano di spiegare ai loro interlocutori stranieri che no, dopo le ultime elezioni non è tornato il «fascismo» in Italia. E neanche sta per insediarsi, con ogni evidenza, un governo «disobbediente» che darà filo da torcere ai poteri atlantici e sovranazionali mettendosi a capo di una qualche controrivoluzione mondiale. Giudizi così iperbolici e semplificati non colpiscono solo il nostro Paese. La Russia di Vladimir Putin, complici l’informazione e la controinformazione martellanti degli ultimi mesi, è forse il Paese che più di tutti ha eccitato in chi non ci vive un’immaginario estremo degno di una titanomachia antica: ora è demone, ora redentore; ora minaccia per la coesistenza pacifica dell’umanità, ora ultimo trattenitore dei progetti di un’elite malvagia. È difficile per chi segue dall’esterno cogliere nel chiasso delle opposte tifoserie una voce ponderata e documentata.
Tra queste voci, una delle più originali è quella di Riley Waggaman, in arte Edward Slavsquat, che da un paio d'anni si dedica a ridimensionare il mito buono o cattivo, secondo i punti di vista, di un Cremlino schiettamente avverso all’Occidente e alle sue agenzie globali, riportandolo nei termini della più sfumata realtà. Nato in California e cresciuto in Massachusetts, Waggaman incomincia a scrivere come commentatore politico per Huffington Post e Wonkette. Nel 2013 si trasferisce in un sobborgo di Mosca e lì lavora per Russia Insider, l’iraniana Press TV e soprattutto Russia Today (RT), il network televisivo in lingua inglese controllato dal Cremlino oggi oscurato in molti Paesi, di cui diventa senior editor. Sempre più deluso dalla linea editoriale dei nuovi committenti, dopo alcuni anni si dimette, apre il blog Edward Slavsquat e collabora come opinionista e autore ai portali di informazione alternativa Off-Guardian, Anti-Empire e altri. Vive tuttora a Mosca con la moglie e un figlio, entrambi di cittadinanza russa.
La tesi di Waggaman, sostenuta da fitti rimandi alla stampa locale e a documenti ufficiali, è che ad oggi il governo russo non avrebbe i requisiti per definirsi ostile o anche semplicemente estraneo al «Grande Reset», il progetto di rinnovamento socioeconomico teorizzato dai tecnici del World Economic Forum e simultaneamente abbracciato nei suoi principi da quasi tutti i governi del mondo. Né si sia sempre preoccupato di difendere in casa propria quella libertà dai diktat dei decisori globali tante volte invocata nei trascinanti discorsi pubblici del suo presidente. Che, come minimo, certi poteri che incombono sul mondo contemporaneo non si lascino così nettamente imbottigliare dai confini amministrativi e dagli schieramenti ufficiali. Per giungere a questa conclusione il blogger adotta un criterio che tutti gli analisti dovrebbero fare proprio, di non concentrarsi cioè sulle divergenze e i conflitti tra i contendenti, già fin troppo esasperati dai rispettivi organi di stampa, ma piuttosto su ciò che li accomuna. La prima di una serie di stonature che lo ha colpito è stata la sostanziale indistinguibilità delle politiche russe e occidentali nella controversa gestione dell’epidemia di Covid-19. Considerate da molti come fatti tecnici privi di rilevanza politica, le contromisure adottate per arginare la nuova malattia hanno in realtà sortito un impatto senza precedenti sulla struttura giuridica e sociale delle comunità introducendo limitazioni ai diritti più elementari, sistemi elettronici di premialità e sorveglianza di massa e la sinistra novità di una «scienza di Stato». La sincronia e la ripetitività di questi provvedimenti nei più diversi luoghi e contesti del pianeta ha rappresentato a ogni effetto il tentativo sinora più riuscito di imporre un prodromico governo globale.
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Slavsquat demolisce senza pietà (e non senza un certo piacere) le aspettative di chi si immaginasse una Russia scettica e defilata nelle fasi più estreme di questo esperimento recente. «I media alternativi hanno creato una realtà alternativa sulla Russia», scrive, ma in realtà «il Cremlino ha adottato le stesse misure traumatizzanti di “salute pubblica” che stanno terrorizzando i Paesi occidentali». Le cronache del blog restituiscono in effetti una dettagliata fotocopia in cirillico di tutto ciò che abbiamo vissuto nel nostro Paese e altrove. Raccontano una storia dove cambiano gli attori, ma non i personaggi e le trame.
