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Digitocrazia e palazzismo


La tecnocrazia, recita asciuttamente l'Enciclopedia Garzanti, è un «sistema politico fondato sulla gestione del potere da parte degli esperti e dei tecnici delle varie discipline». A ben vedere è un concetto acefalo, un calembour autologico dove gli strumenti (la tecnica, i tecnici) di un'attività (κράτος, il potere) diventano di quest'ultima gli autori e finiscono così per rappresentarla senza un soggetto, dadaisticamente appesa a se stessa. La tecnocrazia è uno sterzo che guida, una scarpa che corre, ultimamente una scienza che parla. È la misera licenza della miseria progressista, di un cammino (gressŭs) che si dice proiettato in avanti (pro) senza però darsi la pena di distinguere il davanti dal dietro, l'alto dal basso, la tecnica di Hiroshima da quella di Fleming.

Gli inganni del governo tecnico si rivelano nei sottintesi che tacciono. Siccome non può darsi un atto senza un autore, chi finge che spetti al pilota decidere la meta del viaggio promuove da un lato la finzione corollaria e quadratica del «pilota automatico» (cit. Mario Draghi, 2013) e da lì governo degli algoritmi in cui l'umano è obsoleto, dall'altro consegue l'unico obiettivo plausibile di nascondere le umanissime dita che tirano i fili del timone «intelligente». Il tecnocrate è letteralmente il Turco, il robot scacchista creato nel Settecento da Wolfgang von Kempelen per stupire un pubblico così ottusamente fiducioso nei prodigi della tecnica da non sospettare che le braccia dell'automa erano in realtà mosse da un giocatore in carne ossa alloggiato al suo interno, sotto uno strato di ingranaggi messi a casaccio. Da allora non è cambiato davvero nulla, sennonché oggi la scacchiera è il mondo, le pedine i suoi popoli.

La tecnocrazia è insomma un'aristocrazia abscondita i cui ottimati non decretano nei consessi pubblici ma muovono gli arti di un golem che si promette senza passioni né peccato, zampettando come topi nel suo ventre buio e facendosi schermo dei meccanismi volutamente contraddittori e barocchi di ciò che chiamano diritto, economia, scienza. Sicché non è difficile comprendere che qualsiasi forma di governo partecipato o anche solo indirizzato a soddisfare una pluralità di bisogni non è compatibile con la tecnocrazia. Ne è piuttosto la vittima designata, fin dall'inizio, come lo sono coloro che hanno salutato nel progresso tecnoscientifico la via maestra dell'emancipazione degli ultimi.

Eppure la rappresentanza popolare regge almeno in effige, si svuota ma non tramonta, certamente per meglio dissimulare le mosse dello scacchista occulto incartandole nei fogli bollati della democrazia o di altri poteri riconosciuti. È interessante osservare i modi di questo asservimento. La metafora più calzante è quella della «digitalizzazione» che indica insieme una tecnologia sviluppata negli ultimi decenni e una concezione antica di cui le macchinette elettroniche sono l'utensile sinora più recente. Il digitale (dall'ingl. digit, «cifra») estende il riduzionismo matematico galileiano dalle realtà naturali a quelle umane e sociali e quindi a tutto, potendosi raffigurare tutto (cfr. ingl. figure, ancora «cifra») inanellando sequenze numeriche (byte). È il trionfo del «regno della quantità» di René Guénon dove esiste solo ciò che si può misurare e prezzare, un regno però lontanissimo dall'essere materialista, perché il numero sta ai numerabili come l'idea sta alle cose e delle cose viola la proprietà fondamentale, che è il limite. Mentre i numeri possono dividersi e moltiplicarsi all'infinito, le cose sono bloccate in basso dall'indivisibilità delle loro particelle minime (gr. άτομοι, «che non si possono tagliare»), in alto dalla loro scarsità naturale. Sicché la digitocrazia è innanzitutto la forma propria del capitalismo e della finanza, che per realizzare la moltiplicazione illimitata dell'utile monetario agganciano lo sfruttamento senza limiti degli uomini e della natura, fino alla spoliazione.

