Le sentenze con cui la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla liceità dei più recenti obblighi di vaccinazione per determinate categorie professionali ha suscitato reazioni opposte: dall’entusiasmo di chi ha sempre sostenuto la bontà e la necessità delle misure «pandemiche» alla delusione di ha visto in quella pronuncia un tradimento della lettera e dello «spirito» della nostra Costituzione.
Per quanto inedito nelle forme, il tema non è nuovo nella sostanza. Va ricordato che nel nostro Paese le punture obbligatorie vigono ininterrottamente già dal lontano 1888, da quando cioè il primo Governo Crispi impose l’antivaiolosa a tutti i neonati e un successivo decreto attuativo stabilì che «nessun fanciullo potrà essere ammesso alle scuole pubbliche o private o agli esami ufficiali o in istituti di educazione e di beneficenza, qualunque carattere essi abbiano, pubblico o privato, o in fabbriche, officine, od opifici industriali di qualunque natura» senza il certificato di vaccinazione (DM 29 marzo 1892, n. 329, art. 16). Mezzo secolo dopo il governo Mussolini avrebbe introdotto anche il requisito dell’antidifterica, a pena delle stesse sanzioni (L. 6 giugno 1939, n. 891). La Repubblica nata dalle rovine della seconda guerra mondiale mantenne entrambi gli obblighi e ne aggiunse altri, in un crescendo continuo: antitetanica (1963), anti-poliomielite (1966) e anti-epatite B (1991) fino all’impennata del Decreto Lorenzin, che ha quasi triplicato le inoculazioni pediatriche obbligatorie portandole da quattro a dieci (DM 7 giugno 2017, n. 73), e ai recenti interventi succedutisi nel breve arco dell’«era Covid». Questi ultimi si sono distinti dai precedenti per l’ampiezza delle sanzioni previste e della platea coinvolta, l’impegno promozionale, gli strumenti di controllo adottati, l’indeterminatezza dei richiami e, per la prima volta, una pressoché nulla considerazione del principio di immunità naturale.
Tutto ciò, è vero, è avvenuto con l’avallo dei custodi della Carta costituzionale, ma è difficile accodarsi a chi oggi ne denuncia lo scempio. Perché, preso in sé, il secondo comma dell’articolo 32 non pone vincoli sul punto:
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Il comma è scarno, ma sorprendentemente convoluto. Nella prima parte («Nessuno può essere...») fissa un principio, salvo poi negarlo con l’eccettuativa della seconda parte («se non per disposizione…») e controvirare ancora su un altro principio. Apprendiamo dai verbali dell’Assemblea costituente che il testo, proposto come emendamento dagli onorevoli Paolo Rossi e Aldo Moro, era stato respinto dal Comitato di redazione e accolto non senza polemiche anche in seduta plenaria. L’on. Giuseppe Grassi obiettò che «se si rimette al legislatore la valutazione di quella che in futuro dovrebbe essere materia di legge, è inutile occuparsene nella Costituzione, poiché questo, praticamente, non limiterebbe la libertà del legislatore d'imporre determinate pratiche sanitarie» (seduta del 28 gennaio 1947, corsivo mio). Similmente, l’on. Giuseppe Arata osservò che non vi può evidentemente «essere un trattamento sanitario [o di qualsiasi altro tipo, n.d.A.] che sia obbligatorio senza una legge. Se così fosse diventerebbe un reato. Quindi la dizione è superflua e contradittoria in se stessa» (seduta del 24 aprile 1947).
Appare perciò debole lo scrupolo avanzato da Moro, di impedire che «disposizioni del genere possano essere prese dalle autorità senza l'intervento della legge» (seduta del 28 gennaio), perché ciò sarebbe appunto già illegale, per definizione. E se è vero che «l'inutilità del rinvio alla legge dovrebbe valere anche per molti altri casi, nei quali, nel testo costituzionale, è stato richiesto che si disponga per legge» (ibidem), bisogna però osservare che altrove le eccezioni all’inviolabilità della libertà personale (habeas corpus) sono soggette a riserve di giurisdizione ben articolate (artt. 13, 25, 111). Lo stesso non si può invece dire della terza frase del comma qui discusso («La legge non può in nessun caso...»), la quale nascerebbe come soluzione «prevalentemente, del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori» (ibidem) legati alle sperimentazioni eugenetiche e impone un «rispetto della persona umana» che è tanto generico quanto ridondante, se non anche pericoloso. Come ammonì infatti l’on. Roberto Lucifero d'Aprigliano, in «una Costituzione che garantisca la dignità umana in tutti i suoi aspetti» non si dovrebbe neanche «ammettere… che possano sorgere leggi lesive della dignità umana» (ibi). La lettera del comma licenziato, una volta espunto il pleonastico ed elise le negazioni, si limita dunque ad autorizzare lo Stato a imporre uno o più trattamenti sanitari, senz’altro aggiungere.
