Questo articolo è stato pubblicato, in versione leggermente adattata, su La Verità di giovedì 17 novembre 2022.
Medico, ricercatore e direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano, il dottor Fabrizio Pregliasco è più noto al vasto pubblico come onnipresente esperto di Covid e castigatore di medici e infermieri non vaccinati, a suo dire non diversi dagli imboscati in guerra che «venivano fucilati sul posto». Il 7 novembre scorso era ospite di Massimo Giletti negli studi di “Non è l’arena”, dove è stato coinvolto in uno scherzoso siparietto canoro sulla falsa riga di una precedente e – giudichi il lettore quanto felicemente – celebre performance dell’anno scorso con i colleghi Bassetti e Crisanti, quando i tre cantarono ai microfoni di Rai Radio 1 «sì sì vax, vacciniamoci» sulle note di Jingle Bells.
In questa seconda prova musicale, il medico milanese si è cimentato nella parodia vaccinale di un altro classico natalizio: Tu scendi dalle stelle. Il salto di qualità – del pezzo, non dell’esecuzione – è notevole. Se infatti Jingle Bells, composto nel 1857 dall’americano James L. Pierpont, non è neanche un canto di Natale essendo stato scritto per allietare le gare di slittino che si disputavano il giorno del Ringraziamento negli Stati settentrionali (esisteva anche un genere dedicato: le sleighing songs), Tu scendi dalle stelle vanta invece una nobilissima genitura. Musica e testo portano la firma di Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), già principe del foro laureatosi a Napoli all'età di soli 16 anni e poi sacerdote, fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, vescovo e teologo, proclamato santo da Gregorio XVI (1839) e dottore della Chiesa da Pio IX (1871). Pastore infaticabile, Sant’Alfonso si prodigò per il benessere materiale e spirituale del suo gregge e pubblicò oltre cento opere di apologetica, dogmatica e teologia morale in lingua volgare, con uno stile limpido e scorrevole volutamente accessibile anche ai meno colti. Vantava inoltre una solida preparazione in campo artistico: allievo in gioventù del pittore barocco Francesco Solimena, fu un abile clavicembalista e autore di diversi inni sacri. La sua composizione universalmente più nota è stata composta a Nola o a Deliceto (Foggia) nel 1754, forse su una melodia più antica adattata alla cadenza ternaria dello stile pastorale secentesco. Ritenuta a lungo una rielaborazione del canto napoletano Quanno nascette Ninno pubblicato postumo e attribuito allo stesso autore, sarebbe invece un’opera originale di epoca precedente, laddove il pezzo vernacolare, secondo quanto è emerso dalle ricerche del musicologo e padre redentorista Paolo Saturno, sarebbe da attribuire a un coevo Mattia del Piano, sacerdote e seguace del de’ Liguori. Il testo di Tu scendi dalle stelle consta in tutto di sette strofe di endecasillabi liberamente rimati in cui si descrive la Natività di Nostro Signore esaltando i patimenti del Pargolo esposto alla precarietà e al freddo, per suscitare in chi ascolta pietà e gratitudine per il sacrificio di Chi «da ricco che era, si è fatto povero per voi» (2Cor 8,9).
Da allora sono cambiate molte cose. Oggi abbiamo altri santi, altri eroi. Oggi i predicatori non indossano la talare, ma un immacolato camice bianco. E la salute che predicano non è quella dell’etimo latino (salus, salvezza) ma, appunto, la sanità dei corpi che va protetta dalle forze invisibili di virus e batteri, come prima quella dell’anima dalle tentazioni infere. Oggi non si pecca più contro la purità, ma contro l’igiene. E le eresie non negano il catechismo, ma le linee guida. E ancora, i sacramenti che salvano non si prendono inginocchiati all’altare, ma negli ambulatori medici allestiti in certi casi nelle chiese, a sottolineare la continuità del senso. Si aggiornano le istituzioni e i riti, ma non le funzioni: dai tribunali della fede agli ordini professionali, dalle scomuniche alle radiazioni, dall’Indice dei libri proibiti ai banner che segnalano le fake news, dalle velette alle mascherine, dalla fede nelle cose divine al «credere nella scienza» ovverosia nel suo contrario, che cioè «sia necessario appoggiarsi all'opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d'un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda» (G. Galilei, Il saggiatore).
E quindi, perché no, si aggiornano anche le preghiere. Così nella versione del canto alfonsiano andata in onda qualche sera fa il «Dio del cielo» è diventato il «vaccino bello (sic)» e il cerchio si è finalmente chiuso, con il passaggio dall’allusione alla dissacrazione in prima serata. Per quanto sia evidente l’intenzione autoironica della boutade, non si può fingere di non vedervi anche l’ultima tappa di uno scivoloso percorso di divinizzazione di cose e decisioni umane che ha reso accettabile perché sacrosanta – letteralmente, sacra e santa – l’inflizione di sofferenze e discriminazioni gratuite a milioni di persone. Né si può tacere che quel percorso di sostituzione del sacro con l’ultimo vitello d’oro integra un peccato di idolatria che dovrebbe preoccupare non solo la Chiesa e i credenti in forza del primo comandamento, ma chiunque conosca e tema le conseguenze del fanatismo nella storia. Né, infine, possiamo esimerci dal domandarci per quale ragione ci si ostini a sconfinare direttamente o indirettamente nella dimensione della fede per promuovere qualcosa la cui bontà, ci ripetono sempre, sarebbe dimostrata dai «fatti» e dall’osservazione. Un dubbio che non sorge oggi, ma che accompagna fin dall’inizio di questa vicenda, già da quel grottesco convoglio che due anni fa attraversò le Alpi innevate («e vieni… al freddo e al gelo») sotto la scorta d’onore di guardie e telecamere per consegnare agli italiani le prime fiale, proprio la mattina di Natale. Una pantomima assurda secondo qualsiasi criterio logistico, ma fin troppo chiara nel suo sovrapporsi al mistero dell’Incarnazione per usurparne l'annuncio di salvezza.
Possono essere tanti e diversi i motivi di questo disordine, dalla (grave) superficialità di chi non si fa scrupoli pur di vendere un’opinione o un prodotto, al bisogno evidentemente mai liquidato – perché non liquidabile – di redenzione e di fede, fino alla volontà di qualcuno di incatenare quel bisogno agli idoli della terra proprio per impedire che sfoci in un culto autentico, cioè trascendentale, cioè libero dai potentati del secolo. Sono motivi che serpeggiano e serpeggeranno sempre nel cuore dell’uomo, ma che oggi si manifestano con un’evidenza così prepotente e volgare da rendere urgenti gli interrogativi posti dall’anchorman al termine di quella discutibile esibizione: «Amici, dove vado dopo una cosa del genere? Dove può andare dopo una cosa del genere?». Ecco, appunto. E dove siamo già arrivati? Sancte Alphonse, ora pro nobis.
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