Come tutte le innovazioni, anche la declinazione elettronica dell'habitus digitale è il parto di un pensiero vecchio che cerca strumenti più affilati per tradursi in opera e annunciare nelle cose un modello destinato agli uomini e alla società. La digitocrazia contemporanea si specchia nell'informatica e nella telematica per attingervi non soltanto i mezzi, ma prima la visione e lo stile. Immagina le comunità come macchine da programmare, dischi vergini su cui far «girare» le istruzionidella norma giuridica, e i decisori pubblici come onnipotenti admin di sistema che possono accedere a tutti i file, anche i più critici e delicati, per sovrascrivere consuetudini, mentalità, diritti e costituzioni con la bacchetta magica di un click. Sull'esempio dei codici di programmazione, così anche il codice della legge diventa imperativoe procedurale, esprime solo comandi (do, print, read, break... die) e risolve solo con gli obblighi, sempre più fitti e asfissianti, non potendosi d'altronde concepire una macchina che si autodetermina. Se applicata al suddito digitale, la libertà è disvalore, imprevedibilità, undefined behavior, un «baco» che mette a rischio il sistema e va perciò represso a monte disegnando procedure chiuse (if, then, else, switch...) in grado di prevenire ogni possibile evento, o meglio di ridurre la varietà degli eventi possibili incasellandoli nelle griglie degli ausili informatici: moduli elettronici, portali online, app, identità digitali. Col pretesto di protendersi all'umano, il digitale lo aspira a sé e lo snatura.

L'affondo del silicio nella carne produce ferite e sepsi. Costretta nel dominio piatto del numerismo, la complessità reagisce con l'eccezione e il disordine, oppone all'eleganza dei flow chart l'irripetibilità dei caratteri, delle biografie e dei bisogni di ciascuno. Da qui, dall'ostinazione con cui la materia viva sfugge agli algoritmi morti, nasce la rabbiache informa il pensare e l'agire politico dei nostri giorni, la foga di escogitare sanzioni sempre più sproporzionate e severe, la ricerca dei soggetti indisciplinati o anche solo pensanti a cui addebitare il fallimento del programma con l'obiettivo di isolarli e sopprimerli, come i malware che infestano il PC. Al resistere degli usi e delle coscienze, il decisore-programmatore prende a pugni la macchina infedele, la scuote accecato dall'ira e non si fa scrupolo di rimuovere ogni cosa che si frapponga tra il comando e la sua esecuzione - anche la più consolidata, anche quella fino al giorno prima più sacra. Esasperato dagli insuccessi si lascerà infine tentare dalla soluzione più radicale: la riformattazione, il reset, il «grande reset», avendo cura di non lasciare backup.

Colpisce il fatto che anche chi deplora gli effetti di questo paradigma ne accetti l'impostazione, finendo così per rinforzarlo. La visione politica master-slave attribuisce un ruolo bulimico e spropositato al vertice programmante e crea così la convinzione che nulla possa accadere se non nelle «stanze dei bottoni», nei supremi consessi decisionali a cui occorre perciò rivolgere ogni attenzione e ogni sforzo. È però questa una visione socialmente e anche storicamente invertita. Nella realtà i soggetti politici sono la proiezione delle forze sociali che rappresentano: di queste sono la propaggine istituzionale e accessoria, da queste traggono peso e potere. Credere che qualche centinaia di omini con la valigetta possano cambiare le sorti di decine di milioni di individui e che lo possano fare discutendo, declamando e vergando risme è un'allucinazione che sta riducendo gli istituti di governo a un teatrino di sé, la cui prima vittima è la dimensione diffusa del fare politica, la capacità della polis di immaginarsi e plasmarsi come un organismo vivo, una civiltà. Chi si racconta che valgono solo i palazzi, che extra Romam nulla salus, rinuncia a coltivare nella società le risorse e i poteri da trasferire al vertice e abbandona la prima all'impotenza, il secondo al saccheggio di altri poteri.