Durante la prima ondata della malattia anche il governo russo sarebbe diventato un «discepolo zelante del Culto Ermetico della Capacità Ospedaliera, la nuova religione esoterica che ha conquistato il mondo» in cui «il significato della vita è quello di preservare i letti d’ospedale». Allora e in seguito gli ammalati furono isolati nelle «zone rosse» dei nosocomi nazionali dove alcuni di loro, secondo quanto riportato dai parenti e dalla stampa locale, sarebbero stati maltrattati o lasciati morire nell’incuria. «In Russia», spiega il blogger, è consuetudine che i parenti portino bende e altri beni necessari ai famigliari ricoverati. Quindi che cosa può accadere quando non si può più fare visita ai propri cari che non possono badare a sé stessi? Sembra che qui abbiamo la risposta». Nella gestione ospedaliera dell’epidemia non ha nemmeno aiutato il fatto che nel quinquennio precedente il numero dei giovani medici sarebbe «diminuito del 64%: da 687 a 265 mila». Mentre i rappresentanti della categoria e alcuni politici puntano il dito contro i continui tagli al servizio sanitario, Waggaman fa notare che paradossalmente i fondi destinati alla sanità sono invece raddoppiati tra il 2019 e il 2020 e si chiede: «dove è andato a finire questo denaro? Non siamo sicuri di volerlo sapere [you don’t want to know]».
Come ha documentato l’agenzia Nakanune, nel 2020 (l’anno dell’emergenza) e più ancora nel 2021 (l’anno delle vaccinazioni) l’eccesso di mortalità in Russia ha raggiunto livelli inauditi. Nello stesso periodo più di un quarto dei russi nati prima della seconda guerra mondiale è scomparso facendo precipitare una crisi demografica già in corso. Sempre secondo gli analisti interpellati da Nakanune, siccome solo una piccola parte di questi decessi è direttamente correlabile alla nuova malattia, molti di essi sarebbero da attribuire al fatto che durante l’emergenza «le ospedalizzazioni dei pazienti non-Covid sono state rimandate con il pretesto di un aumento dell’incidenza del Covid» ottenendo come risultato di «lasciare senza assistenza medica programmata coloro che ne avevano davvero bisogno». Più in generale, si sarebbe avverato ciò che l’epidemiologo Igor Gundarov denunciava da tempo, che cioè la gestione terroristica e politicizzata dell’emergenza avrebbe reclamato un tributo abnorme di vite: «ictus, infarti, diabete, tumori... stress terribile, panico, isolamento, disperazione: tutto ciò influisce sulle riserve di salute e sulla mortalità.... La sanità è nel caos più totale. Gli scienziati sono stati messi da parte, i politici governano su tutto, non ci sono dati affidabili sulla cui base sarebbe possibile prendere decisioni giuste».
Nell’agosto 2021 il Ministero russo della Salute depositava il brevetto dello Sputnik V, il primo vaccino al mondo contro il nuovo Coronavirus. Waggaman dedica molte pagine a questo farmaco e alle sue implicazioni sanitarie, politiche, diplomatiche e industriali. Sviluppato a tempo di record nei laboratori del centro di ricerca statale Gamaleya, lo Sputnik V è stato salutato da molti come il prodotto «anti-imperialista» e «sovrano» par excellence da contrapporre agli intrugli della Big Pharma «globalista». Nella realtà, spiega e documenta il blogger, sono innumerevoli i fili che collegano l’impresa russa alla concorrenza occidentale. Innanzitutto ad Astrazeneca, produttrice di un vaccino la cui tecnologia adenovirale è stata definita dallo stesso direttore di Gamaleya, Aleksader Ginzburg, «molto simile» a quella della sua invenzione. Il colosso farmaceutico russo R-Pharm, che dal giugno 2020 ha fornito supporto al governo russo per lo sviluppo e la messa in produzione dello Sputnik V, è lo stesso che un mese dopo avrebbe stretto un accordo con Astrazeneca per la produzione e l’esportazione del futuro vaccino anglosvedese, sicché da più di un anno l’azienda fabbrica e commercializza entrambi i vaccini nei suoi stabilimenti russi. Nel dicembre dello stesso anno Astrazeneca e Gamaleya siglavano un memorandum di collaborazione per testare la possibilità di combinare il vaccino russo con quello britannico. L’accordo fu salutato da Vladimir Putin come «un esempio convincente di integrazione di forze scientifiche, tecnologie e investimenti in vista di un obiettivo comune». Ancora un anno dopo, alla vigilia dell’operazione in Ucraina, l’ex presidente e oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza Medvedev deplorava il «nazionalismo vaccinale» in un lungo documento che è una summa theologica di tutto il credo covidista e vaccinista globale.