Il compito di articolare meglio il punto sarebbe toccato alla successiva giurisprudenza costituzionale e agli studiosi, che hanno indagato il perimetro di applicabilità della disposizione alla luce degli altri articoli della Carta, del diritto internazionale e del contesto storico, sanitario e sociale. Nell’appendice al mio ultimo libro l’avvocato Francesco Maimone ha compilato una vasta e ragionata rassegna del faticoso percorso dottrinale (qui il testo completo) con cui si è cercato di fissare un punto di equilibrio – necessariamente labile, perché non originario – tra i diritti costituzionalmente ordinati e una deroga che colpisce così intimamente l’inviolabilità della persona (art. 13).
Come si è detto, questo conflitto era ben avvertito dai alcuni costituenti e dà quasi certamente conto della scarsa linearità del comma, in cui si volle ciò nondimeno iscrivere l’autodeterminazione sanitaria tra i principi fondativi della Repubblica. La tentazione di non concedere alcuna eccezione di legge accompagnò anzi i membri dell’Assemblea fino all’ultima discussione. L’emendamento dell’on. Fabrizio Maffi che proponeva di sopprimere l’ultima parte del comma aveva già raccolto l’adesione di alcuni colleghi, sennonché lo stesso Maffi decise all’ultimo di ritirarlo. Avendo premesso anch’egli che l’inciso era «superfluo e contraddittorio», ciò nondimeno argomentava che
… non si possono dimenticare provvedimenti sanitari come la vaccinazione. L’individuo può essere sottoposto ad una vaccinazione che, per quanto egli possa esser contrario a subirla, gli viene imposta per legge. In tal caso la frase in discussione non è più impropria, e allora se vogliamo essere aderenti al concetto della vita sanitaria (sic), bisogna che sia votata (seduta del 24 aprile 1947).
Così il cerchio si chiude. L’ultimo comma dell’articolo 32 non può tutelare chi si oppone agli obblighi di vaccinazione perché è stato salvato precisamente… con lo scopo di imporli. Ma la sua formula e la sua storia continuano a rendere testimonianza di un dissidio tradito dalle parole del deputato socialista: la norma è sì contraddittoria, ma «bisogna che sia votata». Di un ossimoro che coniuga le più alte aspirazioni di libertà con la volontà di incatenarne i destinatari e che trova il suo emblema più nitido proprio nella vaccinazione di massa. Quest’ultima, ovviamente, da intendersi non come ritrovato farmacologico – ché se fosse soltanto tale, ne parlerebbero pochi specialisti e non l’universo mondo con la schiuma alla bocca, su tutti i giornali, in tutti i crocicchi e in tutte le aule del potere – ma come atto imperativo e strategico e quindi politico, sostituto simbolico di una concezione-ombra totalitaria che reclama un’adesione senza eccezioni e giustifica la negazione delle «libertà» che protesta sbandierando la ragion tecnica della scienza.
In tutto ciò la nostra Costituzione è solo la sottotrama di una storia incominciata altrove, quasi due secoli prima.