Anche la fenomenologia del palazzismo è tecnica. Le ricadute concrete delle decisioni, prese o mancate, sono un dettaglio grossolano che il «cittadino informato» allontana da sé con fastidio. Preferisce strologare su dichiarazioni e tabulati di voto, audizioni, regolamenti, clausole, interpretazioni, emendamenti, equilibri, tattiche e compromessi, corroborato in ciò da un altrimenti inaccessibile archivio di informazioni e commenti offerti dalla rete internet. In aggiunta, i social creano l'illusione di poter conoscere la «vera» personalità, i «veri» obiettivi e i segreti rovelli di chi abita i palazzi, confondendone vieppiù gli atti nei fumenti del gossip e della psicologia d'accatto. Tutti presi dal come e irretiti dal techinicorum degli Abbondi massmediatici e parlamentari, nessuno si cura del cosa, dei frutti da cui solo si deve giudicare l'albero. La politica dell'evo tecnocratico muore dei travestimenti tecnici degli «esperti», ma anche della tecnica di sé.

Non è sempre stato così. La Democrazia Cristiana dominava l'arco costituzionale contando sull'alleanza della Chiesa cattolica e su una fitta rete di istituzioni, iniziative e clientele meticolosamente coltivate sul territorio: parrocchie, ordini religiosi, scuole, università, associazioni, sindacati (ACLI), missioni ecc. Nel mio minuscolo paese il rappresentate locale del partito collocava i giovani dell'oratorio al compimento degli studi, dava consigli legali, trovava medici e ospedali, mediava tra banche, imprenditori, amministratori locali e cittadini, battezzava cooperative, organizzava tornei e concerti, all'occorrenza combinava matrimoni. I comunisti aprivano case del popolo, società mutualistiche, circoli ARCI. Non avendo i numeri e gli appoggi per incidere in Parlamento, uscivano dal Parlamento e organizzavano scioperi a oltranza, cortei, occupazioni, giornali, sodalizi e reti di aiuto. Negli anni '70 Dario Fo e altri allestivano il Soccorso Rosso per fornire supporti economici e legali ai militanti colpiti dalla repressione, mentre i gruppi della sinistra extraparlamentare teorizzavano direttamente la necessità di disertare le istituzioni democratiche a sé nemiche e di contribuire alla lotta operaia con altri mezzi, come fecero. Nel 1969 la periferica Südtiroler Volkspartei otteneva una lunga serie di vantaggi amministrativi per l'Alto Adige pur con una rappresentanza letteralmente «zerovirgolista» (tre parlamentari nel Gruppo misto), avendo però saputo coltivarsi una base agguerrita e il sostegno diplomatico del governo austriaco.

La politica, diceva Rino Formica, è sangue e m...da, è la somma di tutte le forze e di tutte le violenze, visibili e invisibili, lecite e illecite. Se gli omini con la valigetta (o con lo scettro, nulla cambia) recidono i legami con la società restano soli e i loro palazzi diventano trappole per topi dove banchettano i predatori antisociali del lobbismo e delle congreghe. Non occorre qui ricordare il destino di chi, in ogni parte del globo, si è lanciato alla conquista della nave ammiraglia sognando di pigiare i tasti del digitocrate, salvo poi trovarsi i piedi incatenati allo scafo e un timone di cartapesta con cui fingersi padrone della rotta.

***

Tecnocrazia, digitocrazia e palazzismo sono epifenomeni dell'inversione moderna, che fin dai suoi esordi si illude di emendarsi rilanciando se stessa. È paradossale ma non casuale che la pretesa di mettere sul trono i numeri, la scienza e le applicazioni tecniche si stia consumando nell'epoca meno rispettosa del metodo scientifico e della coerenza aritmetica; che la visibilità degli «esperti» e delle voci «autorevoli» stia producendo una cacofonia di approssimazioni, previsioni smentite quasi in tempo reale, rottamazione delle nozioni acquisite più elementari, shock emotivi e laide incursioni moralistiche; che insomma la «scienza al governo» stia affondando i governi e la scienza insieme. Non diversamente, il palazzismo vuole imporsi nel momento di massima debolezza dei palazzi, quello in cui si fa strame di ogni principio e di ogni gerarchia del diritto, dove vincenti e vinti si ammucchiano in barba al voto e i discorsi elettorali evaporano come peti al vento. È perciò anche il momento in cui le forze antipopolari ed estranee all'ordinamento dominano più sfacciatamente che mai, le si rivendica anche: «i mercati», i comitati tecnico-scientifici, le «cabine di regia», le agenzie internazionali, le corporation straniere, i «filantropi» d'oltreoceano, il movimentismo globale. Tutti fuorché il popolo, tutti fuorché Dio. Per chi scrive è difficile non vedere anche in queste contraddizioni il tentativo dell'uomo contemporaneo di stendere un velo matematico sul caos e di trovare nell'algoritmo una disciplina e un senso che lo distolga dallo spettro dell’irrazionalità che monta, nel non umano una postura che gli renda sopportabile l'inumanità del suo mondo.