Nel corso del 2021 il fondo di investimento sovrano RDIF (Russian Direct Investment Fund) da cui dipende finanziariamente l’istituto Gamaleya ha promosso studi congiunti anche con Pfizer e Moderna per indagare l’efficacia della somministrazione combinata dei rispettivi prodotti con lo Sputnik V. L’amministratore delegato di RDIF Kirill Dmitriev, già borsista della Fondazione Soros a Harvard, già Young Global Leader del World Economic Forum e già banchiere in McKinsey e Goldman Sachs, non aveva dubbi: «si tratterà di una combinazione molto ben riuscita». Per chiudere il cerchio, è di pochi giorni fa la notizia che l’istituto Gamaleya svilupperà un proprio vaccino a mRNA made in Russia. Dopo avere lodato l’efficacia dei prodotti di Pfizer e Moderna, il vicedirettore dell’istituto ha spiegato ai giornalisti della TASS che «i vaccini con tecnologia a RNA messaggero hanno un vantaggio molto importante: di poter essere somministrati una volta al mese».
Anche in Russia, come nel resto del mondo, l’efficacia delle vaccinazioni contro il Covid è un dogma. Anche in Russia, come altrove, i medici che non aderiscono al dogma rischiano sanzioni e punizioni esemplari . E anche in Russia il dogma si può aggiustare alla bisogna:
Il governo russo – scrive Waggaman – continua a sostenere che lo Sputnik V è altamente efficace nel prevenire i casi gravi della malattia. Nell’aprile 2021 Ginzburg diceva che avrebbe conferito un’immunità senza limiti. Un mese dopo ha corretto il tiro spiegando che la protezione sarebbe durata due anni. In giugno ha annunciato che i russi avrebbero avuto bisogno di un booster sei mesi dopo la vaccinazione. Infine, il 19 dicembre raccomandava di rivaccinarsi un numero «infinito» di volte ogni sei mesi.
Per nulla scoraggiato dal fatto che anche le persone vaccinate contraevano il Covid in forma grave, in ottobre ribaltava l’accusa sulle vittime dichiarandosi certo che almeno l’ottanta per cento di loro si fosse procurato un certificato di vaccinazione fasullo. Nella stessa occasione rivelava ai giornalisti che lo status vaccinale delle persone poteva essere verificato grazie a non meglio specificati «marker farmaceutici» inclusi nel preparato.
Aleksander Ginzburg, il Fauci delle steppe, non è che l’esponente più illustre di un pantehon di virostar che spopolano anche nei palinsesti russi. Un po’ scienziato, un po’ imprenditore e un po’ riformatore sociale, ha sostenuto tutte le proposte più drastiche per castigare i nemici delle sacre fiale, dalla radiazione dei medici dubbiosi alla segregazione sociale dei renitenti mediante un passaporto elettronico che «delimiti rigidamente le opportunità di interazione tra vaccinati e non vaccinati». Dopo una vita spesa nei laboratori di Gamaleya, il cui «padiglione vaccini» è descritto dal blogger come una topaia squallida e pericolante («a condemned rape dungeon») e i cui tentativi passati di fare approvare all’estero un proprio vaccino sarebbero finiti nel nulla o peggio, ha trovato gloria e ricchezza dopo l'immissione in commercio della sua ultima creatura. Nel novembre dell’anno scorso Putin gli ha appuntato la croce dell’Ordine di Aleksandr Nevskij e negli stessi giorni il Congresso russo ebraico lo ha insignito dell’onorificenza Global Influence Award perché «come Mosè, ci aiutati a uscire dalla quarantena e a tornare liberi».
Anche il percorso di approvazione del vaccino russo è stato segnato da numerose forzature concesse o condonate sotto il pungolo dell’emergenza. Ma anche in Russia ciò non inficia il secondo dogma: quello della sua sicurezza. Lo stesso Putin ha garantito che «i servizi sanitari non hanno registrato un singolo esito letale in seguito all’utilizzo di questo farmaco». Il che, concede Waggaman, è tecnicamente vero perché a differenza di Stati Uniti, Italia e altri Paesi, la Russia non ha una piattaforma di segnalazione degli eventi avversi e quindi... non li registra. L’osservazione del fenomeno resta affidata a canali informali dove medici e cittadini raccolgono testimonianze di malesseri, invalidità e decessi sospetti. Ma siccome per il ministro della Salute la pubblicazione di questi dati è «inappropriata» e «può provocare un atteggiamento negativo nei confronti della vaccinazione», il gennaio scorso le autorità hanno oscurato uno di questi canali, il sito Стоп Вакцизм («fermate il vaccinismo», comunque consultabile sul dominio di backup stopvaczism.org). Dati più ufficiali sulla sicurezza dello Sputnik V sono pubblicati dalle autorità sanitarie di alcuni Paesi che lo hanno adottato, come ad esempio quella argentina, nella cui ultima informativa di vigilanza sulla sicurezza dei vaccini (giugno 2022) il prodotto russo risulta essere quello di gran lunga caratterizzato da una maggiore incidenza di «eventi presumibilmente attribuibili alla vaccinazione».