Quando, nella primavera del 1796, Edward Jenner somministrò la prima vaccinazione antivaiolosa della storia, la pratica di inoculare il virus presente su tessuti debolmente infetti per sviluppare un’immunità permanente (c.d. variolizzazione) era già diffusa da secoli in India, Cina, Medio Oriente, Sudan, Etiopia e più tardi nella stessa Europa, dove aveva riscosso l’entusiasmo di pensatori e filantropi specialmente in Inghilterra. Nasceva effettivamente allora, quasi mezzo secolo prima dell’invenzione di Jenner, la trionfante retorica vaccinale che si è trasmessa fino ai nostri giorni, tanto che oggi è piuttosto comune leggere in opere come L’innesto del vaiuolo (1765) di Giuseppe Parini, Sull’innesto del vaiuolo (1766) di Pietro Verri, Inoculation or Beauty's Triumph (1768) di Henry Jones o L’inoculation (1774) di Claude-Joseph Dorat, solo per citare alcuni esempi della vasta letteratura celebrativa dell'epoca, le apologie di una vaccinazione che invece non era stata ancora inventata, né forse immaginata. Queste circostanze stimolarono invece gli studi e gli esperimenti successivi del medico inglese, che impiegando un patogeno bovino e serializzando il trattamento secondo i canoni della nascente industrializzazione sviluppò un tecnica sì nuova, ma non propriamente «rivoluzionaria». Da una nota storica quasi coeva del prof. Luigi Sacco apprendiamo che l’uso di immunizzarsi infettandosi con la variante bovina era già consolidato in alcune regioni europee:
I contadini [irlandesi] ben persuasi della virtù Preservativa del Vajolo Vaccino, conducevano i loro figli alle Vacche malate di Vajolo perché maneggiando le pustule delle loro Mammelle, si inoculassero da se stessi la malattìa, e mediante questo innesto gli esentavano per sempre dai pericoli, e dalle inquietudini del Vajolo naturale. Anche i Medici di Germania ci hanno assicurato, che nel Holsthein esiste da tempo immemorabile il Vajolo contagioso nelle Vacche, e che gli Abitanti del Paese sono nella consuetudine di inocularlo col metodo semplice dei Campagnoli Irlandesi. È certo ugualmente che anche in Svizzera, e nei confini dell’Italia Settentrionale le Vacche viventi in Mandre sono soggette a questo Vajolo di natura Contagiosa per gli Uomini, ed ugualmente attivo per preservarli dal Vajolo Naturale.[1]
Il medico Giuseppe Ferrario scrisse in seguito che la stessa tecnica era documentata in Inghilterra, in Persia, a Berlino, in Carinzia, «in alcuni siti di Spagna» e in Val di Scalve (Bergamo), dove «havvi una tradizione secolare che s’introducessero le Vacche infette nelle case di quelli che voleansi vaccinare, onde preservarli dal Vajolo umano».[2] È invece dibattuta la nozione, pure accolta dalle enciclopedie mediche dell’Ottocento, che la tecnica della moderna vaccinazione antivaiolosa fosse già descritta negli antichi testi della medicina indiana.[3]
Il dato davvero rivoluzionario va dunque cercato altrove, nel collegato ideologico che ha celebrato quell’operazione facendone scaturire un dispositivo statuale di imposizione alle masse: trasformandola, cioè, in un’operazione politica. Affidata alle muse della propaganda, la vaccinazione partì sotto i crismi di un’indiscutibile crociata di civiltà contro la barbarie, sicché i suoi promotori ebbero gioco facile nel giustificare in suo nome coercizioni e ricatti.
Nasceva così l’archetipo di ogni moderna tecnocrazia in ogni campo, della pretesa cioè che a un fatto tecnico corrisponda un fatto politico e che il primo non sia ancillare, ma gerarchicamente superiore al secondo. La fallacia di questa idea emerse già nella campagna di vaccinazione condotta nei primi anni dell’Ottocento dagli ufficiali britannici nel sud dell’India.[4] Lì i benefici delle inoculazioni profilattiche erano già riconosciuti da tempi immemori, dunque le accuse di «ignoranza» e «superstiziosità» rivolte dagli inglesi alla popolazione che si opponeva all’iniezione jenneriana erano ingiuste, o forse meglio strumentali a nascondere il vero oggetto del rifiuto: non il (vecchio) merito scientifico, ma il (nuovo) metodo politico e culturale. È d’altronde significativo che nella citata ode pariniana quello stesso popolo asiatico «che noi chiamiam barbaro e rude» era invece definito «sagace» per avere intuito e praticato in anticipo precisamente ciò che quarant’anni dopo gli europei lo avrebbero accusato di rifiutare: «il buon punto… onde il mostro [il vaiolo] conquida, coraggioso lo sfida e lo astrigne ad usar ne la tenzone l’armi che ottuse [il virus attenuato] tra le man gli pone».
Lo
stesso componimento aiuta
a ricostruire il clima ideale
che per la prima volta
rese plausibile
impugnare una medicina come
un maglio per percuotere la
libertà dei popoli. L’ode
si apre con un altisonante
omaggio a Cristoforo
Colombo, la cui impresa è
celebrata
insistendo sulla presunta
ostilità dell’opinione
pubblica dell’epoca
che «deride i [s]uoi sperati eventi» e,
al suo ritorno, «il beffa
ancor sul lito». L’«eroe
nocchier» non deve però curarsi dei suoi detrattori e le
parole con cui il poeta lo
esorta a non desistere
– «ma tu il vulgo dispregia» – fissa il manifesto
dell’ode, il
disprezzo cioè del
popolo gretto
e conservatore come
condizione necessaria affinché la
società progredisca aprendosi
alle nuove conoscenze. Il
concetto ritorna
con insistenza.