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Commenti

Riparo

Eccellenza, c'è sempre più bisogno di Lei

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Nando

"CAMPAGNA DI DISUMANIZZAZIONE"
Azzeccatissimo: ascoltate un po' di queste pubblicità che ci arrivano dal futuro prossimo:
link

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zeta

D'altronde chi è stato l'ultimo a sbandierare il primato della scienza e della ragione contro la "debolezza" della moralità, brandendo piuttosto la forza della tecnica? "Il cristianesimo è un'invenzione di cervelli malati, un insieme di mistificazioni ebraiche manipolate dai preti; è la prima religione a sterminare i suoi avversari in nome dell’amore; è intollerante, inganna il popolo, contraddice la ragione e lo sviluppo scientifico." (Adolf Hitler, Conversazioni a tavola)

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Riccù

Ho moltissima stima di lei, Pedante, e proprio per questo mi dispiace molto vedere sempre più distanza e implicite allusioni verso chi, fino a un paio di anni fa, era considerato avanguardia nella lotta comune contro un sistema malato e ingiusto.
Vedo attualmente vari fronti accesi sull'unico terreno di scontro: antropologia, educazione, libertà d'espressione, controllo sociale, economia; in altre parole: DDL zan, commissione odio, covid-19 e dintorni, regole economiche leuropee.
Penso che l'unica vera soluzione sarebbe quella di conquistare l'egemonia culturale, ma anche solo riuscire ad accreditare verso il grande pubblico le "nostre" istanze come assolutamente legittime e sane (pieno impiego, recupero del valore della politica "partitica" e dell'intervento dello Stato in economia, libertà di coscienza in tema di cure, recupero di una morale cattolica come cammino verso il bene, ... ).
Nell'attesa non ritengo sbagliato che qualcuno provi a tenere duro anche sul piano formale e istituzionale.
Non riesco davvero a capire come si possa considerare equivalente un provvedimento solamente annunciato rispetto a uno implementato, ammesso che non abbia frainteso qualche passaggio.
Con grande stima.

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↪ pippo

Gentile @Riccù ,
sindrome di Stoccolma ?

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Peppe

"... il tentativo dell'uomo contemporaneo di stendere un velo matematico sul caos e di trovare nell'algoritmo una disciplina e un senso che lo distolga dallo spettro dell’irrazionalità che monta...".
Ho sentito dire che i macchinari tolgano lavoro agli uomini: eppure non riescono ad esonerarli dalla responsabilità per un lavoro mal fatto.
Finché non accadono incidenti, l’autore del lavoro è il macchinario, quindi il lavoratore umano non deve essere retribuito.
Quando invece le cose non vanno secondo i piani, la responsabilità non è del macchinario, ma di qualche povero disgraziato che doveva sorvegliare il macchinario, o pilotarlo, o manutenerlo.
Se un drone uccide, su chi grava l'imputazione penale di omicidio? Su chi ha progettato il macchinario? Su chi lo ha costruito? Su chi lo ha testato? Su chi ha scritto l'algoritmo che pilota il macchinario? Su chi guidava il macchinario col radiocomando? Su chi ha creato un'interferenza radio quando il macchinario veniva pilotato a distanza col radiocomando?
Discorso analogo può farsi per l'automobile che si guida da sola e investe qualcuno - o finisce fuori strada per la gioia dei passeggeri – e, in generale, per tutti i settori ove l'uomo viene sostituito.
Esaltiamo le virtù salvifiche della macchina, salvo poi crocifiggere l’uomo quando la macchina fallisce miseramente.
Il robot toglie lavoro agli umani, ma se i giovani non lavorano è perché non hanno voglia di lavorare: in altre parole, il progresso toglie lavoro, ma se sei disoccupato la colpa è soltanto tua.