Waggaman è particolarmente esasperato dal «negazionismo» di chi in Occidente ritiene che in Russia la vaccinazione anti-Covid non sia mai stata obbligatoria o che, comunque, lo sia stata solo in teoria. Nella realtà, durante lo scorso autunno e inverno la federazione asiatica ha adottato le stesse ricette «persuasive» a base di ricatto lavorativo, segregazione e lasciapassare digitali già praticate in Italia e altrove. Pur scontando l’iniziale e poi più ondivaga contrarietà del Cremlino, la regione di Mosca apriva le danze dell’obbligo già all’inizio dell’estate 2021 con una legge che imponeva a una lunga serie di categorie lavorative «a rischio» (commercio, ristorazione, istruzione, sanità, trasporti, spettacolo, uffici pubblici ecc.) di raggiungere una copertura vaccinale del 60% (poi portata all’80%) per azienda. Negli stessi giorni il ministro del lavoro Anton Kotyakov autorizzava i datori di lavoro a sospendere i dipendenti non vaccinati per tutta la durata dell’obbligo. Di lì a qualche mese tutti gli oblast della Federazione e persino le repubbliche di Donetsk e Luhansk avrebbero seguito l’esempio moscovita e introdotto obblighi analoghi o più stringenti, in molti casi avvalendosi di un «QR code» del tutto identico al nostro green pass sia negli usi (posto di lavoro, università, luoghi pubblici ecc.) sia nei modi per ottenerlo (vaccinazione, guarigione entro sei mesi, PCR entro settantadue ore).
A livello federale, in giugno il Ministero della Difesa aveva già reso obbligatoria la profilassi per il proprio personale e i coscritti, quello della Salute lavorava per introdurre la vaccinazione anti-Covid tra quelle obbligatorie previste dal piano nazionale di immunizzazione e il Parlamento discuteva l’approvazione di un testo unico nazionale sul QR code. Una legge che, per la forte avversione di quasi tutti i cittadini russi e anche di molti deputati, non avrebbe mai visto la luce e il cui disegno sarebbe stato ritirato nel gennaio di quest’anno. Forse, ipotizza Waggaman, per far ricadere la sua impopolarità sulle regioni che l’avevano già implementata a livello locale e riservare al governo la successiva integrazione delle piattaforme con un più semplice intervento tecnico. All’inizio dell’operazione ucraina anche in Russia, come più o meno ovunque nello stesso periodo, le restrizioni, gli obblighi e i lasciapassare digitali sono stati revocati quasi del tutto lasciando aperto lo stesso interrogativo valido ovunque circa la possibilità, i tempi e le forme del loro ritorno. L’ultimo colpo di coda segnalato sul blog è stata la notizia che tutti i cittadini richiamati alle armi per la «grande mobilitazione» in Ucraina avrebbero dovuto essere obbligatoriamente vaccinati contro il Coronavirus. Successivamente il Ministero della Difesa ha tuttavia chiarito che «sulla base della situazione epidemiologica attuale» l’immunizzazione contro il Covid non è tra quelle richieste ai cittadini mobilizzati.