Ecco «la turba ignara» che
«sprezza i novi mondi al prisco mondo avvezza». Ecco «la falsa
ragione» e «la falsa
pietate [che] contro al suo bene e contro al ver si mosse». Ecco
«il volgar debile ingegno»,
«il popolare error», il
«popolo ignorante» ma
anche «il popol colto, che
tropp’alto scorge». Più
che un’ode risulta
un’invettiva, un esercizio
di rancore epistocratico
che tradisce
la fede dell’autore
nel dispotismo illuminato del
secolo decimottavo, nella
credenza cioè che le riforme ispirate
dai filosofi illuministi dovessero
imporsi grazie
a un
«saggio» tiranno che
spazzasse via i retaggi
ideali, politici e religiosi del passato.
E che quell’opera
demolitrice sarebbe stata
tanto più riuscita quanto più avesse
frustrato le aspettative
della popolazione calpestandone
consuetudini, resistenze
e credenze. È qui superfluo
rimarcare l’attualità di
questa concezione che pulsa viva
negli appelli odierni
alle «scelte impopolari» e
agli «shock salutari», negli
«agenda» che non si possono rifiutare e
nel
progetto di una tabula rasa
ritradotto nel nuovo latino
in
un «grande
reset» accuratamente
elaborato in contumacia dei suoi destinatari.
Diffusasi in diverse corti europee, la nuova idea non portava alle estreme conseguenze l’assolutismo monarchico dei secoli precedenti ma anzi gli preparava la tomba, come fu evidente quando un drappello di riformisti fomentò la Rivoluzione di Francia e ne prese le redini innescando la dissoluzione dell’Europa aristocratica. L’assolutismo laico che ne scaturì superò quello di ogni precedente autocrate: non solo per la ferocia dei suoi metodi, ma più ancora perché pretese di agire in nome e per il bene di quello stesso popolo contro cui scagliò la sua furia, secondo il programma paternalistico dei philosophes: «Tout pour le peuple, rien par le peuple». Si consolidava così la seconda colonna della tirannide progressista, il suo celarsi cioè dietro il «popolo» sì da dissimulare il suo sprezzo del «volgar debile ingegno» assegnandogli un trono di carta. La retorica e le istituzioni democratiche si sarebbero da lì in poi prestate a schermare le responsabilità dei decisori occulti e manifesti – questi ultimi figuranti pro tempore, sempre scusabili perché costretti al «compromesso» – scaricandole sull’ologramma popolare. Per reggere il trono di carta fu allestito un palazzo di carta: la corte virtuale della propaganda che plasma, stabilisce e interpreta ciò che vuole «la gente». Nasceva in quegli anni il giornalismo politico d’opinione che avrebbe fissato lo standard dell’informazione di massa.
Il periodo rivoluzionario è davvero l’anno zero della nostra era, fucina di visioni e di pratiche poi normalizzate. Consideriamo il genocidio perpetrato in Vandea. Come ha documentato Reynald Secher, non si trattò di un disordinato catalogo di atrocità impunite, ma di un progetto consapevole e meticoloso di sterminio condotto secondo il criterio «scientifico» dell’eradicazione totale, primo esempio di Endlösung moderna spintasi fino alla cancellazione storica di sé («mémoricide»). Lo stesso approccio, che oggi chiameremmo «algoritmico», di (ri)programmare territori e persone saltando a pie’ pari ogni incomodo di mediazione e distinzione, si riflette anche nelle idee e poi nelle strategie di sanità pubblica. Le teorie politiche e le tecniche procedono come un sol corpo: se i progressisti europei «scoprono» la variolizzazione e ne cantano i prodigi negli stessi anni in cui sognano che il randello di un despota illuminato cali sulla plebe «al prisco mondo avvezza», la vaccinazione si annuncia al mondo nel V anno rivoluzionario, all’indomani del Terrore e all’alba del primo impero laico d’Europa. Ed è proprio in Francia e nelle repubbliche giacobine che, una volta approdata lungo la stessa rotta di Voltaire e di Montesquieu, dalle logge inglesi ai circoli d’oltralpe, si traduce quasi immediatamente in un dispositivo coattivo e indiscriminato di governo dei corpi.