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↪ A

Gentile @Peppe, "Finché non accadono incidenti, l’autore del lavoro è il macchinario, quindi il lavoratore umano non deve essere retribuito.
Quando invece le cose non vanno secondo i piani, la responsabilità non è del macchinario, ma di qualche povero disgraziato che doveva sorvegliare il macchinario, o pilotarlo, o manutenerlo." Potrebbe essere così cortese da fare un esempio reale di lavoratore che non viene pagato per la sua opera, ma viene ritenuto responsabile se qualcosa va storto? Giusto epr saperlo.

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↪ pippo

Gentile @A, link

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roxgiuse

infatti il primo attacco per trasferire il potere dalla collettività ai potentati è stato portato alla struttura dei partiti, alla rappresentanza democratica, alla linfa finanziaria che li sosteneva. Senza di essi il potere ha smesso di promanare dal basso, vera essenza materiale della democrazia, per essere calato dall'alto. La rappresentanza democratica è così diventata un prodotto di marketing, partiti da zerovirgola giungono al 20% dei consensi perché piacciono in un momento contingente quanto un profumo o un abito, e in questo vuoto di democrazia si sono infilati in questi anni presidenti del consiglio calati dall'alto, alcuni senza neppure legittimazione elettorale, i cosiddetti tecnici, altri piombati nell'agone elettorale solo con molti soldi, quasi sempre opachi, come sul mercato delle automobili. Naturalmente il vuoto di potere è stato colmato, vorrei dire ictu oculi dalla finanza, visto che da lì arrivano 5 degli ultimi 10 PdC.
Mi fermo amareggiato perché il discorso andrebbe allargato alla stolida propaganda che ha fatto assimilare alla collettività, allo stato, i valori particolari dei ceti finanziari contro e a detrimento degli interessi specifici della società.

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Paolo Giusti

Immagina il Pedante descrivere sia come la tecnocrazia sia maschera del puro Potere sia che voler mettere le mani su quel potere sia sbagliato e credersi figo nel farlo. Immagina.
Spiace.

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Herzog

"...è difficile non vedere anche in queste contraddizioni il tentativo dell'uomo contemporaneo di stendere un velo matematico sul caos e di trovare nell'algoritmo una disciplina e un senso che lo distolga dallo spettro dell’irrazionalità che monta...".
Perfetto! Uno delizia! Grazie infinite al Pedante!
Io credo che in questa visione del Pedante si possa trovare una sintesi riguardante il "che fare" individuale per opporsi alla deriva collettiva (riprendo un'idea che qui ho espresso più volte in passato): credo che al "caos collettivo" provocato ad arte nella vita sociale sia necessario opporre un "caos individuale", ossia la massima imprevedibilità nei comportamenti individuali, allo scopo di rendere disfunzionali e ridicoli gli algoritmi, i veli matematici, i comitati tecnico-scientifici, le varie intelligenze artificiali, etc. Andrebbe tutto in "crash".

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Roberto

Spettacolare.

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A

Grazie.

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estest

"...trovare nell'algoritmo una disciplina e un senso che lo distolga dallo spettro dell’irrazionalità che monta..." meriti un premio per questa riflessione finale.

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Nina

Bentornato Pedante, e... Grazie!

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Mario M

Primacy of Numbers, dal film Naqoyqatsi di Godfrey Reggio e Philip Glass
link

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Giuliano

Chapeau!
Pregiato colpo d'occhio, "rotondo" (cit)
Grazie.

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fangorn

Il Pedante: "Anche la declinazione elettronica dell'habitus digitale è il parto di un pensiero vecchio che cerca strumenti più affilati per tradursi in opera e annunciare nelle cose un modello destinato agli uomini e alla società".
Era il 1883, e Lafargue preconizzava: "Ancora non comprendono che la macchina è il redentore dell'umanità, il Dio che riscatterà l’uomo dalle sordidae artes e dal lavoro salariato, il Dio che gli darà tempo liberato, ozio e libertà!"

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Rocco

Tecnocrazia digitale=I.A.

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