Non manca proprio nulla nel fotoromanzo appena concluso (o sospeso) della covidmania in salsa russa raccontato da Riley Waggaman. Ci sono i guru in camice bianco come il primario della rianimazione del Kommunarka di Mosca Denis Protsenko, che nel 2020 denunciava le troppe morti da sovrainfezioni ospedaliere falsamente attribuite al Coronavirus, ma nel 2021 diventava un aedo della vaccinazione obbligatoria e subito dopo riceveva da Putin l’invito a candidarsi nel suo partito. Ci sono le pasionarie dell’informazione come Margarita Simonyan, la caporedattrice di Russia Today che accusava i non vaccinati di uccidere i bambini e si augurava di vederli morire strisciando. Ci sono i parlamentari che danno il buon esempio, come il leader ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky che il dicembre scorso annunciava la sua ottava dose in poco più di un anno (quattro mesi dopo è morto di Covid). Ci sono i tecnici bene introdotti come Veronika Skvortsova, già ministro della Salute e oggi direttrice dell’Agenzia federale medico-biologica (l’equivalente russo del nostro Istituto superiore di sanità), ma al tempo stesso membro con Anthony Fauci e Chris Elias (Bill & Melinda Gates Foundation) del Global Preparedness Monitoring Board che nel 2019 aveva annunciato «una minaccia molto concreta di una pandemia altamente contagiosa e letale di tipo respiratorio». E ci sono i governatori regionali più zaristi dello zar che fanno a gara a chi discrimina meglio e di più, come il pietroburghese Alexander Beglov che ha «tormentato» i suoi concittadini estendendo ovunque l’uso del QR code e promettendo loro che la città «non tornerà alla vita di prima».
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Sì, i vertici russi cantano nello stesso coro di Speranza e Trudeau, di Fauci e del miliardario di Seattle. Ma quanto sono stati capaci di convincere o costringere la popolazione a seguirli? Qui i pareri discordano. Per il più pessimista Waggaman, che si concentra su notizie e dichiarazioni ufficiali, molto. Eppure i numeri dimostrano che quello russo resta tra i popoli più diffidenti e più allergici ai dettami sanitari globali. Mentre scrivo, i russi che hanno completato il ciclo vaccinale prescritto sono poco più della metà del totale interessato, contro ad esempio l'ottanta per cento degli italiani: un numero ufficiale già ben al di sotto delle aspettative delle autorità ma che a sua volta potrebbe essere sovrastimato, se è vero che nel periodo pandemico «la vendita di falsi certificati vaccinali è stata la forma di truffa online più diffusa» in Russia. Che, detto nella patria dell'hacking, darebbe una certa idea del fenomeno.
Alcune persone che risiedono o hanno recentemente viaggiato nel Paese riferiscono al sottoscritto che anche i controlli per imporre l'uso dei dispositivi di protezione, l'isolamento e i lasciapassare digitali sono stati decisamente più «rilassati» che altrove. Queste testimonianze sembrano confermate da ciò che scrive Slavsquat sull'insofferenza quasi universale dei russi verso le nuove politiche sanitarie e dai sondaggi che cita, dove ad esempio emerge che oltre il 90% dei cittadini sarebbe stato contrario all'introduzione di un green pass nazionale. In pratica, riassumeva il blogger, «Russia Unita [il partito presidenziale promotore del QR code] e il suo asse di leccapiedi stanno votando contro la volontà dell'intero Paese». Percentuali di avversione così esorbitanti devono evidentemente includere non solo i controllati, ma anche buona parte dei controllori - forze dell'ordine, funzionari, esercenti, datori di lavoro ecc. - con ricadute prevedibili sui livelli di enforcement.
L'alterità del caso russo così energicamente smentita da Slavsquat si riaffaccerebbe dunque nella verticalità dei rapporti di potere e si salderebbe con il pur più debole dissenso di altri popoli, attraversando e rendendo labili le contrapposizioni tra blocchi politici. L'analisi così integrata restituirebbe la cronaca di un esperimento di globalizzazione al limite che deve scontare non solo la resistenza fuori dal comune di un popolo già vaccinato - quello sì - dagli eccessi di un totalitarismo recente, ma anche l'esigenza di reggere il ruolo dell'antagonista, dell'eccezione che dannerà o salverà il mondo. La stessa ambivalenza di Putin rifletterebbe lo sforzo di tenere insieme gli opposti poli di un vertice inzuppato dai globalisti e di un'aspirazione nazionale identitaria e multipolare, replicando in scala più estrema gli affanni di altri leader «sovranisti». La guerra e la successiva chiamata alle armi, come già le sanzioni, leniranno anche questi attriti con i balsami del patriottismo e dell'odio straniero. Resta da capire se offriranno anche l'occasione di una resa dei conti interna segnando l'inizio di un'emancipazione non solo retorica o se, al contrario, serviranno a coprire sotto il fracasso delle armi e lo sventolio delle opposte bandiere un'accelerazione delle convergenze in corso. Per rispondere occorrerà ancora una volta distogliere gli occhi dalla confusione del fronte e tenerli fissi sulle direttrici comuni, ignorare l'albero e considerare i frutti di cui la vicenda virale e i suoi corollari di biosecurity non sono gli unici esempi.
(continua)
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