Nel capitolo precedente di questa riflessione ci siamo esercitati a tradurre un'intervista di Enrico Letta sui recenti attentati in Francia. Lì si è appreso che, secondo le élites di cui Enrico è portavoce e rappresentante, i cittadini europei devono oggi parlare di guerra civile e conseguentemente alimentare una paura funzionale a un rafforzamento della sorveglianza pubblica sulla vita privata. Quella dell'intervistato non era un'opinione, né un consiglio, ma un imperativo accompagnato dalla minaccia esplicita di nuovi lutti: "Evidentemente gli attentati precedenti non hanno insegnato ancora abbastanza".
A corredo di queste più o meno consapevoli intimidazioni dai piani alti, i giornali si esibivano negli stessi giorni in un tormentone la cui sincronia tradiva il marchio inconfondibile dello spin: per fronteggiare il terrorismo islamico - scrivevano - facciamo come lo Stato di Israele.
Chi ci segue sa che in ogni retorica del #facciamocome si cela la volontà di estorcere il consenso delle masse insinuandone l'inadeguatezza e la colpa. Al tema abbiamo dedicato un ampio articolo e, prima ancora, un fortunato generatore online. Il caso in specie si ascrive certamente al fenomeno - gli europei frivoli e irresponsabili di fronte alla minaccia che incombe - ma con un supplemento problematico che merita un affondo.
La pedanteria è virtù dei lenti, sicché non ci è sempre facile seguire i nessi fulminei dell'opinionismo à la carte. Qui l'idea pare essere la seguente: che per fermare il terrorismo si debbano adottare le politiche del paese che, tra gli economicamente più avanzati (OCSE), è quello che più di tutti subisce l'impatto del terrorismo (Global Terrorism Index 2015).
Ciò è singolare. Applicando lo stesso principio, per ridurre l'inquinamento dovremmo quindi imitare i paesi più inquinati, per fermare gli omicidi prendere esempio da quelli in cui se ne commettono di più, per combattere la mafia ispirarci a quelli in cui la mafia spadroneggia, e via facendocome.
Il paradosso nasce evidentemente da una pretesa concezione naturalistica - cioè tecnocratica - del fenomeno, che ne oscura le cause umane rappresentandolo come una iattura senza storia. Se il terrorismo, al pari delle guerre, delle migrazioni e delle crisi economiche, non è governabile e non scaturisce dalle scelte politiche delle comunità, a queste ultime non resta che retrocedere negli stretti margini di uno stato di emergenza perpetuo per affidarsi alle strategie difensive dettate da chi si candida a governare le crisi. In questa prospettiva, fallace e funzionale alla soppressione della progettualità e delle alternative politiche, l'unica opzione concessa alle vittime sarebbe in effetti quella di adottare i palliativi di chi le ha precedute e aspettare che passi 'a nuttata.
Chi, senza interrogarsi sul perché qui e perché ora, giura che certi popoli e/o religioni portino il cromosoma del terrorismo nel sangue fa il paio con chi crede che altri - ad esempio il nostro - portino quello dell'inefficienza e della corruzione, e altri ancora quello della dirittura morale. Alla faticosa ricostruzione dei nessi contingenti e causali si sostituisce così una spiegazione ontologica e passepartout sempre valida, imperturbabile alla prova dei fatti. Più che una fine della storia à la Fukuyama si tratta allora una soppressione della storia come consequenzialità intellegibile di eventi, sulla cui tabula rasa è facile presentare i fallimenti come soluzioni e i responsabili come salvatori.
Sicché si può appunto invocare una militarizzazione in salsa israeliana senza interrogarsi sul ruolo di quest'ultima e dei suoi corollari - occupazione, rappresaglie, discriminazione ecc. - nel perpetuarsi della conflittualità che si vorrebbe scongiurare. O ancora, rimestare la brodaglia del Patriot Act che in 15 anni ha represso le vittime del terrorismo ma non il terrorismo. Per finire con le sempreverdi opzioni militari, il cui successo è certificato dal destino di Iraq e Afghanistan, che per avere ospitato la guerra al terrorismo sono balzati rispettivamente in prima e seconda posizione nel citato indice del terrorismo globale.
Le retoriche dell'emergenza, della radicalità e dell'insufficienza sono indici infallibili di una manipolazione in corso. Il Fate presto! si applica con ugual profitto alla sicurezza nazionale e alla politica estera come all'economia. In modo del tutto sovrapponibile, la crisi produttiva e occupazionale è narrata negli stessi termini antistorici - le nazioni oggi in crisi sarebbero sempre state arretrate e improduttive - e le sue dimostrabili cause ripresentate come ricette dolorose ma salvifiche per popoli ontologicamente bisognosi di rigore.
Tornando al nostro caso, dovrebbe stupire che i ragliatori dell'israelizzazione non si concentrino tanto sulle politiche antiterroristiche dello stato ebraico e sulla loro eventuale efficacia, quanto invece sulla necessità tutta psicologica e astratta di abbracciare la mentalità di quel popolo. A pochi giorni dalla strage di Nizza il Sole 24 Ore ospitava un'intervista a un tal Dominique Moïsi, politologo francese esperto di Medio Oriente. Ecco il succo:
Mi riferisco all’israelizzazione delle teste, degli stati d’animo, dei pensieri. Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che siamo in presenza di una minaccia permanente, imprevedibile, vicina e comportarci di conseguenza. Sviluppando una sorta di sesto senso per il pericolo. Ci serve un maggior controllo sociale, nei quartieri, nelle scuole, nei locali che frequentiamo, nelle famiglie.
E ancora:
... il fatto è che da noi c’è la radicata convinzione che si possa, si debba, vivere come sempre, come prima. E addirittura che questa è la risposta migliore alla minaccia terroristica, quasi un valore. E invece non possiamo, non dobbiamo continuare a vivere come prima, come se non fosse accaduto nulla.
Non servono orecchie raffinate per riconoscere in queste note lo stesso spartito interpretato dal nostro Enrico Letta. Se Moïsi - bontà sua - ritiene che il rischio di uno "scontro intercomunitario" o "guerra civile a bassa intensità" non debba essere "sovrastimato", per il resto si attiene al copione: dobbiamo avere paura, il pericolo è "permanente" (come e perché si sia materializzato non si sa, ma in compenso non avrà mai fine) e la nostra sicurezza impone un "maggior controllo sociale" e la rinuncia a vivere "come prima".
È francamente imbarazzante constatare come da decenni il trabiccolo di queste intimidazioni continui a trovare udienza nell'opinione pubblica. Qui abbiamo un esperto che, in quanto tale, dovrebbe informarci sulla natura del problema e fornirci gli strumenti per risolverlo. Mentre invece, da buon tecnocrate, ci rappresenta il fenomeno come un postulato immutabile e privo di causa e contesto, sì da poter ribaltare il problema sulle vittime: siamo noi che dobbiamo cambiare per adattarci alla minaccia, come già prima dovevamo adattarci alla crisi. In che modo? Accettando di peggiorare le nostre condizioni di vita e conferendo poteri ancora più ampi a chi ci governa.
Il che identifica non solo i fini delle politiche, ma anche degli appelli alla paura e alla remissione che puntuali le accompagnano.
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