Ormai addestrati a considerare il volgo come una massa zoonotica da disinfettare – dai retaggi, dal dissenso, dalle malattie o addirittura da se stessa, come suggeriva Thomas Malthus negli stessi anni – gli eredi della liberté giacobina non furono neanche sfiorati dall’idea che il nuovo rimedio potesse essere semplicemente offerto. L’obiettivo dell’eradicazione («extinction»), formulato dai comités vaccinali ancor prima che il preparato fosse testato e reso disponibile in tutta la nazione, reclamò uno sforzo di propaganda e di «persuasione» indirizzato specialmente alle fasce sociali più deboli. Dopo una timida fase iniziale di incentivazione attiva – due franchi per ogni figlio vaccinato, tazze di brodo (sic), medaglie e onorificenze ai vaccinatori più zelanti ecc. – si passò presto alle maniere forti per «costringere gli indigenti» all’iniezione: dalla negazione dei sussidi pubblici alle famiglie non in regola con la vaccinazione dei figli, al requisito di vaccinazione per accedere alle scuole domenicali (frequentate appunto dai ragazzi più poveri, costretti al lavoro durante la settimana) poi esteso ai pensionati studenteschi (1809), all’École normale supérieure di Parigi (1810) e infine a tutto l’esercito (1811).[5] È interessante notare che uno degli obiettivi del Comité Central de Vaccine formato nel 1804 era quello di istituire un sistema di certificati vaccinali, a cui si sarebbe in seguito collegata la facoltà di godere di alcuni diritti.[6] Gettato sul terreno dell’ideologia, il seme di una tecnica profilattica produceva una foresta di strategie di governo mai sperimentate prima.
Nelle repubbliche sorelle si seguì l’esempio della madre patria, in certi casi superandolo. Napoleone non arrivò mai a istituire un obbligo universale, secondo alcuni perché ancora troppo reticente a superare l’autorità dei patres familias (Marteau, op. cit.), sicché l’iniezione fu effettivamente imposta solo agli individui direttamente soggetti alla potestà pubblica: carcerati, orfani, collegiali, più tardi i soldati. Non ebbe simili scrupoli sua sorella Elisa, che già nel 1806 impose l’antivaiolosa a tutti i neonati e agli adulti non precedentemente contagiati del Principato di Lucca e Piombino, a pena di pesanti sanzioni. Trattandosi del primo provvedimento del genere, il nostro Paese si qualificò già allora, come duecento anni dopo nella capitale del nuovo impero, «capofila per le strategie vaccinali a livello mondiale».
Nella Repubblica Cisalpina si ricorda l’impegno frenetico profuso dal prof. Luigi Sacco, l’alfiere nostrano della vaccinazione che per convincere il maggior numero possibile di persone arrivò a comporre e distribuire una famosa omelia apologetica firmata da un inesistente «Vescovo di Goldstat» con cui i parroci avrebbero sciolto i dubbi dei fedeli dal pulpito.[7] L’espediente truffaldino fissava numerosi precedenti destinati a riproporsi: 1) l’accettabilità di diffondere informazioni false o incomplete per servire il bene superiore della massima adesione;[8] 2) il tentativo – quasi sempre riuscito – di coinvolgere le autorità religiose nella promozione;[9] 3) il reciproco sconfinamento dei discorsi sacro e scientifico. Se l’obiettivo più evidente dell’operazione era quello di dare visibilità e autorevolezza al messaggio,[10] i fitti riferimenti scritturali e dottrinali dell’Omelia[11] tradiscono la tentazione di un’usurpazione anche teologica, di sacramentalizzare il trattamento calandolo nei riti, nei dogmi e nei precetti della religione. Il finto sermone agiva su due fronti: da un lato istituiva un repertorio di immagini, vocaboli e rimandi a cui avrebbero ininterrottamente attinto i veri presuli, dal Pio VII dell’editto sulla vaccinazione obbligatoria (1822)[12] al Bergoglio dell’intervista al TG5, dall’altro apriva la fredda materia tecnica alle suggestioni provvidenzialistiche, fideistiche e soteriologiche del culto divino, gettando i semi dell’odierno fanatismo scientista.
Altrettanto emblematiche sono le vicende del Principato di Baviera, costituitosi in regno sotto l’egida francese e retto dal suo quasi plenipotenziario ministro Maximilian von Montgelas. Era quest’ultimo un aristocratico di origine savoiarda formatosi intellettualmente nelle ali più massimaliste dell’illuminismo e politicamente al servizio del principe elettore del Palatinato e Baviera, Carlo Teodoro di Wittelsbach. Nel 1785 fu allontanato da corte perché affiliato all’ordine degli Illuminati di Baviera, fondato (o rifondato) nove anni prima dal professore di filosofia Adam Weishaupt sui principi di uno gnosticismo anticristiano in cui confluivano istanze del razionalismo volterriano e simbologie esoteriche mutuate dall’antichità.[13] Rientrato in politica come funzionario nella contea palatina di Zweibrücken, lì si legò al progressista, frammassone e futuro erede dell’elettorato bavarese Massimiliano Giuseppe di Wittelsbach, che affiancò prima come segretario (1799) e poi come primo ministro (1806).
Fedele al suo retaggio, Montgelas fu filofrancese in politica estera e ultrariformista in patria. Oggi lo si celebra come benemerito della «secolarizzazione» e della lotta ai «privilegi» ecclesiastici, ma l’elenco dei suoi provvedimenti in questo campo sembra più semplicemente ispirato da un odio gratuito: il suo governo «si arrogò il diritto della formazione dell'ammissione dei preti, della nomina dei professori e della gestione finanziaria della Chiesa» saccheggiando biblioteche, conventi e monasteri, «vietò la recita del rosario in chiesa, le funzioni del rorate durante l'Avvento, la messa di mezzanotte a Natale, l'allestimento del Santo Sepolcro durante la Settimana Santa... la benedizione contro il pericolo dei temporali... le novene, le processioni, i pellegrinaggi» e lo scampanìo a distesa per i defunti.[14] In quanto alla «modernizzazione» che gli si ascrive oggi a vanto, essa si tradusse specialmente in un accentramento dei poteri, nell’istituzione di nuovi strumenti di controllo (sicché l’odierno progetto di digitalizzazione dell’amministrazione bavarese porta giustamente il suo nome: «Montgelas 3.0») e nell’introduzione di nuovi obblighi: di gabelle, di leva, di istruzione e, appunto, di vaccinazione (1806). Contro tanto sprezzo degli usi e della sensibilità dei sudditi, nel 1809 si sollevò il Tirolo, la parte più meridionale del Regno annessa alla fine del 1805 e specialmente legata agli istituti cattolici e imperiali. Ne seguì una guerriglia di secessione che quel grande statista sarebbe anche riuscito a perdere, se non fossero accorse in suo aiuto le truppe francesi.
Per quanto non ovviamente unico, l’obbligo dell’antivaiolosa non fu però nemmeno del tutto secondario tra i motivi che eccitarono la rivolta, il che offrì alla narrazione vincente la collaudata occasione di attribuire a un superstizioso rifiuto della «scienza» il rifiuto di un metodo rivelatosi dispotico e irriguardoso delle identità sotto tanti altri aspetti. In quanto ai frutti di quella linea dura che oggi fa scuola, basti osservare che a distanza di più di due secoli l’ex provincia austriaca di Bolzano è rimasta non solo una delle più particolaristiche ma anche, nello specifico, tra le meno vaccinate ancorché in assoluto più sane d’Europa.
La
storia e gli storici hanno dimostrato
che dopo
la
caduta di
Napoleone
a Waterloo furono sì ripristinati
gli antichi confini e le
antiche dinastie, ma ben
poco
fu fatto per mettere in discussione le
sorgenti
ideali a
cui il metodo
rivoluzionario
e
bonapartista si
era
abbeverato.
Sicché
quel metodo continuò a vivere sotto la creduta neutralità di un
«riformismo» che ebbe
tra
i
suoi più
efficienti
e insospettabili
vettori
proprio
le
«strategie»
– cioè, di
nuovo,
le
politiche –
divenute
consustanziali
al
ritrovato jenneriano. Queste
ultime, mentre
l’Europa abbagliata dai
«lumi» guardava il dito del progresso igienico,
puntavano alla luna di una
nuova visione dei rapporti sociali in cui le masse sono nominalmente
beneficiarie,
ma
sostanzialmente
antagoniste di
un’ascesi
collettiva
governata
da un
Olimpo
di
filantropi
che «dietro all’utile s’ostina» e va perciò
difeso
dall’ignoranza
della
plebe
che
«contra ragione or di natura abusa, or di ragion mal usa» (G. Parini, op. cit.).
È facile leggere in questo sviluppo una riorganizzazione concettuale del modello aristocratico mai defunto – perché forse immortale – in cui non vigono più i diritti del sangue secondo una gerarchia dichiarata, codificata e ordinata dai due vertici temporale e spirituale, bensì una sorta di nobiltà civica altrettanto indiscutibile e regolata da un «merito» la cui investitura è amministrata dalla cultura dominante: da chi cioè domina, orienta e forgia gli idoli culturali del momento. Né la nuova aristocrazia è meno capricciosa e proterva della ancienne, potendo anzi esibire al bisogno il mandato vero o presunto del popolo, sì da addossargli la responsabilità dei suoi mali. Il tema meriterà altri spazi, ma qui si anticipa che questa idea è penetrata a tal punto nella coscienza popolare che ultimamente lo sdegno del moderno patrizio e il suo timore dell’irragionevole massa è stato fatto proprio da quella stessa massa, in una sorta di ferencziana identificazione con l’aggressore. È ordinario oggidì che la gente si lagni de «la gente», l’italiano de «gli italiani», il giovane de «i giovani» ecc., implicando l’appartenenza almeno morale del mittente alla schiera dei reggitori savi e incompresi e realizzando in questa confusione di ruoli un classico diviser pour régner.
Tornando
al nostro articolo 32, questa incompleta perlustrazione
rinforza almeno in chi scrive l’idea
che anche
quella
finta libertà costituzionale
non
sia
che
un
avatar della liberté
repubblicana,
una
formula vuota ma necessaria
per dissimulare
la
premessa su
cui poggiano
tutti i regimi moderni, che cioè la
«turba ignara» del suo proprio bene vada trascinata in catene
sull'erta via del progresso. E
che dunque
la contraddizione denunciata dai costituenti non poté essere risolta
perché
è la contraddizione di un'epoca, la linea di un orizzonte che non si può varcare senza rimettere in forse un'antropologia intera. Coloro che hanno resistito non già alla salute pubblica, ma al salut public dell'omonimo comitato e alla pretesa di una salus terrena sequestrata da pochi onnipotenti, sono lì a ricordarcelo.
L. Sacco, alias Vescovo di Goldstat, alias L. Biagini, Omelia sopra il vangelo de la XIII domenica dopo la Pentecoste, varie edizioni, 1801-1802 e sgg. (v. infra). ↩
G. Ferrario, Vita ed opere del Grande vaccinatore Italiano D.r Luigi Sacco, Libreria di Francesco Sanvito, Milano, 1858. ↩
Cfr. D. Wujastyk, "A Pious Fraud:" The Indian Claims for pre-Jennerian Smallpox Vaccination, in Studies on Indian Medical History, 2001. Sulla base di alcuni precedenti (v. infra), lo studioso ritiene che l’informazione sia stata fabbricata e diffusa dall’amministrazione britannica per rendere la vaccinazione meglio accetta alle popolazioni locali. ↩
Cfr. N. Brimnes, Variolation, Vaccination and Popular Resistance in Early Colonial South India, DOI 10.1017/s0025727300000107. ↩
Cfr. A. Gérard, Le début de la vaccination jennerienne dans le département du Nord: accueil de la population, DOI 10.3406/rnord.1984.4028; T. Marteau, L’obligation vaccinale au XIXe siècle, in Actu-Juridique, 20/01/2022. ↩
Cfr. H. Bazin, Les membres du Comité Central de Vaccine, une poignée d’hommes qui ont bien mérité de leur patrie, et même de l’humanité, DOI 10.1016/S0001-4079(19)34519-4. ↩
L. Sacco, alias Vescovo di Goldstat, alias L. Biagini, op. cit. Lo storico Yves-Marie Bercé nota non senza ragione che «ce nom de ville d'or semble faire référence à un royaume d'utopie» (Le clergé et la diffusion de la vaccination, DOI 10.3406/rhef.1983.3298). «Città d’oro» era in effetti uno degli appellativi del nucleo urbano del mitico continente di Atlantide descritto da Platone, che specialmente dal Rinascimento e con la Nuova Atlantide (1624) di Francesco Bacone incarnò l’emblema della società perfetta, di un Eden perduto ma recuperabile in questa terra (cfr. D. Bigalli, Il mito della terra perduta: da Atlantide a Thule, Bevivino, 2010). Nella temperie esoterico-razionalistica dell’epoca qui considerata, una «golden city» appare anche nel primo titolo del capolavoro più oscuro e controverso di Percy Bysshe Shelley, The Revolution of the Golden City: A Vision of the Nineteenth Century (1818, pubblicato col titolo The Revolt of Islam), in cui si narra di una rivolta politica ispirata dagli ideali del socialismo, del femminismo e dell’ecologismo. ↩
Un’operazione simile pare essere stata condotta in India, dove l’orientalista Francis Whyte Ellis (1777-1819) avrebbe trascritto su un vecchio foglio una purāṇa in sanscrito da lui composta sulle presunte origini mitiche della vaccinazione, facendo poi credere che si trattasse di un ritrovamento archeologico. L’episodio è narrato nella biografia jenneriana di John Baron, The life of Edward Jenner with illustrations of his doctrines, and selections from his correspondence (1827). L’esercizio poetico dell’Ellis corrisponde molto verosimilmente a quello rinvenuto e pubblicato da Thomas Trautmann in Languages and nations: the Dravidian proof in colonial Madras, University of California Press, 2006, che però è in tamil. Tra i tanti e meno raffinati esempi contemporanei: La ministra Lorenzin: «I morti per morbillo a Londra? I dati sono alti». Ma è una bufala, in Giornalettismo, 21/07/2017. ↩
Già nelle prime campagne francesi, annota il Gérard, «sembra effettivamente che vi siano meno resistenze nel clero che nei funzionari. In generale, le autorità sono favorevoli alla vaccinazione e la maggioranza del clero cattolico le appoggia» (op. cit.). Sulle pressioni esercitate dalle autorità civili sui vescovi, i protagonisti e il dibattito sorto in seno alla Chiesa, cfr. Y. Bercé, op. cit. Ricordiamo tra gli esempi più recenti gli appelli del Pontefice alla vaccinazione anti-Covid, l’impegno promozionale assicurato dai vescovi campani agli amministratori regionali, il «kit» vaccinista distribuito dal Vaticano alle parrocchie ecc. ↩
Quella dei preti, scrive il traduttore (cioè il Sacco stesso), «è una Testimonianza, che non può essere sospetta né ai Dotti, né agli Ignoranti, perché le passioni dell’Uomo si concentrano nel silenzio, quando parla la Religione, e i ministri del Dio della Verità». ↩
Chi scrive ritiene che il Sacco possa ben essere l’autore della dedica e dell’appendice, ma difficilmente dell’omelia vera e propria. Per la qualità generale del testo, le alte tirature, la tempestività delle pubblicazioni e l’efficienza della distribuzione, è lecito credere si sia trattato di un progetto a più mani che godette di ampi sostegni, salvo quello, almeno ufficiale, della Chiesa. Per una storia editoriale dell’opera, cfr. A. Porro, Strategie di educazione sanitaria nelle campagne di vaccinazione. Le varie edizioni dell'Omelia sopra il Vangelo della XIII domenica dopo la Pentecoste (1802-1808), in A. Tagarelli et al., a cura di, Il vaiolo e la vaccinazione in Italia, CNR, 2004. ↩
L'editto firmato dal segretario di Stato card. Ettore Consalvi riproponeva le stesse misure già adottate dai governi laici, quali ad esempio i premi in denaro per i vaccinatori più efficienti, la subordinazione dei sussidi pubblici al possesso del certificato vaccinale («tutte le petizioni che si avanzeranno per godere di qualche tratto di beneficenza Sovrana dovranno essere accompagnate da un certificato dal quale risulti che il chiedente essendo padre di famiglia ha fatto praticare la vaccinazione, o che i figli hanno già avuto il vajuolo umano»), l’esautorazione dei medici obiettori ecc. ↩
Oltre che dagli scritti pubblici di Weishaupt, l’ideologia e le pratiche dell’ordine sono desumibili dagli atti dei processi celebrati contro gli affiliati in Baviera. L’abate Augustin Barruel ha esposto elementi della presunta dottrina esoterica del W. nei quattro tomi delle Mémoíres pour servir à l'histoire du Jacobinisme (1798), dove si sostiene tra l’altro il ruolo degli Illuminati e di altre società segrete nella pianificazione delle rivoluzioni americana e francese. ↩
J. Gelmi, Kirchengeschichte Tirols, Tyrolia-Verlag, Innsbruck, 1986, cit. in P. Egger et al., Andreas Hofer eroe della fede, Il Cerchio, Rimini, 1998. ↩
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